Le selve dei monti Urali

16 Agosto 2013

In una fredda, piovosa, e, tutto sommato, lugubre mattina di Febbraio, il signor Harry Chapman, dopo aver terminato una colazione frugale come sempre, stramazzò al suolo. L’assistente sociale che, da anni ormai, lo visitava giornalmente, lo trovò riverso e privo di sensi. In pochi minuti, il signor Harry Chapman era in quell’ospedale dove mi trovavo a fare l’internato. Dato che era di tempra forte e di robusta costituzione (per non dire che era assai in carne), presto riprese i sensi e si vide circondato da alcuni medici, tra cui c'ero anch'io e perciò sono testimone oculare di questi eventi, oltre a dei giovani apprendisti ed infermiere che parlottavano tra di loro a bassa voce. Esitò un poco, girò lo sguardo sbalordito a destra ed a manca, inarcò le sopracciglia come fa colui che sta per sbottare improvviso colto da un incontrollabile attacco di rabbia, e poi si calmò e, sempre con fare attonito, disse con voce decisa e con quel tipico accento degli ebrei russi quando parlano inglese: “Sta scritto sul muro che Harry Chapman si prenderà cura del legname”. I medici e le infermiere si guardarono incuriositi, i due più giovani apprendisti frenarono a stento una risata (poiché lo presero per mezzo matto), qualcuno mormorò qualcosa di incomprensibile ma che chiaramente sapeva di compassione, e poi tutti lasciarono il vecchio Chapman solo con i propri pensieri.

 

Questa, caro lettore, è una storia un poco strana che esce dal solito tran-tran dei racconti di farfalle, anche se il nostro buonuomo era, a sua volta, appassionato conoscitore di insetti. Harry Chapman, il cui vero nome era Mikhail Israelevitch Chapman, era nato nei pressi di Pokrovsk Uralskyi, in un piccolo villaggio disperso tra le selve eterne dei monti Urali, ai margini orientali estremi dell’Europa e appena prima delle steppe fredde ed infinite della Siberia prossima, quelle che ospitano rare specie di farfalle e falene. Suo padre, Israel Alexandrevitch, era un commerciante ebreo fuggito da Gorkyi molti decenni addietro. Raggiunti i monti, si era fermato ed aveva messo su famiglia con Aygöl, una ragazza del luogo, di origine tatara, che a stento parlava il russo. Anzi, sbiaccicava le sue quattro parole con un accento del tutto particolare, cosa che aveva incuriosito il commerciante ebreo in cerca di moglie e ne aveva, in definitiva, attratto l'attenzione. Era un accento peculiare davvero, con quelle consonanti pronunciate dure e quella sorta di cantilena alla fine di ogni frase. Ma la ragazza, il cui nome in tataro significava "Fiore di luna" era anche bella, con quei lunghi capelli neri e gli occhi scuri ed incisivi; e così l'approccio di Israel Alexandrevitch finì in matrimonio in men che non si dica. Il matrimonio tra un ebreo ed una tatara, per giunta di religione mussulmana, aveva naturalmente provocato pettegolezzi a non finire a Pokrovsk e nei villaggi vicini. Ma Israel Alexandrevitch Chapman e la sua giovane sposa Aygöl non ci avevano fatto caso.

 

Mikhail Israelevitch Chapman nacque due anni dopo in primavera. Presto sulle sue gambe agili (aveva cominciato a camminare a soli nove mesi), sin da bambino aveva esplorato tutti i boschi dei dintorni, correndo e saltando come un capriolo, e manifestando un inconsueto interesse per le farfalle che, sugli Urali, volano a milioni. Così, persistendo testardamente quale un appassionato frequentatore dei boschi di Pokrovsk e un aspirante entomologo, trascorse con animo tranquillo e spensierato la propria infanzia e l’adolescenza. Sin dalla gioventù, poi, si era distinto per le sue qualità di taglialegna, un'arte che aveva appreso dagli anziani dei boschi che incontrava quotidianamente nella bella stagione durante le sue scorribande giornaliere con una sorta di rudimentale retino e i vari parafernalia del giovane appassionato di insetti. Al mestiere di taglialegna, essendo un testardo, egli aveva dedicato tutto se stesso divenendo ben presto il migliore della regione, come fu riconosciuto unanimamente, si racconta, da tutti i colleghi frequentatori dei boschi e delle selve di quel settore di Urali che si riunivano durante l'annuale festa del taglialegna alla fine della bella stagione. In giornate di grazia, tenuto allegro dalle farfalle che gli svolazzavano intorno e non avvertendo così la fatica, riusciva ad abbattere tre dozzine di alberi di grosso fusto, seguendo un metodo da lui ideato e che aveva un qualcosa di magico. Si racconta che fosse il risultato delle storie ascoltate da bambino dalla nonna materna, la nonna tatara che conosceva queste selve e le loro leggende secolari come poche altre nel villaggio.

 

Mikhail Israelevitch Chapman, oltre che amare le farfalle, era molto affezionato ai suoi alberi; era un qualcosa di profondo ed emotivo, inspiegabile, e li amava come null'altro al mondo. Si narra che, prima di abbatterli, si raccogliesse in preghiera abbracciato ai grandi tronchi che avrebbe di lì a poco attaccato con la scure, recitando litanie che mescolavano antichi canti ebraici, nonché nenie e filastrocche tatare. Non a caso, a causa di queste bizzarrie nell’abbattere gli alberi e dell’immancabile retino che portava sempre appresso, Mikhail Israelevitch Chapman fu, in quei tempi, indubbiamente il più popolare tra gli abitanti dei villaggi dei dintorni di Pokrovsk Uralskyi e lo si vedeva spesso quale ospite d’onore alle fiere della regione. Dove c'era una festa paesana, c'era lui a raccontare di farfalle, alberi e selve. Le sue avventure, in realtà un poco ripetitive e noiose, attraevano ciononostante i ragazzotti del villaggio, spesso aspiranti taglialegna come era stato lui in gioventù. La passione per le farfalle, invece, veniva interpretata, come è capitato a me centinaia di volte, come la piccola stranezza dell’eterno fanciullo.

In ragione della sua vita un poco selvaggia e un poco magica (secondo alcuni aveva anche qualcosa di mistico, ma non ho notizie precise su questo e preferisco non sottolinearlo troppo) che richiedeva sovente spedizioni di parecchi giorni nel profondo della selva e che l’obbligava a pernottamenti di fortuna in capanne di legno che egli costruiva rapidamente nel tardo pomeriggio con un’abilità straordinaria, Mikhail Israelevitch Chapman non si era mai sposato. Alle donne, per verità, egli preferiva farfalle, alberi e selve, e la vita libera e selvaggia. Neppure ci pensava più, dopo dei modestissimi ardori giovanili, mi confessò in un momento di lucidità. Anche suo padre, quando Mikhail Israelevitch era un giovanotto, si burlava un poco di lui e gli domandava come mai non lo si vedesse mai per mano con le ragazze del luogo invece che a zonzo con quel buffo retino: e dire che di belle giovani in età da marito ve ne erano parecchie nei dintorni di Pokrovsk Uralskyi, sia bionde che tatare, ovvero scure e misteriose, come si portassero dentro il segreto delle steppe dell'Asia Centrale che paiono infinite se si osservano dalle alture uraliche dell'est. Chissà veramente chi sono e da dove vengono questi tatari, di cui Mikhail Israelevitch aveva ereditato il fare un po’schivo e distaccato. Anche suo padre, Israel Alexendrevitch se lo era chiesto molte volte dopo il suo matrimonio con la bella Aygöl.

 

Così la vita trascorse tutto sommato tranquilla ed abbastanza uguale, tra lievi rincorse alle farfalle e poderosi colpi di scure, sino alla senilità. Proprio quando ormai meditava di smettere il lavoro tanto amato, a causa dei reumatismi alle ginocchia e alle spalle che da qualche anno gli tormentavano l’esistenza, Mikhail Israelevitch Chapman udì in paese che le guardie della rivoluzione (non ne sapeva granché di ciò che succedeva all’ovest e non se ne dava alcuna cura, in verità) davano la caccia agli ebrei. Stanco, annoiato e un poco amareggiato, ma certo non intenzionato a fare da preda a queste bande di cialtroni sguinzagliate sino ai tranquilli boschi di questa parte di mondo da parte di quegli arroganti burocrati che stanno a Mosca, Mikhail Israelevitch Chapman seguì il consiglio di alcuni amici della sinagoga, quella che lui frequentava una volta all’anno. Lasciò gli Urali e le selve piangendo e, nel mezzo di un turbine di sentimenti e di ricordi della nonna materna, la tatara che gli aveva insegnato le nenie e le filastrocche che si cantano ancora oggi sugli Urali, e dei suoi genitori, che riposavano da tempo nei due piccoli cimiteri del suo villaggio nei pressi di Pokrovsk, quello ebraico e quello musulmano, fuggì di buon passo verso la più vicina stazione ferroviaria, arrivò all’ovest sconosciuto e, appena poté, si imbarcò per raggiungere il Nuovo Mondo. Gli avevano detto che molti come lui erano già approdati in America per vivere da persone rispettate, indipendentemente dal loro credo, in mezzo a tanti altri che giungevano da ogni parte della Terra.

 

Essendo ormai anziano, lasciati le ragioni della sua vita - scure e retino -, ben poco apprese della nuova lingua. I conoscenti cominciarono a chiamarlo Harry, poichè era difficile pronunciare quel Mikhail Israelevitch, e lui vi si adattò. Finì per trovare qualche lavoro saltuario al porto sull’oceano, dove passava ore intere, talvolta, ad ammirare le lunghe onde grigie, quelle onde che nella sua mente lo avrebbero riportato un giorno al vecchio continente ed infine sui suoi Urali e le selve della fanciullezza. Raggiunse così la vecchiaia estrema in modo meno decoroso di ciò che avrebbe meritato dopo le faticose giornate passate per lunghi decenni tra le foreste natie. Ma così va la vita, ed a volte non si può davvero avere indietro ciò tutto che si è dato. Lui lo sapeva bene, venendo dalle foreste, e, conoscendo bene le farfalle e la loro proverbiale leggerezza del vivere, non se la prendeva più di tanto.

 

Fatto sta che egli aveva goduto di ottima salute sino a quell’indecente mattino di Febbraio, ed ora era lì, in una squallida camera grigia di un grande ospedale metropolitano della ricca America circondato da personaggi che poco comprendeva e che certo non apprezzava, anzi ne diffidava decisamente.

 

 

Risvegliandosi lentamente in quel letto d'ospedale rigido e bianco, aveva ripercorso con la mente i sentieri delle selve di Pokrovsk Uralskyi, quelli che lui conosceva a memoria sin dalla fanciullezza. Aveva ritrovato lo sguardo affettuoso e protettivo della nonna tatara, quello dolcissimo della madre Aygöl, e quello a volte scherzoso a volte severo degli amici boscaioli, e si era fermato a riposarsi nella propria capanna di legno, costruita qualche mese prima, con a fianco il fido retino della fanciullezza. Questa capanna era dotata di un rozzo ma robusto tavolaccio, di una stufa che si era portato dal villaggio, e di un pagliericcio creato su di un piedistallo in legno d’abete. Vi erano poi una credenza, ove conservava le cibarie durante le lunghe spedizioni nella foresta, uno sgabello e due sedie di rozzo taglio, ed infine una tinozza per l’acqua. Qui, pensava tra sé e sé, doveva aver dormito soporitamente, stanco per il lavoro del giorno prima quando ben venti abeti e dieci betulle erano caduti per sua mano. Si accorse di aver sognato a lungo che, un di’ di luglio, aveva dovuto lasciare gli Urali per fuggire di fronte alle guardie di un’assurda rivoluzione che non era mai terminata. Nel suo sogno egli aveva percorso migliaia di miglia prima di raggiungere il nuovo continente a bordo di una vecchia nave portoghese che faceva rotta sulle Azzorre e, di qui, verso la costa nord-americana. In quel lungo viaggio, Harry Chapman si era sentito solo, aveva pianto a lungo pensando a Pokrovsk Uralskyi e le sue selve profonde, ed aveva giurato di tornare al villaggio della sua fanciullezza quando i rivoluzionari sarebbero stati scacciati da gente più ragionevole e meno rozza.

 

Immerso in questi profondi sogni misti a pensieri, si era svegliato dopo che il medico dal camice bianco che parlava una lingua straniera lo aveva scosso ripetutamente: “Signor Chapman, signor Chapman!”, ripeteva, “Signor Chapman, forza è ora di bere un po’. Da quanto tempo non beveva a casa sua? Ma lo sa che gli anziani devono bere sempre?”. Harry Chapman pensò tra sé e sé che questo doveva essere uno squilibrato per dirgli certe cose, e ripeté ancora una volta “Sul muro sta scritto che Harry Chapman si prenderà cura del legname” e che non era il caso di urlare così tanto per qualche tronco ancora da ripulire e tagliare per bene. Disse che era compito suo, quale miglior taglialegna della regione di Pokrovsk Uralskyi, quello di accatastare i tronchi e di ripulirli, e che l’avrebbe fatto la notte stessa e che non valeva la pena di arrabbiarsi e dire sciocchezze.

 

Il medico in camice bianco scrollò le spalle con un gesto rassegnato, gli fece bere del té e se ne andò. Giunto il buio, e essendo la sua camera silensiosa e quieta, Harry Chapman, alla luce di una lanterna che bruciava un olio puzzolente, si alzò dal pagliericcio, uscì dalla capanna, e raccolse i suoi venti tronchi di abete e i dieci di betulla, li ripulì uno ad uno come era solito fare da anni, e li accatastò uno sull’altro con grande ordine come aveva promesso al medico in camice bianco che parlava una lingua straniera. Poi si riaddormentò. All’alba, si svegliò presto e di ottimo umore, dato che il lavoro era stato fatto, e si incamminò lungo il sentiero che lo avrebbe ricondotto al villaggio nei pressi di Pokrovsk Uralskyi. Lungo il sentiero, notò alcune belle e grandi Limenitis che non vedeva da anni e si fermò ad ammirarne una intenta a suggere dagli escrementi di un capriolo; non notò subito la nonna tatara che gli stava venendo incontro per avvertirlo che, in paese, lo attendevano per una festa in costume e che proprio lui era il festeggiato. Raggiunto il borgo e inoltratosi nel grande piazzale della festa, con sua grande sorpresa ritrovò tutti i taglialegna della regione; c’era anche Israel Alexandrevitch Chapman, suo padre, e la madre tatara Aygöl, c’era il rabbino della sinagoga, uno di quelli che gli avevano consigliato di andarsene all’epoca delle guardie rivoluzionarie, e c’erano pure alcuni dei lavoratori del porto della costa nord-americana che avevano con lui condiviso la nostalgia per il vecchio mondo. La festa fu di una grande vivacità, si ballò a lungo al suono delle balalaike, ed i giovani erano allegri per la vodka che scorreva a fiumi, proprio come si usa tra la gioventù di quelle parti da tempi immemori.

 

Quando il giorno giunse al tramonto, anche la festa terminò e gli amici, uno alla volta, rientrarono nelle loro case per la notte non prima di aver salutato il vecchio amico. Harry Chapman era felice. Non sapeva quanto fosse sogno e quanto realtà, ma che importa? L'importante era essere ancora lì vivo, allegro e sano, come quando era giovane e robusto. Non passò molto tempo che cominciò a chiedersi la ragione di tale sogno, perché tale pareva (come avrebbe potuto infatti giungere così velocemente al suo villaggio sugli Urali quando il giorno prima era stato poco bene e lo avevano costretto al letto in questo grigio ospedale?) e che cosa sarebbe davvero successo a lui, agli amici taglialegna, alla nonna tatara, ai genitori amati? Con questo per la mente, ora decisamente di cattivo umore, raggiunse la propria casetta nel villaggio nei pressi di Pokrovsk e si coricò stanco e un poco preoccupato. La notta passò rapidamente ed una nuova alba lo risvegliò pieno di pensieri sulla festa del giorno prima, gli amici taglialegna, la nonna tatara. Non capiva la ragione del suo fantasticare e temeva che, come gli aveva insegnato la nonna tatara, la magia del sogno lo avvolgesse interamente e finisse per dover darla vinta alle guardie della rivoluzione finendo così in una camera grigia di un ospedale in America, una camera dove medici stranieri in camice bianco gli avrebbero parlato in una lingua a lui incomprensibile in una triste giornata di Febbraio.

 

Per fortuna, a destarlo da quel pensiero ormai ossessivo ci pensò la nonna tatara urlandogli dal sentiero fuori della sua casetta: “Mikhail Israelevitch, giovanotto mio, è ora di andare alla selva! Le Limenitis sono in volo e ci sono ancora 30 alberi da abbattere prima di stasera!”. Mikhail Israelevitch si affacciò alla finestra felice di intendere quella voce, ancora in preda alle brume del dormiveglia, e rispose alla vecchia tatara: "Sta scritto sul muro che Harry Chapman si prenderà cura del legname!". Poi, rivoltosi al giovane uomo che dormiva nell'altro lettuccio di paglia della casa, aggiunse: "Straniero dal camice bianco, forza!, svegliati, è ora di andare alla selva. Le farfalle già volano veloci e ci aspetta una lunga e dura giornata; prima partiamo, meglio è.

 

Sta scritto sul muro che Harry Chapman si prenderà cura del legname". Così, malgrado la mia stanchezza causata dall'aver fatto le ore piccole, mi alzai, presi il mio sacco con un po’di alimenti, riempii la borraccia di acqua, afferrai il retino e la scure che Harry Chapman mi aveva preparata, e mi avviai lento verso la foresta seguendo il vecchio e instancabile taglialegna mentre un maschio di una inconsueta Pararge zigzagava intorno rincorrendo il maschio rivale che invadeva il suo territorio tra i cespugli. Di lì a poco, incominciammo ad abbattere secolari abeti di una grandezza che non avevo mai visto in vita mia.



New York, appunto veloce 1989; terminato una prima volta 12-2001; ripreso 3-2009; e terminato una seconda volta 12-2012. La terza volta, penso, cambierà ancora oppure ci sarà la parte che spiega come me ne uscii da quel pasticcio nella foresta degli Urali.

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