Ma smettila! Nazionalismi e paure
Di fronte alle insidie della destra in tutta Europa è difficile non retrocedere in analogie con il passato poco utili. Il passato non illumina l’agire politico, ci offre una grammatica attraverso cui tentiamo di leggere quello che avviene, ma proprio come la lingua, dove conoscere etimologie non ne raffina o precisa l’uso, così nel pensare il mondo, la storia, sempre utilizzata con grande disinvoltura da tiranni di ogni tipo, dalla riedizione dell’impero romano di Mussolini alle farneticazioni putiniane che accompagnano i suoi carrarmati, non chiarisce il presente. Al più, proietta alle nostre spalle la nostalgia di senso per quel di cui siamo parte.
Per restare nell’analogia tra lingua e storia, la lingua che parliamo è fatta di mancanze, eccezioni, errori. Il parlato è sempre superiore al parlare correttamente, così come lo stile nella scrittura è profondo, incontrollabile, non la ripulitura che si dà alla fine a un manoscritto.
In generale le irregolarità sono il conto che la realtà ci presenta continuamente, riemersioni da substrati, invenzione di gerghi che travolgono le norme. È proprio quel che è irregolare a mostrare l’arbitrio e a volte la violenza delle norme. Le lingue naturali sono piene di incrostazioni, traumi, impennate, rivisitazioni, traduzioni. Tutto è sempre molto imperfetto. Vorremmo poter dire le cose in modo chiaro e semplice e già il volerlo racconta come in realtà quanto vogliamo raccontare sia più complicato, quante lingue, dialetti, registri, quanti comportamenti erotici e umani, quanti miscugli di Dei e umani, rimozioni e ricerche si agitino nel fondo, insomma quanto tutto è ampio. Dar forma a quello che si svolge in noi e davanti ai nostri occhi è un materiale che vorremmo fosse passato, ma preme invece da ogni lato, risorge, come la colpa, il rimpianto e il rimorso, come l’Angelus Novus di Benjamin, come le azioni dei padri e dei nonni, il fascismo che non muore mai, i crimini degli Argolidi (Agamennone, Clitemnestra, Oreste cc.) o dei Labdacidi (Cadmo, Labdaco, Laio, Edipo, Antigone Eteocle, Polinice e Ismene). Cicli di colpe che rinascono di generazione in generazione.
Anche più intimamente, la consapevolezza di un’ombra interna, quella che la psicanalisi descrive come inconscio e la letteratura e la musica coltivano con arte, il nostro segreto che si scioglie tra le braccia di un altro, quando l’inquietudine di essere se stessi si apre e si svolge in una relazione che ci accoglie, sono il marchio della diversità. Siamo diversi, sempre, dai nostri fratelli e genitori, dai vicini e dai compagni di scuola, dai passanti che come noi si sfiorano nelle strade della città. Consapevoli della nostra diversità, sorridiamo appena possiamo abolirla: scambiare due parole simpatiche con il giornalaio o il nostro barista, incontrare uno sconosciuto, sciogliere il peso di essere sé. Andare verso l’altro e, quando ci riesce, amare e conoscere. È così bello sorridere, che insieme è resa e incontro con l’altro, che sembra di ritrovare la vita. Smettere la propria diversità, lasciarsi attirare in un’abitudine in cui impariamo a smussare i nostri tratti distintivi per abitare quel luogo in cui essere sé non è più così difficile. Ma smettila! ci dice un amico con un invito scherzoso chiedendoci di non arroccarci in noi e tornare a essere insieme. A volte è possibile, si sorride di se stessi e si torna a far parte della vita con gli altri. A volte invece non riesce, l’ombra è troppo ampia, lì qualcuno si è suicidato, o c’è stata una violenza sessuale, o la guerra non è finita, tornare al tono scherzoso è troppo difficile, anzi ci irritiamo per la superficialità degli altri.
Tutto in noi allora torna diverso: in noi è precipitato male, la lingua, il corpo, la storia nella forma di nazioni che si sono combattute, migrazioni, assimilazioni, l’età, il genere, in breve, tutto il passato. Quello che è in definitiva l’inconscio freudiano, lo straniero che è in noi, il passato che Dio sa se ci piega la schiena.
In una intervista che avevo fatto a Londra circa trent’anni fa a Carlo Dionisotti per il Mattino di Napoli, gli avevo chiesto del fascismo. Parlando delle manifestazioni nella sua giovinezza e di chi erano i fascisti mi disse: i nazionalisti. Gli interventisti del 1914, i reduci ubriachi di patriottismo, di revanscismo, i nati dalla nostalgia.
Le diverse forme che prendono gli stati in Europa e l’Europa stessa, i contrasti che si articolano nelle elezioni americane, nella guerra in Ucraina o nello sterminio a Gaza, hanno tutte a che fare con la risposta di Dionisotti.
La grande passione come filologo di Dionisotti era stata il Quattro e Cinquecento italiano, ma aveva vissuto la maggior parte della vita adulta in Inghilterra ed era un appassionato lettore di Ugo Foscolo. Intorno al nostro romanticismo aveva visto formarsi un’idea di nazione moderna e la sua ideologia: il nazionalismo. All’inizio pieno di promesse, vi aderirono i migliori poeti e scrittori di almeno due generazioni. In seguito, sempre più prigioniero di una decadenza malmostosa, era finito nel fascismo. Certo, parlavano d’Italia anche Dante e Petrarca, Machiavelli addirittura ipotizzando una certa unione politica, ma nessuno di loro aveva in mente il progetto che ci è diventato così familiare e che ci fa oggi dire che essere italiano o tedesco, argentino o senegalese debba avere un significato, anche se è difficile spiegare quale sia. Se è il passaporto, ora che il passaporto europeo è desiderabile, ci sono pressioni dai russi a Cipro ai sudamericani discendenti di europei di diverse generazioni fa che hanno più o meno diritto ad averlo. Sono certo molti più dei nati e residenti in Europa. E perché dovrebbe avere più diritto a questo ambito documento qualcuno che è nato in Italia ma ha vissuto tutta la vita in Argentina, o magari i suoi figli o nipoti, piuttosto che un africano che sia arrivato illegalmente ma lavora in Italia? Se è l’adesione ai colori nello sport, quale più bella nazionale di quella allenata dall’argentino Velasco con Sylla, Egonu, Antropova, tra le nostre stelle?
Ma non è un’adesione sentimentale che fa la nazione, sono piuttosto cicli storici che in ognuno di noi mescolano materiali diversi. Mia nonna, come tutti quelli nati prima della prima guerra mondiale in buona parte del nord est, era nata austriaca; l’Italia aveva del resto solo cinquant’anni di più e il sogno romantico nazionalista era già in brandelli. Negli USA i discendenti di emigrati irlandesi (dai Kennedy ad Obama a Biden) o italiani, o gli WASP (white anglo saxon protestant), che a parte qualche famiglia arrivata con il Mayflower sono in gran maggioranza emigrati in America 100 o 150 anni fa, sembrano opporsi all’immigrazione di oggi. In base a quale principio? Oggi non si entra ma 100 anni fa sì? L’aver sterminato i nativi dà un diritto?
Nelle nostre biografie registriamo tutti il continuo passaggio delle forme dello stato da confederazioni e imperi a stati nazione e viceversa, i primi ispirati da una forma di integrazione di lingue e culture, o di sottomissione a una cultura dominante, i secondi appellandosi a una purezza che prende le armi contro gli altri. In tutti e due i casi siamo vulnerabili e diversi. Per origini, abitudini sessuali, per come percepiamo il nostro aspetto fisico. Non solo il colore della pelle ma anche l’altezza, il colore degli occhi, il tipo di corpo. Per come parliamo. A volte di più e a volte di meno, ma quando gli adolescenti si tormentano per il loro aspetto confrontandosi con idoli del cinema o del calcio, rivisitano dolorosamente una storia complicata quanto la lingua. Perché siamo diversi da idoli del calcio o della canzone? Come possiamo amare noi stessi e gli altri se questa diversità ci segna profondamente? Qualcuno dovrebbe dirci ma smettila! ma siamo circondati da guerre, gente che oggi affoga nel mediterraneo come nel secolo scorso si vedeva invasa, perseguitata, ridicolizzata da altri che si rifugiavano in un’ideale identità nazionale per paura della propria diversità. Per questo il fascismo è sempre omofobo, anti-migrazione, tende a imprigionare le donne, a sopprimere tutto quel che è diverso.
Quando si scatenano i pogrom alcuni, se possono, scappano, altri tentano di mimetizzarsi, assimilarsi, altri ancora si uniscono ai persecutori. Apollinaire, nato a Roma Guglielmo Alberto Wladimiro Apollinaire de Kostrowitzky, diviene un interventista francese per cercare di venire accolto nel delirio nazionalista che precipita nella prima guerra mondiale. Questo è il dolore di ognuno: la molteplicità della differenza e il terrore delle ondate di conformismo che risorgendo perseguitano i diversi e quindi ognuno di noi. La ricerca di identità nasce dalla profonda cognizione di quanto sia impossibile, così come è impossibile un amore sempre perfetto. La parola identità (da idem, medesimo) è un parossismo, perché non c’è mai o nulla di medesimo in noi, se non la prepotenza narcisista che vuole sopprimere l’altro e immagina di farlo per amore, assimilandolo a sé nel perverso desiderio di immaginare che l’amore per l’altro alla fine della fiera sia amore di sé. Un amore così non lo desideriamo affatto. È con l’altro che si aprono le porte, che il diverso, l’estraneo, lo sconosciuto sia il fondo del nostro carattere, il non familiare. Un fondo che non è storia e non è mai passato. Quanto sia impossibile dare una forma a quello che in noi tira in ogni direzione e si rifiuta a una regola è l’esperienza di ogni vivere. Non c’è maglioncino di cashmere o impiego rispettabile che possa calmare questa inquietudine.
La paura che nasce quando iniziano a serpeggiare nella società i temibili rivendicatori di purezze nazionali, etniche, religiose, linguistiche o di comportamento, è solo il senso della realtà. Sappiamo che si sforzano di rinchiudere l’altro nel proprio specchio e che mandano il cacciatore nella foresta con Biancaneve, perché gli riporti il cuore di chi lo specchio stesso gli ha rivelato essere più bello: l’altro.
Immagine di copertina: © Seomin Ko