La maschera del padre: Marcello mio
L’atto iconoclasta di una profonda memoria affettiva. Si potrebbe definire così il gesto compiuto da Chiara Mastroianni in Marcello mio, con la complicità di Christophe Honoré dietro la macchina da presa. Al fianco dell’istrionica protagonista – ci si passi il termine abusato, ma è quello che meglio definisce la sua performance – un nutrito gruppo di attori, fra cui Catherine Deneuve e Fabrice Luchini, tutti pronti a fare a pezzi, simbolicamente e dolcemente, un’icona del cinema italiano. Sì, proprio quel Marcello lì.
Nel film di Honoré (passato in concorso all’ultimo Festival di Cannes: ne ha scritto qui Pietro Bianchi) si segue una Mastroianni (Chiara) vagante, divisa tra Francia e Italia, dedita all’inseguimento di quell’espressione indolente, di quegli occhi vivissimi e inafferrabili, di quella intonazione vocale dolciastra e bemolle di Mastroianni (Marcello). Chiara è un essere diviso; tuttavia la sua è una scissione che va aldilà dell’aspetto esteriore e quindi della scelta di vivere indossando i panni cinematografici del padre. La sua è una ripartizione mnemonica, una oscillazione continua tra il Mastroianni privato e quello pubblico, in grado di mostrare allo spettatore quanto la “maschera” di Marcello, tanto decantata e approfondita dagli studiosi, non sia nient’altro che ciò che noi vogliamo che sia.
Marcello è stato molte più persone di quante normalmente si creda. Chiara è quindi chiamata all’arduo compito di interpretare una figura profondamente scissa nella sua duplice lettura pubblico/privato: l’inettitudine, il machismo à l’envers di contro a un divismo sui generis (come ricorda infatti Costanzo Costantini: “[Marcello] amava ancora più la casa, la famiglia, gli amici, gli incontri con gli amici nel caffè che le ‘luci della ribalta’”). E per questa sua innata propensione al travestimento dell’anima forse ancora nessuno è stato in grado di dargli una giusta collocazione, una giusta rappresentazione sia essa memoriale o prettamente legata al lavoro attoriale. Date tutte queste premesse Chiara, in quanto se stessa e in quanto Mastroianni, decide di mimetizzarsi con l’immagine del padre e di prenderne definitivamente le distanze, accettando la caducità dell’attore e la fallibilità dell’uomo, rompendo il rettangolo del fotogramma, lo spazio “sacro” del Mastroianni che tutto il mondo conosce, segretamente desiderandone la “resurrezione”.
Perno insostituibile dell’asse “Chiara-Marcello” è, ovviamente, Catherine Deneuve. Un essere umano il cui “stare nella vita” sembrerebbe equivalere allo “stare sulla scena”; una donna il cui respiro coincide con quello del “silenzio, si gira”, che riesce a mostrarsi nuda di fronte alla macchina da presa solo quando Marcello – una Chiara ormai in fase di svestizione e di riassemblaggio del suo passato – la rimette in contatto con quello che è stato e che non sarà mai più, attraverso la memoria di un sentimento. Marcello mio non è quindi solo un film sul vestire i panni altrui, sulla capacità mimetica dell’attore, sul rimettere in scena: è soprattutto un esercizio nella memoria in quanto reminiscenza, quel precetto platonico secondo cui la “conservazione della sensazione” sia in grado di ripercorrere se stessa e “quelle affezioni che un tempo ha provato insieme col corpo”.
Lo scorrere di questa consapevolezza trova manifestazione visiva nell’elemento acquatico, poiché il corpo parlante di Chiara/Marcello perde e ritrova se stesso proprio nell’acqua. Alla folle e ingiustificata aggressività del servizio fotografico del prologo, dove Chiara è costretta nei panni di chi non sarà mai (Anita Ekberg), si contrappone, nel finale, la certezza di un corpo che rinasce come vita nuova: Chiara/Marcello, in completo bianco e piedi nudi, che ripercorre la sua tappa cinematografica più emblematica, quella della Dolce vita felliniana.
L’instabilità iniziale di Chiara, precedente alla presa di coscienza di se stessa in quanto Mastroianni, riflette in maniera involontaria quella che negli ultimi anni è diventata ormai una definizione proverbiale della maschera divistica del padre: “Sotto la facciata di una presunta ipermascolinità”, ha scritto Jacqueline Reich nel suo Beyond the Latin Lover, “si cela in realtà l’antieroe, l’inetto italiano, un uomo ormai fuori posto in un ambiente politico, sociale e sessuale in rapida evoluzione”. Per non lasciarsi contaminare da questa inadeguatezza, bisognerà quindi scavalcare l’immagine che Marcello ha dato di se stesso, come uomo e come attore, come inetto e come eroe al contrario, e capire invece come mettere in moto la sua “regione emotiva”.
Marcello mio, si diceva, divide l’azione in due confini sentimental-geografici: la Francia e l’Italia, e più specificamente Roma. Occorre dire che la prima porzione di film – quella francese per l’appunto – convince molto di più della seconda, persa nel suo spleen e nella sua flânerie. Il gioco regge, in parte, sino al teatro grottesco dello show televisivo, con il cammeo di una Stefania Sandrelli un poco diva e un poco veggente, che cerca di ritrovare il “vero” Marcello in un gruppo di sosia o sedicenti tali. Ma qui Honoré non sempre riesce a trovare quella leggerezza un po’ magica (à la Mastroianni?) che si addice a una epifania, salvo riagguantarla nel finale, al momento della vera riconciliazione.
Qui Marcello mio arriva molto vicino a una non-conclusione. Il che non è necessariamente un male, anzi: è il punto di partenza per una rivoluzione. Per far compiere al corpo – recitante e vivente, sottilissimo passaggio in cui risiede la questione dell’intero film – un giro convulso verso il suo principio. Così inadatto, così inetto, e al tempo stesso così necessario.