Identità nella diversità / Lévi-Strauss e il Giappone

30 Marzo 2017

Tra il 1977 e il 1988 Claude Lévi-Strauss visitò il Giappone cinque volte. Vi tenne varie conferenze e si dedicò all’esplorazione di quel paese nei momenti liberi dagli incontri pubblici. Si occupò in particolare all’attività degli artigiani e ai loro metodi di lavoro. Non era il primo intellettuale francese cui interessava il paese del Sol Levante. Roland Barthes ci ha lasciato uno straordinario resoconto del suo viaggio in Giappone, L’impero dei segni, e anche Michel Foucault aveva avvertito il fascino di quella civiltà fondata sulle maschere, il culto del rituale e della negazione di sé, come ricorda Patrik Wilcken nella biografia dell’antropologo, Il poeta in laboratorio (il Saggiatore, 2016). A Lévi-Strauss, attento a cogliere analogie e permanenze, il Giappone appare l’esatto opposto della Francia, il suo rovescio. Nelle interviste e negli interventi pubblici, raccolti in L’altra faccia della Luna. Scritti sul Giappone (tr. it di S. Facioni, Bompiani, 2015) l’antropologo francese rimarca come i gesti del lavoro siano inversi rispetto a quelli operati nella sua Francia: sarte e i sarti invece di spingere il filo nella cruna dell’ago indirizzano la cruna sul filo che resta fermo, i falegnami usano la sega tirandola verso di sé, e non spingendola, e la stessa cosa fanno con la pialla; anche il modo di salire a cavallo appare  inverso: nel Giappone antico si saliva da destra e si faceva entrare l’animale nella stalla all’indietro.

 

Un’altra cosa che lo colpisce è “l’arte dell’imperfetto” che si manifesta nella ceramica raku e in molti aspetti estetici di quella civiltà. L’Occidente, dichiara, è centrifugo, il Giappone centripeto. Caso raro tra i pensatori del XX secolo, il padre dell’antropologia strutturale ha evitato lo scoglio dell’eurocentrismo e in questi resoconti e conferenze giapponesi affronta alcune fondamentali questioni attuali. Lo conferma in Siamo tutti cannibali (tr. it. di R. Ferrara, il Mulino), volume curato da Marino Niola, cui si deve l’utile prefazione. Si tratta della raccolta di una serie d’interventi pubblicati sul quotidiano “La Repubblica” tra il 1989 e il 2000 quando l’antropologo aveva già ottant’anni, legati a fatti di cronaca, o almeno sollecitati da avvenimenti contemporanei come la mucca pazza, la morte di Diana Spencer, le discussioni sui gender studies, la sessualità femminile, l’organizzazione famigliare, il pensiero scientifico, il tipo di sviluppo possibile e altro ancora. Coloro che oggi discutono intorno al “matrimonio omosessuale” dovrebbero leggere le pagine che Lévi-Strauss dedica alla struttura delle famiglie, dove cita casi esemplari tratti dallo studio di popolazioni extraeuropee. Contrariamente a quello che si ritiene, scrive, non è la consanguineità a fondare la famiglia. Ci sono società in cui questa è composta da fratello e sorella e nessun padre: tutti i figli avuti dalla donna con partner diversi ne fanno integralmente parte.

 

Ph Daido Moriyama.


O altre società in cui la donna sterile può essere considerata un uomo e sposare una donna allevando con lei i suoi figli. Altre società aboliscono la categoria del marito, e si affidano ad altre forme di struttura escludendo quella biologica, puntando piuttosto su quella sociale. Detto questo, Lévi-Strauss, da vecchio saggio, sottolinea come  sia necessario per ogni società attenersi ai valori su cui è costruita: “Il nostro sistema di valori, che va rispettato come qualunque altro, sarebbe profondamente compromesso se, sullo stesso suolo, potessero esistere liberamente usanze percepite come incompatibili”. Così aggiunge esaminando il problema della escissione del clitoride attuata sul suolo francese insieme alla procreazione assistita. Discorsi complessi, ma resi chiari ed evidenti dalla sua prosa limpida e cartesiana. L’antropologo invita i legislatori a non aver fretta, a riflettere bene prima di legiferare. La sua idea, tratta dalla permanenza presso i Bororo del Brasile negli anni Trenta, come dai viaggi in Giappone quarant’anni dopo, è che la nascita di una civiltà mondiale rende molto duro lo scontro tra le differenze esterne e nel contempo incentiva anche quelle interne che vanno esplodendo. Il suo lascito ironico in questo contesto è: “gli etnologi avranno pane per i loro denti”.

 

Osservazione molto vera, quanto disattesa. Nell’aprile del 1986 la Fondazione Ishizaka lo invita a tenere tre lezioni intitolate: L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno (tr. it di Silvano Facioni, Bompiani, 2017). Scritte durante il quarto soggiorno nel paese del Sol Levante, come ricorda Maurice Olender, Lévi-Strauss attinge liberamente alle sue opere, rilegge i suoi testi che lo hanno reso celebre, riprende molti degli argomenti sociali che, scrive Olender, “non hanno smesso di inquietarlo, in particolare i legami tra “razza”, storia e cultura”. Medita inoltre sulle possibili forme di umanesimo in un mondo in piena trasformazione. L’occidente conserverà la sua supremazia culturale?, si domanda. Quali legami esistono tra relativismo culturale e giudizio morale? Tutti interrogativi oggi decisivi. Rimaste a lungo inedite, salvo una traduzione parziale in giapponese, queste conferenze appaiono di nuovo in italiano, dopo una prima edizione presso Rubettino. Si tratta di un testo in cui, davanti a un pubblico di orientali, il grande antropologo, scomparso centenario, affronta in dettaglio questioni scottanti del contemporaneo: l’identità, il razzismo, la fecondazione assistita, il lavoro, l’alimentazione. La sua preoccupazione essenziale è quella di mantenere aperto il dialogo tra le culture senza che tuttavia si perdano le differenze tra loro: la diversità nell’identità, così si potrebbe riassumere in uno slogan la sua ipotesi. Lévi-Strauss, autore del più bel libro di viaggi dell’ultimo secolo, Tristi tropici, apparso nel 1954, dedicato all’ascesa e al declino delle civiltà umane, oltre che ai ricordi della sua vita di antropologo e viaggiatore, è un critico acuto del melting pot, oggi uno dei capisaldi del “politicamente corretto”, ed è anche nemico sia dell’assimilazione sia del conformismo culturale, che sembrano diventati, negli oltre trent’anni trascorsi dai suoi interventi davanti al pubblico di Tokyo, realtà incontrovertibili della globalizzazione.

 

L’asserto fondamentale da cui parte è che “ogni cultura particolare, e l’insieme delle culture, di cui è fatta tutta l’umanità, possa sussistere e prosperare solo secondo un duplice ritmo di apertura e di chiusura, sia sfasate l’una in rapporto all’altra, sia coesistenti nella durata”. L’antropologo de Il pensiero selvaggio spiega ai suoi ospiti che ogni cultura, per essere originale, deve essere fedele a se stessa, al prezzo di una certa sordità a valori differenti, verso cui deve restare insensibile in modo parziale o anche totale. Insensibile, ma non disattenta. Del resto, sei anni dopo queste affermazioni, Lévi-Strauss pubblica su Le Monde quell’articolo sulla cultura del Sol Levante, dove analizza la propensione degli artigiani giapponesi a compiere movimenti rovesciati rispetto a quelli occidentali: non dall’interno verso l’esterno, bensì da fuori a dentro. Analizzando il termine uchi (casa, stanza riposta, interno), osserva che la cultura di quel paese è una sorta di via intermedia tra l’occidente e le altre culture orientali. Il Giappone quale terza via: chiuso in se stesso ma assolutamente aperto verso le novità dell’occidente, un paese e un popolo “che non si è consegnato, mani e piedi legati, a un modello straniero, ma si è temporaneamente allontanato dal suo centro di gravità spirituale solo per poterlo meglio tutelare proteggendo la sua orbita”, così afferma nella terza delle lezioni, là dove si avvia alle conclusioni. Gli è perfettamente chiaro, lo dice invece nell’esordio, che la cultura occidentale si trova in una situazione di crisi, poiché ha perduto il modello che si era data da sé e non osa più offrirne alle altre. E fa una serie di esempi interessanti, esaminando quelli che sono i “fondamentali” delle culture umane (parentela, lavoro, residenza, alimenti), non senza aver specificato che lo sguardo dell’antropologo deve essere come quello dell’attore del Teatro No: “imparare a vedere se stesso come se fosse lo spettatore”. L’esigenza primaria delle civiltà umane è di riprodursi, ossia di conservarsi nella durata; per questo presso molti popoli non esiste la differenza tra la filiazione dipendente dal legame biologico e quella fondata sul legame sociale.

 

Descrive alcune civiltà; ad esempio quella dei Samo, nel Burkina Faso, in cui il primo figlio della coppia matrimoniale è generato dal rapporto tra la donna e l’amante ufficiale, che è obbligata scegliersi per due anni come preparazione al matrimonio stesso. Uteri a prestito, coppie omosessuali che allevano figli dopo aver praticato la fecondazione assistita, famiglie in cui i bambini sono figli di più madri e più padri, mostrano come i problemi morali sollevati in Europa negli ultimi anni siano il frutto di assolutismi che non valgono altrove, e che nei ragionamenti di Lévi-Strauss appaiono quali regole sociali relative alla nostra civiltà, non iscritte nel patrimonio biologico. La natura umana, ci fa capire l’antropologo parigino, è il prodotto, da un lato, della biologia e delle sue costrizioni e, dall’altro, delle tradizioni e delle convenzioni che ci siamo dati. Il compito degli antropologi, chiosa il padre dello strutturalismo, è quello di mostrare i possibili “universali” della natura umana, e insieme d’indicare i possibili processi che possono svilupparsi, senza bollarli a priori come deviazioni da un ordine morale o perversioni. Le parti dedicate al lavoro umano sono illuminanti: “l’uomo non è puramente e semplicemente spinto a produrre sempre di più”. Le società primitive “ci insegnano che ci sono principi che permettono di convertire la quantità delle ricchezze prodotte in valori morali e sociali”. Il suo è un insegnamento politico che viene da lontano, ma sembra guardare più lontano ancora, grazie alla sua consuetudine con i miti remoti. Davvero, nonostante siano trascorsi tanti anni, queste lezioni non appaiono invecchiate. Ci permettono di gettare uno sguardo intellegibile verso il futuro anteriore che ci attende. 

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