La rabbia da Lutero a Trump
La Foresta Nera è una polveriera. Contadini e lavoratori della terra soffrono le angherie dei ricchi feudatari, i fogli delle tesi riformiste luterane si sono già diffuse rapidamente costituendo un impressionante successo editoriale e contribuendo all’alfabetizzazione del popolo tedesco: tira aria di malcontento e ribellione. La guerra dei contadini, Bauernkrieg, esplode tra il 1524 e il 1525 e si muove attraverso fogli volanti (Flügblattern), molto simili a quelli usati da Lutero. Tramite essi, alcuni personaggi di spicco, tra cui Thomas Müntzer, guidano la rivolta e consentono a gruppi fino a quel momento sparpagliati di riconoscersi tra loro: i contadini si sentono finalmente rappresentati e raccontati in quell’elenco scritto di richieste pre-democratiche sventolato da Müntzer e compagni e che circola a una velocità che, prima della stampa a caratteri mobili, non sarebbe stata possibile. Solo nella primavera del 1525, ne vengono stampate 25.000 copie: un numero straordinario per un documento uscito nemmeno ottant’anni dopo l’invenzione di Gutenberg.
Il Midwest statunitense, alla vigilia della presidenza Biden, nel 2021, è, per ragioni diverse, un’altra polveriera. I trumpisti, appena sconfitti, accusano i democratici di brogli elettorali, e alcuni gruppi armati, tutti difensori della vecchia cara America pre-obamiama (bastino i nomi che si sono dati: Oath Keepers, Proud Boys, Tea Party Patriots) e assidui frequentatori di comunità virtuali a tema WASP (White Anglo-Saxon Protestants) sui social media, assaltano Capitol Hill il 6 gennaio, nel tentativo di fermare la proclamazione di Biden a 46° presidente USA. Il tutto mentre Trump su Twitter li incita a marciare sul Campidoglio, salvo poi invitare alla calma e alla moderazione quando ormai l’irruzione è davvero avvenuta e un signore munito di corna è salito sullo scranno della speaker Nancy Pelosi.
Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone (2019) e Guida semiseria per aspiranti storici social (2022), racconta queste due storie in Cinquecento anni di rabbia. Rivolte e mezzi di comunicazione da Gutenberg a Capitol Hill (Bollati Boringhieri), mettendo a confronto le rivolte contadine della Germania cinquecentesca e l’irruzione a Capitol Hill del 2021 su una base, a suo dire, condivisa: entrambi gli avvenimenti, pur essendo lontanissimi nel tempo, nello spazio e nel contesto sociale e culturale, sono il risultato di una rabbia collettiva generata attraverso quelli che possiamo ritenere gli strumenti di comunicazione simbolo delle due epoche, i fogli stampati tramite caratteri mobili per i contadini coevi di Gutenberg e i social media per i populisti di destra coevi di Elon Musk. Comunicazione e politica. Secondo Filippi, è stata proprio la mediazione ottenuta tramite la carta, ieri, e tramite internet, oggi, a permettere la circolazione e la diffusione incontrollata di una rabbia generale contro il potere costituito e costituente. Generando una contro-narrazione rispetto a quella dominante e istituzionalizzata. Sul contrasto tra comunicazione dall’alto, precostituita, imposta, patriarcale, sovrana, e comunicazione dal basso, popolare, diffusa, ribelle, Filippi incentra il suo libro, mostrandone i risvolti storici e politici, proprio a partire da alcune innovazioni tecniche nel campo della comunicazione che si sono dimostrate decisive, performative.
Non c’è dunque alcuna differenza tra un pesante torchio del 1500 e gli impalpabili dati digitali con cui spediamo mail, leggiamo le notizie, facciamo vita social? Ci sono almeno cinquecento anni di distanza, moltissime e non paragonabili dissomiglianze tecniche, storiche, sociali, culturali. Ma, e su questo nessuno può aver dubbi, c’è in comune il fatto che entrambi, la stampa di Gutenberg e Internet, sono potenti mezzi di comunicazione. Cosa significa l’aggettivo “potente”, attribuito ai mezzi di comunicazione? Che sono in grado di cambiare le cose, di agire sullo status quo, di modificare i rapporti umani, sociali, politici, il modo in cui si produce e consumano i prodotti culturali. Così è stato tanto con la stampa che con la radio, la quale per la prima volta ha messo in connessione sponde lontane del mondo, facendo viaggiare la voce di dittatori e di cantanti, di soldati e scienziati, almeno fino all’arrivo, negli anni 50, della televisione che ha stravolto la fruizione culturale, informativa e di intrattenimento collettiva, ponendo ai critici e agli studiosi non pochi problemi di tipo politico, estetico, filosofico, sociologico. E producendo, insieme ad altri mezzi della nuova industria culturale che nel frattempo si era formata, quella opposizione caricaturale tra apocalittici e integrati, ovvero tra catastrofisti snob e entusiasti sempliciotti, su cui Eco incentra l’omonimo libro del 1964 (si veda lo Speciale di doppiozero per i sessant’anni dalla sua pubblicazione). In fondo, scrive Eco, sia gli apocalittici sia gli integrati commettono lo stesso errore: nessuno, tra i critici più oltranzisti e tra gli ottimisti tecnologici, si occupava davvero di televisione, o di fumetti, o di romanzo popolare, o di “musica gastronomica” (il jazz). O li si dava per nemici, a prescindere, per il solo fatto che producevano il cosiddetto cattivo gusto (dal lato degli apocalittici), spargendo alla periferia dell’impero, e così svilendo, quel che fino a quel momento era dominio dell’élite intellettuale; o li si dava per buoni, di default (dal lato degli integrati), per il solo fatto che permettevano a tutti indistintamente, soprattutto alle classi popolari, di accedere a contenuti editoriali, musicali, di intrattenimento, estetici, che prima erano appannaggio di pochi. Un arroccamento su posizioni che sono caricaturali, sì, ma fino a un certo punto perché, per Eco, sono più complementari che altro. Gli entusiasti della cultura di massa, infatti, non si pongono il problema dei potenziali effetti negativi di certa produzione di intrattenimento e informativa, che, se non opportunamente guidata, può diventare pericolosa e troppo paternalistica e controllante (per questo Eco invocava, per i media di allora, una bonifica culturale dall’interno, condotta dagli stessi “funzionari” che vi lavoravano). Dall’altro canto, i sessantottini che intendevano fare la rivoluzione e si scagliavano contro il potere mass-mediatico, contro la televisione omologante e le testate ufficiali, ricorrevano poi a telecamere, slogan, ciclostilati, giornali, magazine – cioè ad altri mezzi di comunicazione – per diffondere i propri messaggi di contro-potere.
Comunicazione chiama altra comunicazione, a ogni messaggio corrisponde un contro-messaggio, a un’emissione pianificata dall’alto può rispondere una ricezione potenzialmente invalidante e aberrata. È il problema della ricezione, che salva da una visione semplicistica della comunicazione: non riceviamo messaggi come bersagli muti, interpretiamo e fruiamo dei messaggi in modo attivo, a volte anche inedito.
Il potere, che si è da sempre costituito tramite il racconto di sé, è bilanciato da un altro racconto, infatti, che si genera attorno e contro di esso. La comunicazione agisce tanto quanto le armi, è questo quello che nel libro di Filippi è scritto molto chiaramente. Una volta soppressa nel sangue, poi, la rivolta dei contadini tedeschi animò almeno altri due generi di narrazioni, solo apparentemente contrastanti, scrive Filippi: la mitizzazione del personaggio Muntzer, icona dei ribelli, con la sua fissazione nell’immaginario collettivo tedesco attraverso saghe e racconti popolari, ma anche, d’altro canto, l’uso di questi avvenimenti di ribellione per costruire la storia tedesca ufficiale. La contro-narrazione dei fogli volanti che incarnava lo spirito dei contadini si era trasformata presto in un’altra contro-narrazione: quella costituita del potere centrale.
Tra i valori che hanno in comune le ribellioni raccontate da Filippi, c’è la retorica dell’uomo comune. Tanto la rabbia contadina di cinquecento anni fa, quanto quella degli estremisti-conservatori trumpiani, più reazionari che rivoluzionari, è la collera repressa della persona schiacciata dalla vita quotidiana, che non si sente rappresentata da nessuna parte, infelice di non rispecchiarsi in nessuna forza politica riconosciuta e in nessuna icona pubblica (fino a che non compaiono i Tomas Müntzer e i Donald Trump). E che scopre che esistono altri suoi simili, con i quali può riunirsi e identificarsi, finalmente, tramite i mezzi di comunicazione. “Come il contadino tedesco degli inizi del Cinquecento viene a conoscenza grazie alla stampa dei fogli volanti del fatto che il proprio disagio è lo stesso provato da migliaia di altri come lui, così l’abitante del Midwest degli Stati Uniti mette in circolo online la propria rabbia e la trova replicata, confermata, e solidificata da quella di milioni di persone che come lui hanno socializzato e reificato la propria rabbia” scrive Filippi (p. 208). L’uomo medio finalmente ha voce.
Ecco perché Filippi mette insieme fatti storici così distanti: perché ne dimostra la trasversalità di tipo culturale, mostrando come, in determinati e specifici contesti politici e sociali, presi come casi esemplari nel suo libro, i mezzi di comunicazione abbiano contribuito a trasformare i singoli in gruppi, gli individui, in collettivi che scoprivano di avere degli obiettivi in comune. Anche se i contadini tedeschi probabilmente non sapevano tutti leggere, c’era chi lo faceva per loro, e il solo fatto che iniziava, con la stampa, a generarsi un pubblico, portava stampatori e librai a produrre testi per quel pubblico lì.
I mezzi di comunicazione, dunque, non sono mezzi, intesi nel senso di strumenti (anche se Filippi chiama internet a un certo punto “megafono”), né tanto meno sono solo protesi, estensioni di noi stessi, sebbene si vada sempre in giro in loro compagnia (gli auricolari, gli smartwatch, il tablet e lo smartphone che contiene tutto ciò che serve per leggere notizie, vedere chi ha fatto cosa a ferragosto su Instagram, controllare mail, ascoltare musica, aggiornare la mamma sulla giornata, scoprire che la maestra vuole che i bambini portino un bicchiere di plastica colorato e una cannuccia domani in classe – urgentemente, ultima chiamata!). L’idea di strumento presuppone che ci sia un bisogno a monte, un obiettivo preesistente che un dato oggetto ci permette, poi, di soddisfare e di raggiungere. Così lo smartphone permetterebbe di tenere tutto sotto controllo, come minimo. Ma anche di essere genitori presenti, amici attenti, figli premurosi. Più che permetterlo, lo rende possibile in maniere inedite, trasforma il modo con cui entriamo in rapporto con gli altri, soprattutto agendo su tempi e ritmi con cui lo facciamo. E in queste maniere inedite c’è lo spazio per la significazione personale, per l’emersione del tic individuale, del tratto identitario, tra chi accumula messaggi su whatsapp e chi invece li legge tutti sempre, salvo poi dimenticarsi di averlo fatto, causandosi figuracce peggiori a quella di ignorare quel messaggio per giorni. Ecco, altro che strumento! c’è un’interfaccia che non è separabile dal modo in cui intratteniamo rapporti interpersonali, amicali, amorosi, maritali, genitoriali, lavorativi. Sarà per questo che oggi esistono tutti i modi possibili per evadere il contatto con gli altri, per non farsi raggiungere dalle chiamate e dai messaggini, per mettere in pausa le mail e i social: non c’è smartphone che non consenta una modalità di pausa da ciò che esso stesso ha reso possibile. Basta digitare – sempre sullo smartphone si intende – digital detox e apparirà un elenco di app capaci di spegnere altre app (Facebook, Instagram, Google, Twitter e Whatsapp in primis). Di comunicazione, insomma, sentiamo di averne abbastanza.
Il fatto è che i mezzi di comunicazione sono essi stessi attori sociali. Entità non-umane tra gli umani, trasformano la rete di relazioni intersoggettive, da quella domestica e familiare a quella pubblica e politica. Si interpongono tra singoli, certo, tra singoli e gruppi, tra gruppi sociali, tra intere comunità, tra istituzioni e cittadini, tra politici ed elettori, tra brand e consumatori, tra influencer e follower, per il fatto che essi stessi, i media, fanno parte del collettivo politico, amministrativo, civile, sociale. Non mediano, agiscono.
Stampa e internet, così come altri mezzi di comunicazione, dunque possono fare la rivoluzione. A patto però di considerarli come entità capaci di inserirsi a metà tra le persone e le storie, parte integrante di un mondo che è fatto di parole e cose insieme, di persone e oggetti, di soggetti e tecnologie, di sentimenti e inchiostro, di politica e pixel. Da qui, la rabbia: sentimento pre-politico, sostiene Filippi, eppure così intrinsecamente intersoggettivo, aggiungiamo noi. Ci si arrabbia perché qualcuno, nel privato e nel pubblico, ha disatteso le nostre aspettative, ha tradito la fiducia che gli avevamo riposto. Anche la rabbia, però, da sola non ha senso, nemmeno esiste: la rabbia dei sostenitori di Trump che si oppongono all’elezione di Biden esercitata e manifestata sui social media è un conto; quella vissuta e vista dai gruppi che irrompono al Campidoglio con tanto di armi, un’altra.
È con il mezzo che ci trasformiamo: un messaggino arrabbiato su whatsapp avrà lo stesso effetto del medesimo messaggio detto a voce, magari per telefono? E soprattutto, lo diremmo? Pensiamoci, se non vogliamo scatenare una rivoluzione.
In copertina, Interno della tipografia di Johannes Gutenberg, Auguste Ledoux, secondo Frédéric-Désiré Hillemacher, 1863.