La maledizione dell'insonnia
Il pieno giorno ha la maledizione dell’insonnia. Il bar chiuso, l’asfalto bagnato da una bava d’acqua e cloro, tre ciclisti senza fretta. Accanto alla macelleria chiusa, il negozio “Tutto a 10 Euro”, chiuso pure quello. Sulle panchine in piazza, quattro anziani seduti dall’alba, come le lattine del tiro a segno. Oltre la via, lo scorcio di una casa con una finestra vuota, la montagna, un fumo snello che sale. Muro di ex fabbrica con graffito “Mio figlio non è solo tuo”.
Ore 11,00: vado in ospedale a donare il sangue. Nel reparto ci sono soprattutto giovani: jeans a vita bassa e t-shirt con disegni violenti, le teste rasate, le sopracciglia sfoltite, la pelle scura per la vita all’aria aperta, molti tatuaggi su ex muscoli da palestra, lo sguardo senza pietà dei bambini che non sono mai stati. Una signora va a lamentarsi perché uno che perdeva sangue ha seminato piccole gocce lungo il corridoio, fino a dentro il lavandino del bagno. Un infermiere risponde: “Non è di questo reparto”. In bagno, la porta senza chiave. Al centro, una scritta a penna con numero di cellulare: “Te signora annoiata chiamami massima discrezione e pulizia”.
Il rubinetto senza filtro, niente sapone, niente carta igienica, niente specchi. Sulle pareti della sala donazione, le cartoline autografate dei cantanti Mimmo Dany e Alfio Lombardi. Mentre il sangue scende nelle sacche, le infermiere parlano di codici che non capiscono, di carte che non tocca a loro verificare, di pettegolezzi su colleghi che non nominano. Stesa sul lettino, guardo fuori la finestra un muro di cemento con una finestra chiusa. In alto, nuvole chiare che si spostano senza particolari intenzioni.
Ore 13,00: pranzo veloce, poi riposo.
Alle 14,00 di nuovo in giro. I quattro anziani del mattino seduti sulle panchine. Solo il vento è cambiato: ora la bandiera dell’Italia punta ad ovest. Mi avvio in un pigro giro nei dintorni. Figure insolite sulla variante: una straniera vestita di nero, una borsa di cuoio e una zappa in spalla, due pakistani appena scaricati da un tir che si avviano verso il centro, trascinando un trolley stracciato. Un ciclista senza una gamba va fortissimo solo con l’altra. Gruppi di casalinghe in pantacollant attillati fanno la camminata veloce a passo lento. Accanto alla pubblicità del supermercato, un 6x3 annuncia il matrimonio di due giovani. Con l’effetto flou, i visi racchiusi in un cuore, la scritta “Destinazione Paradiso: insieme per sempre”, la foto sembra quella di due fidanzati morti in un incidente stradale.
Davanti a un disco bar, una palma finta come ne crescerebbero dopo una catastrofe nucleare. Le fabbriche chiuse, con parcheggi grandi come aeroporti. Più avanti, piazzale con i bus di linea comunali fermi in una sosta da scasso. Nel bar, cerco il bagno attraverso la sala giochi. Contro il muro, cinque macchinette tutte occupate. Un ragazzo spinge il bacino contro i pulsanti come si scopa una puttana.
Cielo scuro, tuoni, poi solo una pioggia inconcludente, come se il temporale non ce la facesse ad arrivare, sospinto all’indietro dal silenzio delle periferie.
Verso l’agro-sarnese. Strade vuote, pochi ciclisti, poche auto. Aperti solo i bar, con insegne grandi come case. Molti punti scommesse e compro oro. Ovunque, monnezza finemente tritata. Terreni agricoli ricoperti di cellophane bianco: nell’incavo tra i solchi, bottiglie di birra vuote, un topo. Le recinzioni, fatte di pali che al posto delle reti hanno lunghi rattoppi di plastica nera. Plastica nera accanto ad ogni abitazione, i sacchi legati con lo scotch da imballaggio. Quelli investiti dalle auto, sventrati a centro strada. Chiuse le case, le saracinesche, le finestre. Davanti a un bar, operaio stradale che raschia una ventina di gratta e vinci. Più avanti, qualcuno ha spicconato il muro del ciglio, e ci ha ficcato dentro un Gesù Cristo grande come un nano.
L’autore della nicchia, però, ha preso male le misure, così ha dovuto rompere i mattoni giusto sulla testa per farcela entrare. Sui manifesti, le cantanti neo-melodiche agghindate come pornostar. Poi le pubblicità di parrucchieri e centri estetici, con foto di modelle sfigurate dal Photoshop. A ridosso dei campi coltivati, case abbandonate. Verso il paese poco cambia. Le abitazioni bombardate: l’intonaco crollato, porte ed infissi marciti, i colori tuttavia delicati nella resa dell’abbandono. Case tuttavia abitate; da una di queste esce una Mercedes fresca di lavaggio, con tutta la famiglia diretta al mare. Sull’asfalto, molte merde di cavallo disposte in mucchietti regolari, e toppe d’asfalto più numerose dei fossi. Nelle buche più profonde, gli avanzi sminuzzati di un cantiere edile che, diversamente, restano parcheggiati lungo le strade insieme a wc, lavatrici, a volte ad arredi completi.
Agli incroci, Ape Piaggio con venditori abusivi di cozze dalla faccia brutta, anche queste disposte in mucchietti regolari. Un venditore sta seduto con le cosce aperte quasi al centro della via, in pantaloncini corti e a torso nudo. Sul braccio, tatuato il Cuore di Gesù con la scritta “Mamma perdonami”.
Dalle mie parti piove; il cielo è viola e le montagne sono scomparse. Inutile tornare indietro. Meglio andare verso Pompei, seguendo paesi che si distinguono l’uno dall’altro solo per un’insegna ogni tanto. La strada che porta al centro è circondata da coltivazioni di cipolle, ortaggi e alberi da frutta. Case a un piano, messe male come nei sobborghi dell’Havana o di Caracas. Silenzio, odore di pioggia caduta lontano, l’afa dolciastra di una carogna nell’erba. Manifesti funebri soprattutto di giovani, scritti con molti errori e con grandi foto di Padre Pio. Appeso in alto al centro della strada, lo striscione della festa sembra quello di una sagra.
Al prossimo incrocio, in pieno deserto urbano, una famiglia di rumeni: lui suona con la fisarmonica la colonna sonora del film Titanic, la bimba balla coi braccioli per il mare attaccati alle braccia, la madre sorride offrendo il piatto delle offerte agli assenti di passaggio. Al centro del paese, l’insegna di un negozio come quelle che si vedono nelle metropoli fuori ai musei in occasione delle grandi mostre. Donne vestite a festa, con acconciature e abiti da cerimonia, in mano bouquet di fiori annegati tra tulle e brillantina.
A Pompei c’è un po’ di gente in strada, i negozi sono aperti uno dietro l’altro, senza riposo per lo sguardo. Nella piazza della cattedrale, solo tre ciclisti, una donna che tira il marito per un braccio come se fosse cieco, un pullman di suore calabresi, felici della visita alla Madonna. Un tizio vestito come il portaborse di un Ministro passeggia sul sagrato per controllare che nessuno parcheggi le biciclette accanto alle scale. Lungo il viale, molte bancarelle di souvenir. Turisti, pochi. Quello del bar dice che ne vengono sempre meno, da quando si è sparsa la voce che gli scavi se non sono chiusi crollano.
Alla fine, nemmeno oggi è piovuto. Il grigio si è mantenuto calmo, da sfondo a certi squarci di verde e case che ricordano la pacata inumanità delle foto di Ghirri. Paesi senza trucco. Se li osservi dall’alto di una curva, se ne stanno a valle come un mare da cui affiora ogni tanto un relitto. Poi, mano mano che scendi, quel mare diventa una risacca intessuta di grigi delicati, di verdi e rosa antichi, di ocre spente. Paesi che somigliano all’espressione che hanno a volte i pendolari dietro i vetri dei treni, come se la loro vita fosse all’improvviso quella del paesaggio che si scioglie, di tutte le cose che arrivano e che si perdono.