Lettere a Silvio D’Arzo
Leggo A Silvio D’Arzo cento lettere inedite e anche più a poche decine di metri in linea d’aria di quella che fu la casa della madre Rosalinda Comparoni.
Alzando lo sguardo, oltre la finestra ho in mezzo solo un alto salice, poche case e un torrente, il canale come lo chiama Silvio D’Arzo nella sua opera più riuscita e matura, Casa d’Altri; canale è anche come comunemente lo chiamiamo in paese.
Sono lettere inedite provenienti dall’ultimo fondo privato che ancora deteneva parte della corrispondenza e recentemente donate alla biblioteca Panizzi di Reggio Emilia; il libro che ne è scaturito è stato curato da Maurizio Festanti (Passigli 2024), con il contributo dell’Associazione Scrittori Reggiani. Si tratta di una corrispondenza che dal 1939 arriva fino al 1951, gli anni in cui Ezio Comparoni perseguì tentativi ostinati nel tentativo di far conoscere i suoi scritti, gli articoli, i racconti, i libri per ragazzi. Un unico romanzo pubblicato in vita – All’insegna del buon corsiero (Vallecchi 1942) – e, a parte alcuni articoli, tutto il resto della sua opera uscirà negli anni dopo la sua morte avvenuta quando aveva solo trentadue anni.
Silvio d’Arzo fu solo lo pseudonimo più usato tra quelli con cui firmava ciò che sentiva essere la migliore parte di sé – le sue opere – proponendola a giornali, riviste ed editori e contemporaneamente nascondendo una nascita con cui fece i conti per tutta la vita; portava infatti il cognome dalla madre, il padre ignoto. Un’evidenza anagrafica che oggi appare quasi trascurabile ma non allora se Rosalinda visse a Reggio Emilia tutta la vita allontanandosi dal paese e se gli pseudonimi di Ezio Comparoni fino alla fine furono per lui altrettanti nascondigli e negazioni.
Tutto questo apparterrebbe solo a sparsi e noti tratti biografici ma inevitabili se nel loro riproporsi hai di fronte la casa di Rosalinda e davanti e intorno le strade e i paesaggi in cui Ezio Comparoni ambientò Casa d’altri, Cerreto Alpi il paese.
Nel leggere le lettere inedite appare evidente che la corrispondenza pubblicata consentirà a studiosi e ricercatori di avvicinare nuove fonti documentarie utili a una migliore ricostruzione della vicenda letteraria ed esistenziale dello scrittore reggiano; un libro che si rivolge soprattutto a studiosi e ricercatori e che certamente coprirà dei vuoti ancora presenti nelle ricerche sull’autore, eppure…
Il testo riporta quasi esclusivamente le lettere degli interlocutori (direttori di giornali e riviste, un agente letterario, editori) di D’Arzo la cui voce perciò ci giunge indiretta e proprio per questo più “oggettiva” ma inevitabilmente in qualche modo parziale. Ne emergono comunque dialoghi – particolarmente significativi quello con l’agente letterario Louis Navarra e quello relativo al lungo carteggio con Ugo Guanda – in cui le speranze, la perseveranza, le ristrettezze economiche, gli apprezzamenti, soprattutto gli innumerevoli tentativi e i rifiuti letterari sono il panorama costante che riflettono le difficoltà della sua vita. Sono dunque dialoghi oggettivi quanto parziali e dove la trasmutazione in possibili completezze la fa il lettore potendo integrare il senso delle informazioni che riceve con quanto già conosce, con quanto avverte, tanto più nel mio caso se da sempre hai davanti la casa di Rosalinda e intorno il paese di Casa d’altri
Dunque leggo e scrivo di A Silvio D’Arzo cento lettere inedite e anche più e non posso fare a meno di pensare all’influenza del luogo, il paese che lo scrittore reggiano poté conoscere saltuariamente nelle brevi visite estive e certamente fin da piccolo attraverso le esperienze, i ricordi, le storie trasfigurate di leggenda della madre. Deve essere stata anche questa un’educazione che nello stretto legame con Rosalinda ha avuto la sua influenza su giovane Ezio. Una letteratura orale e popolare che non faccio fatica a immaginare, se come credo era sostanzialmente ancora la stessa raccontata da mia nonna e che ricordo riusciva ad affascinarmi da bambino: il libro del comando che andava aperto segretamente al canale, i briganti in agguato sui passi, i contrabbandieri, la roccia del diavolo a guardia del sentiero. Quella letteratura diffusa credo fosse solo una strategia inavvertita per confondere, fors’anche per venire a patti con la dura vita della gente dell’Alpe, in tempi e in luoghi che in fondo lassù erano ancora preindustriali.
Non sono forse luoghi cupi e preindustriali quelli degli inverni di Casa d’altri? Non ritroviamo forse tempi e atmosfere indefinite in All’insegna del buon Corsiero?
D’altra parte la narrativa di D’Arzo non è fatta di avvenimenti e tanto meno di azione, un’acuta sensibilità psicologia e atmosfere rarefatte o dense come altrettante nebbie sono ciò che trasfigura i suoi libri e che di più trattiene il lettore contemporaneo.
È parte del fascino che possiamo trovare nelle sue più riuscite pagine, un tempo in un certo senso atemporale e che negli anni della ricostruzione e del neorealismo può essere stato forse percepito come un limite, un corpo estraneo, letteratura curata ma in qualche modo anche aliena ai tempi vissuti. Può esserci anche questo nell’impressionante e travagliata storia dei rifiuti editoriali subiti? Può esserci stato anche questo nel consiglio di Enrico Vallecchi di cimentarsi con la letteratura giovanile?
Certamente il carteggio conferma come per D’Arzo la letteratura fosse tutto, terapia alla propria sofferente condizione, speranza di riscatto e riconoscimento, soprattutto vocazione esistenziale… solo molto indietro e solo sullo sfondo si avvertono la realtà e il clima sociale di quegli anni, nelle pagine del carteggio appena intuibili.
Fanno peraltro parte del libro e dell’immagine che via via si compone dello scrittore altri documenti come altrettante sorprese: il libretto universitario (non eccelse le sue valutazioni), alcuni brevi suoi scritti e due lettere rispettivamente di Cesare Zavattini e Luchino Visconti, ambedue del 1950, ambedue sbrigative nelle risposte, ambedue elusive. Il mondo cominciava a correre più in fretta, esserci sintonizzati era più che mai questione di fortuna, sensibilità, destrezza. Per lui la consolazione doveva essere difficile da trovare o forse poteva averla avuta solo nella consapevolezza della propria fragile, incrollabile coerenza.
Comunque sia, alla fine, nel leggere delle tribolazioni dell’autore reggiano, si ha anche la sensazione di essere di fronte a una sorta di specchio – lontano e insieme vicino – in cui vita e letteratura talvolta si confondono; più in generale per il lettore può affiorare la domanda, inattesa, di quanta vita possa esserci nella letteratura, di quanta letteratura possa esserci in una qualunque vita, a partire dalla nostra.
Dentro quale dimensione maggiormente riconoscersi può essere questione di momenti e sensibilità, ognuno solo con se stesso nelle tante curve dell’esistenza.
Resterebbe da dire del successo postumo di D’Arzo che lentamente si consolidò negli anni, e questo oltre la qualità della sua scrittura, oltre la definizione di “racconto perfetto” che Eugenio Montale fece di Casa d’altri.
Forse vale per lui, quello che è stato per altri: morire giovane con un destino incompiuto è di per sé sempre una storia che nessuno potrà scrivere, è sempre il mistero di una trama sconosciuta.
Suonerebbe come un paradosso per chi come Silvio D'Arzo di trama non ne volle mai sapere.