Marcello Mastroianni: una sovraumana normalità
In una recente intervista su “Il Venerdì di Repubblica”, Daniel Auteuil ha risposto così a una domanda sul proprio mestiere: “Ci sono gli attori che amano soffrire. Io al contrario appartengo alla scuola di Marcello Mastroianni”. Affermazione ben più che interessante, che conferma un sentimento ormai diffuso nel mondo attoriale: a cento anni dalla sua nascita (26 settembre 1924), Marcello Mastroianni c’è.
Il giovane di Fontana Liri (oggi provincia di Frosinone, all’epoca Terra di Lavoro) che fin da giovanissimo tenta la carriera d’attore tra gli spettacoli in parrocchia e le comparsate a Cinecittà, non è soltanto un padre con cui fare i conti. La luce che egli proietta sullo schermo vive ancora di vita propria, parla una lingua conosciuta e apprezzata da tutti gli spettatori. Marcello è nostro, per riprendere il titolo del film di Cristophe Honoré in cui Chiara Mastroianni veste i panni del padre; e tutta sua è la locandina della prossima edizione della Festa del Cinema di Roma, che lo ritrae con alcuni dei suoi oggetti-simbolo, la frusta e il cappello a tesa larga utilizzati nel 1963 in 8 ½ di Federico Fellini. “Marcellino”, come l’aveva soprannominato Fellini, rappresenta “un personaggio che pensa, è di un’altra civiltà”, secondo la definizione di Matilde Hochkofler riportata nel recentissimo Marcello Mastroianni (Carocci, 2024) firmato da Giulia Muggeo, docente di cinema presso l’Università di Torino. Nell’agile ma ben documentato volumetto, la studiosa ricorda fra l’altro come Fellini, posto di fronte alla scelta del protagonista per il suo La dolce vita (1960), avesse rifiutato il nome di Paul Newman, proposto dalla produzione: l’attore americano aveva, a suo dire, una faccia “troppo importante”, mentre lui cercava una “faccia qualsiasi”. “La faccia qualsiasi sono io”, mandò a dire Mastroianni, già in lizza per la parte. Sappiamo bene come andò a finire.
Non credo sia facile spiegare il meccanismo per cui “una faccia qualsiasi” diventi proprio quella faccia lì, con quel qualcosa in più capace di imporsi. Come in tutte le traiettorie complesse, Mastroianni va approfondito con la lente di ingrandimento dell’oggi. Quanti Mastroianni conosciamo? Marcello sornione e disperato nella Dolce vita felliniana, Marcello ossigenato e camp nella Decima vittima di Elio Petri (1965), Marcello irsuto e proletario nel Dramma della gelosia di Ettore Scola (1970), Marcello vulnerabile al telefono in Una giornata particolare (1977), ancora di Scola…
Mutano il colore dei capelli, la camminata, il look, lo sguardo. Eppure Mastroianni va sempre oltre la rappresentazione: Marcello è. Un atteggiamento che la generazione di interpreti maschili nata con gli anni Ottanta ha cercato in qualche modo di fare proprio, come dimostrano l’Alessandro Borghi di Campo di battaglia, l’Elio Germano di Iddu e il Luca Marinelli della serie M. Il figlio del secolo. Interpreti ormai formati e riconosciuti che trasformano voce, corpo e inflessione per essere altro da sé, seguendo quella “cultura dell’accumulazione” a suo tempo definita da Claudio Meldolesi: “Il nuovo attore si forma imitando il vecchio, per poi offrirsi all’imitazione dei successori e, ad ogni passaggio, insieme alle varianti dell’arte personale, si accumulano delle eredità nei corpi dei recitanti”. È una metodologia istrionica e allo stesso tempo sottrattiva, quella che Mastroianni lascia ai suoi colleghi: una ricerca intima tesa a inglobare e a rileggere in modo costruttivo, come ben suggerisce Muggeo, “l’indolente distacco dai discorsi superflui e tendenziosi dei critici, l’insofferenza nei confronti dell’invasione del suo spazio privato, la negazione di definizioni semplicistiche, cliché e stereotipi affibbiati dalla critica”.
Sono ancora le parole di Mastroianni a esprimere al meglio la questione. “Girare un film è diverso”, raccontava, “ti capita spesso di riprendere oggi una scena che hai interrotto un mese fa – e devi riprenderla al punto giusto, con la stessa emozione, lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso. È un lavoro d’istinto, quasi uno scatto automatico: tac, e riprendi dove hai lasciato. Come sarebbe possibile, se non ti sentissi costantemente nei panni di quel personaggio?”. Uno scatto, un click, un ciak, un istante: Mastroianni trasforma l’attimo in respiro e quel respiro si fa esistenza, modo e ragion d’essere. Un po’ come la figlia Chiara nel già ricordato Marcello mio, che per vivere appieno l’assenza del padre decide, per dirla con Louise Bourgeois, di distruggerlo e ricostruirlo.
Che sia un maschio italiano, un sex symbol, un latin lover, un macho-inetto; o che si rifaccia a “personaggi più complessi e contemporanei […] intellettuali nevrotici, estenuanti masochisti, mariti paradossalmente gravidi, erotomani mangioni, rivoluzionari traditori” (Lietta Tornabuoni), il dramma di Mastroianni si riversa tutto nella grammatica della propria definizione: un uomo-aggettivo, un altro che non era lui. “Io sono estremamente normale”, rispondeva Mastroianni a chi gli metteva sul piatto (e saranno in tantissimi, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta) il temuto e temibile mito del latin-lover. Per cui, banalmente, semplicisticamente, Marcello per tutti noi – il suo pubblico, la sua memoria – non può essere nient’altro che normale. Una normalità sovraumana, come quella che l’uso delle maschere nel teatro greco conferiva all’interprete sulla scena: poetica e pratica, poiché la giustificazione primaria di tale accorgimento era che l’espressione evocata dall’attore fosse vista e sentita anche da lontano. Lo schermo è il palco su cui si muove Mastroianni e il pubblico che lo vede da lontano – nello spazio, ma anche nel tempo – percepisce senza alcuno sforzo le emozioni da lui veicolate tramite il mezzo, così oscuro e così ambito, dell’immedesimazione.
A questo proposito non può che entrare in gioco Eduardo De Filippo. Per quanto le rispettive stature attoriali possano sembrare in apparenza lontanissime, la collaborazione tra i due – dai fasti di Domenico Soriano nel Matrimonio all’Italiana diretto da Vittorio De Sica (1964), sino allo strano esperimento di Spara forte, più forte… non capisco!, diretto dallo stesso Eduardo nel 1966, passando per una ipotetica versione per Broadway di Filumena Marturano mai andata in porto – si è sempre caratterizzata da una profonda stima. E se da parte sua Mastroianni si limitava a definire il drammaturgo napoletano “un artista eccezionale”, le note e stracitate parole di Eduardo sul lavoro attoriale possono aggiungere un tassello importante alla nostra lettura di Mastroianni.
“Le vere lacrime”, ha spiegato Eduardo, “negli occhi di un attore che stia interpretando una scena drammatica, disincantano il pubblico dalla finzione scenica: non è la propria commozione che un attore deve trasmettere al pubblico […] l’attore deve misurarsi, controllarsi, costringersi ininterrottamente. Mai commuoversi o immedesimarsi […] se il personaggio gli è estraneo meglio ancora. […] A teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione”. Sono parole che descrivono bene quel quanto di verosimiglianza che Mastroianni raggiunge calandosi nei panni della sua normalità. L’effetto straniante che questo passaggio esercita sullo spettatore, lo porta a credere e, per un momento, a tentare di pensare con gli occhi e con le orecchie del personaggio sullo schermo. La magia è tutta qui.
Insomma, l’unico sforzo da compiere quando si ha a che fare con Mastroianni è proprio quello di non vederlo. “Signori, siete stati fantastici finora. Collaborate ancora. Fate finta di non vedere Mastroianni”: così l’assistente di Robert Altman richiamava la folla ad un party in occasione dell’uscita di Prêt-à-porter (1994), in cui l’attore, in coppia con la partner di sempre Sophia Loren, faceva ironicamente il verso a se stesso in un cast affollatissimo di divi veri e finti, nel gran carnevale della moda parigina. La normalità di Mastroianni che decostruisce una parte di sé – l’icona, il simbolo ridondante – per ricostruire l’altra, il pezzo di umanità che è chiamato a interpretare sul set di un lungometraggio o sulle assi di un palcoscenico – come in quell’ultimo, lancinante, prolungato addio che è stata la tournée teatrale di Le ultime lune, interrotta per l’aggravarsi del tumore che se lo sarebbe portato via, nella sua casa di Parigi, il 19 dicembre 1996.
E poco importa se Marcello può assomigliare, come scriveva a suo tempo il grande Vittorio Spinazzola, a “un povero cucciolo imbambolato e maldestro, pieno magari di belle intenzioni e fieri propositi ma in sostanza più che mai bisognoso di affidarsi a una balia”. Perché quella balia di cui ha bisogno, in fin dei conti, è proprio il cinema.