Scene d’estate: Puglia / Due “divertimenti” sul teatro dei luoghi
Calibrare lo spettacolo sul luogo dove si rappresenta. Sembra una pratica contemporanea, il così chiamato site-specific, ma è costume antico, antichissimo. Potremmo anzi dire che oggi siano sempre minori le possibilità di varianti d’ambiente, atmosferiche, a causa del circuito teatrale, della regolarità di stagioni basate sul finanziamento pubblico, della necessità di ammortizzare produzioni in un giro di repliche il più possibile ampio. La regia ha introdotto una mentalità per cui lo spettacolo è una partitura da eseguire possibilmente in modo sempre uguale, che spesso trasforma l’attore in un travet che si accontenta di inventare in prova o di variare in modo assolutamente cauto nelle repliche, sì da non inficiare la coerenza dell’opera.
Quanto poi lo spettacolo sia effimero, legato a un luogo e a occasioni, e quanto poco di intoccabile in esso ci sia, ce lo rammenta la storia del teatro. Senza andare indietro fino alla Commedia dell’arte, possiamo ricordare come nell’ottocento e nel primo novecento le compagnie di teatro cambiassero titolo quasi ogni sera, adattandosi all’uditorio, e come l’opera vivesse in simbiosi con gli interpreti e con l’occasione. E come il melodramma abbia sempre vissuto di varianti.
Pasticcio
A questo proposito a rinfrescarci la memoria arriva un allestimento visto in quella bella, intelligente rassegna che è il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, nella collina sopra la martoriata Taranto. Nato nel 1975 dall’impegno di un gruppo di appassionati di musica con l’avallo di Paolo Grassi, di famiglia martinese e allora sovrintendente alla Scala, questa manifestazione ha sempre rivolto la propria attenzione a repertori musicali trascurati o considerati minori. Quest’anno, nel meraviglioso paese bianco, abbiamo visto un lavoro che condensa in sé molte delle pratiche della musica operistica del settecento. Si tratta del Rinaldo di Händel, ma non nella prima versione londinese del 1711, e neppure in una delle successive in cui il musicista tedesco riscrisse e riadattò parti o ruoli vocali.
È andato in scena il “pasticcio” (si chiama proprio così, a significare un genere composito) rappresentato a Napoli nel 1718 a palazzo reale per il genetliaco dell’imperatore d’Austria Carlo VI. Il primo interprete del protagonista del capolavoro londinese di Händel, il castrato Nicola Grimaldi detto Nicolini, aveva portato con sé nella capitale delle Due Sicilie la partitura, che venne riadattata da uno dei maestri della scuola napoletana, Leonardo Leo, aggiungendo recitativi, arie, pezzi d’insieme. Lo spettacolo fu arricchito ulteriormente con brani “di baule”, cioè cavalli di battaglia degli interpreti tratti da opere di altri autori (tra gli altri ce ne sono un paio di Vivaldi). Ecco, nel Settecento si faceva così: anche nei rari casi in cui si metteva in scena un’opera già rappresentata altrove, si introducevano novità di ogni tipo.
La meraviglia è scoprire uno spettacolo avvincente, anche se lungo più di quattro ore. Il merito è dei cantanti, bravissimi tutti (stratosferici il Rinaldo di Teresa Iervolino e l’Armida di Carmela Remigio), della direzione musicale di Fabio Luisi, della regia di Giorgio Sangati. Ma anche della capacità della partitura (riscoperta e revisionata da Giovanni Andrea Sechi) di intessere con estrema versatilità momenti diversi, lirici, patetici, drammatici, furenti, comici.
La storia è tratta dalla Gerusalemme liberata del Tasso, ed è una delle più frequentate nel melodramma tra sei e settecento, fino all’Armida di Rossini (1817). Il tema era particolarmente amato per le possibilità spettacolari che offriva. Centrali erano le magie di Armida, che per tenere Rinaldo lontano dalla battaglia dei crociati per la conquista di Gerusalemme lo rapiva. Continui erano i cambiamenti di tono, a partire dal momento in cui la maga, che avrebbe dovuto eliminare l’avversario, se ne innamorava, per finire abbandonata dall’eroe tornato nel suo campo. Armida rimaneva sola, disperata, svuotata di tutta la sua forza magica. Centrali erano gli effetti scenotecnici, i cambi a vista, le visioni miracolose. Händel giocava sugli effetti sorprendenti, sulle apparizioni, le metamorfosi, gli equivoci causati dalla potenza magica di Armida, che rapiva anche la fidanzata di Rinaldo, Almirena, e a lei si sostituiva quando il suo Argante, innamoratosi della cristiana, la corteggiava.
Nella versione napoletana la parte magica viene semplificata e diventa dominante il gioco dei sentimenti. Il motivo erotico sembra primeggiare anche su quello guerresco. E pure momenti famosi come l’aria “Lascia ch’io pianga / mia cruda sorte”, cantata da Almirena, vengono variati e affidati ad altri interpreti (qui a Rinaldo, nel finale: Nicolini volle per sé il pezzo più noto).
Lo spettacolo corre felicemente grazie anche alla regia, che dichiara un aggiornamento, ma si tiene poi in una misura intelligente. Sangati promette una gara tra bande rock diverse. E traveste i protagonisti da cantanti pop, rock o punk di diverse tendenze. Riconosciamo in Rinaldo una specie di Freddie Mercury, in Armida una figura che somiglia a Cher e negli altri Elton John, David Bowie e così via. E una ragione ci sarebbe, perché così si sfuma la contrapposizione poco politicamente corretta tra cristiani e musulmani, ma soprattutto perché l’edizione napoletana era, effettivamente, una gara tra divi del canto dell’epoca. In realtà, poi, non è tanto importante questa traccia: quello che risalta è uno spettacolo leggero, veloce (nonostante la lunghezza), sempre ben recitato e appassionante, con alcune trovate sceniche folgoranti. Eliminato il carro con i draghi della didascalia barocca, Armida entra armata della sua sola furia, come un’icona punk. Almirena canta il suo brano di arcadica felicità in una scena ingombra di gabbie di uccelletti meccanici, un moderno museo della memoria di una vita naturale. Momenti clou della trama vengono sottolineati da controluce e tagli da concerto rock (le luci sono di Paolo Pollo Rodighero). Certe scene di magia infernale si svolgono tra rosseggianti quinte, così come in altre occasioni “magiche” si ricorre a colori acidi o ad atmosfere pop. La regia ricostruisce anche gli intermezzi comici, dei quali si è persa la musica, affidandoli alla recitazione ritmicamente veloce e sufficientemente convenzionale di Valentina Cardinali e Simone Tangolo.
Il tutto si intona, pur senza i macchinismi barocchi che resero memorabile l’edizione con la regia di Pier Luigi Pizzi di metà anni ottanta, a un testo in cui tra le schermaglie guerresche e amorose emerge una malinconia struggente. Siamo di fronte all’allontanamento continuo dell’oggetto amato, desiderato, in un moto continuo a perdersi verso l’orlo di un precipizio, evitato solo facendo ricorso ai trucchi di un lieto fine smaccatamente consolatorio, con i cattivi sconfitti e i buoni sposi trionfanti, pure senza l’ipocrisia händeliana della conversione dei pagani. Qui alla fine Armida, in controscena, con le catene ai polsi, minaccia la felicità degli sposi: l’istinto, il sesso, la forza della natura magica si può provare a irreggimentarla, ma non è detto che la si domi. In scena, accanto alle due protagoniste, i bravi Francisco Fernández-Rueda (Goffredo), Loriana Castellano (Almirena), Francesca Ascioti (Argante), dara Savinova (Eustazio) e i giovani dell’Accademia del Belcanto Rodolfo Celletti, Dielli Hoxha, Kim-Lillian Strebel, Ana Victória Pitts.
Site-specific
Oggi poi quell’attenzione alle condizioni e all’uditorio si chiama site-specific. Sempre in Puglia ho visto uno spettacolo ambientato in uno stabilimento balneare di quelli di una volta. Si chiama Lido Impero e risale, come il nome fa intuire, agli anni trenta del novecento. Sorge a Chiatona, la spiaggia su cui si riversano alcuni paesi della provincia di Taranto lato Ilva, Massafra, Palagiano, Palagianello. Lo spettacolo si intitola Lidi. La festa perfetta ed è stato creato dal Teatro delle Forche di Massafra, da un’idea di Erika Grillo, anche attrice, con la regia affidata a due occhi esterni come gli esperti Gianluigi Gherzi e Fabrizio Saccomanno. Il lavoro nasce da una riflessione con alcuni architetti su quei luoghi e sulla funzione comunitaria che hanno avuto e che in parte, solo in minima parte, ancora conservano. Fa parte del programma P.A.S.S.I. Progetto, Arte, Spettacolo, Scoperta e Innovazione nella Terra delle Gravine, inserito in un intervento del settore Turismo, cultura e valorizzazione delle risorse naturali della Regione Puglia. Insomma, utilizzando l’ambientazione di un luogo di svago e vacanza, ma anche di relazione e incontro come un vecchio stabilimento balneare, la giovane compagnia introduce una riflessione sul tema della festa come divertimento, diversione, spostamento dell’attenzione dai problemi della realtà a un bisogno di autogratificazione narcisistico.
Lo spettacolo divide il pubblico in piccoli gruppi. Ognuno di essi assisterà alla rivelazione di un personaggio, in una cabina del Lido, in un rapporto ravvicinato. C’è quella che spera di divertirsi, o di affermarsi, di essere notata, quella che vuole fuggire, quello che è sicuro di essere il migliore e di vincere un’imprecisata gara, quello che crede nel corpo, quella che si perde in un mondo fantastico fatto di manga giapponesi, quella ubriaca dalla tristezza o quella esaltata per provare a sopravvivere a un’esistenza mediocre, quella che vuole partire, quella semplicemente smarrita… I nove racconti sono interrotti, ogni tre, da un momento collettivo, una danza nella sabbia, un grido di speranza di essere il prescelto, il vincitore, quello che ce la farà.
Naturalmente tutta quest’ansia, questo investimento sull’apparenza, questa ricerca di improbabile identità che compensi le miserie di un esistere sempre meno gratificante, crollerà come un castello di carte. Dal buio del mare di notte emergerà la danza di una fragile marionetta nera, uscita da una valigia. Poi gli attori chiameranno gli spettatori, che hanno visto tutti cose diverse, hanno avuto sensazioni differenti, a stringersi per mano, a formare un cerchio, a ricordare che poche cose rimangono delle speranze, delle illusioni: forse solo quel sentirsi, tenersi, intrecciarsi con l’altro.
Lidi è stato rappresentato in orari differenti, con una recita anche notturna, che aspettava la rivelazione dell’alba. È uno spettacolo modulato sull’ascolto, sulla relazione faccia a faccia con lo spettatore, sulla sabbia, sulla profondità della notte. Anche se non mancano momenti di ingenuità drammaturgica, ci ha conquistati, una sera d’inizio agosto, anche in virtù della grazia dei suoi appassionati e coinvolgenti interpreti, tutti da nominare: Giorgio Consoli, Daniela Delle Grottaglie, Alessandra Gigante, Erika Grillo, Cesare Gurrado Pastore, Giulia Mento, Ermelinda Nasuto, Chiara Petillo, Elisabetta Sbiroli, Fabio Zullino.