Nella stupenda notte della crisi
Che fare: Milano. Nell’Italia degli anni settanta e ottanta era prassi che le città medie e grandi avessero una politica culturale fatta di mostre, concerti, incontri, per arrivare fino ai corsi delle 150 ore. Un desiderio di acculturazione diffusa che valeva tanto più per Milano se si pensa alla tradizione del Piccolo Teatro e della grande stagione di mostre di Palazzo Reale. Quello che è successo dopo lo descrive, da par suo, Giovanni Agosti in Le rovine di Milano, appena uscito da Feltrinelli. Ora nella città lombarda, dopo l’inaspettata vittoria di Pisapia alle elezioni comunali di primavera e la nomina di Stefano Boeri , ben noto in molti ambienti culturali, ad assessore alla Cultura, non è però più tempo di cahiers des doléances o di aggirarsi per rovine fumanti, anche perché singoli e piccoli gruppi hanno continuato ad agire. Doppiozero ha chiesto a chi lavora nella Milano della cultura di indicare un singolo progetto nel proprio settore e la strada per arrivarci per migliorare la qualità dell’offerta culturale e, di conseguenza, la convivenza civile. Lo abbiamo chiesto ad under 40, qualcuno anche under 30, persuasi che in giro ci siano molte energie nuove e che il mantra “non ci sono soldi”, che viene ripetuto dalle più alte sfere ai consigli di zona, è prima di tutto un alibi per non agire.
Alberto Saibene
Quando all’inizio degli anni ottanta Angelo Stano ha visto per la prima volta i fumetti di Pazienza e Tamburini-Liberatore sulle pagine di Frigidaire – era un suo allievo alla Scuola del fumetto di via Savona a mostrarglieli – ha pensato che quei disegnatori fossero dei pazzi, dei marziani, era rapito: nessuno prima di loro si sarebbe mai sognato di pubblicare tavole disegnate… a pennarello.
Capitava di farne, sì, ma erano soprattutto schizzi per uso personale. Per mostrarle o pubblicarle bisognava ripassare le matite con la china: pennino o pennello. I ragazzi di Frigidaire si erano spinti di colpo ben oltre – sulle prime tavole di Ranxerox Liberatore ha adoperato persino le matite per il trucco. Cambiava un’epoca, questo episodio lo descrive bene ai miei occhi, e da allora ne è passata un’altra, per cui lo stesso Stano disegna oggi su tavoletta grafica e non più su carta le copertine di Dylan Dog. Rinuncia al vantaggio economico di vendere una tavola originale (che non esiste più) e alla sicurezza del “mestiere” per il gusto di sperimentare.
Il fumetto è una forma di scrittura estremamente fisica – non solo per la fisicità e persino l’erotismo dei suoi personaggi o dei suoi luoghi e per la parte non verbale del suo comunicare – ma anche per la materialità del suo farsi: molto più fisico della scrittura in senso stretto.
Ora, quel che sta succedendo a Milano – capitale, in passato come oggi, del fumetto e dell’illustrazione – è che è scomparso, ben prima che scomparissero anche gli originali, e più a causa dell’ottimizzazione del sistema industriale che della rivoluzione digitale – il disegno rimane comunque una pratica di vocazione artigianale – dicevamo è scomparso il milieu creativo come spazio condiviso, anche estemporaneo. Un tempo i fumettisti si trovavano, nelle redazioni o nelle scuole, si confrontavano e si influenzavano a vicenda. Ora a Milano si producono un gran numero di fumetti, che generano un certo volume di denaro – oltre alla Sergio Bonelli, si pensi alla Disney Italia, nella cui sede di Milano vengono prodotti, ossia pensati, scritti e disegnati i fumetti che poi, tradotti, sono pubblicati e venduti in tutta Europa (sì, l’Italia esporta) –, e anche le proposte per la libreria sono di buona qualità, ma non esiste un milieu, non esiste dunque in senso pubblico molta cultura. Non ci si incontra. Le tavole si spediscono per e-mail. Non ci sono mostre, non ci sono incontri con gli autori.
C’è a Milano un “Museo del fumetto”. Un bello spazio, con personale accogliente, che però del museo ha solo il nome (o meglio la nomea), non essendo nei programmi della proprietà farne la sede di un’esposizione permanente di tavole originali e materiali che documentino la storia e le implicazioni della nona arte. Potrà essere un ottimo archivio, quando verrà allestito, e ospitare mostre temporanee come fa ora: il Fondo Fossati che ne è proprietario comprende una mole sterminata di materiale, anche di valore. Ma chiamarlo Museo significa privare Milano di molte possibilità – fingendo che possieda qualcosa che non ha.
Negli anni novanta a Milano le belle mostre non si contavano: a palazzo Bagatti Valsecchi, organizzate dalla casa editrice Hazard, le mostre di Bilal, Druillet, Giger, e poi Moebius; dal 94 al 2003 l’Happening Internazionale Underground, imponente convention che portava a Milano i maggiori nomi della cultura grafica indipendente e underground americana e mondiale. Ora c’è quasi solo la galleria Nuages – specializzata, come dicono loro, nelle arti della comunicazione, “l’unico posto dove ogni tanto ci si incontra un po’ tutti, quando si inaugura una mostra”.
Qui tra un’epoca e un’altra, penso a un luogo dove potersi incontrare. Dove poter disegnare. Prendere in prestito e usare materiali, pitture, carta, matite, libri, tavolette grafiche, connessioni wi-fi, plotter, plastiline, vernici, ponteggi e trabattelli – perché il fumetto si può fare anche in grande, e le sue ramificazioni nella graffiti art e nella street art sono evidenti – e che faccia fiorire un po’ di condivisione in città. Uno spazio dove incontrare i fumettisti – sentirli parlare o vederli lavorare. In cui eventualmente creare un Museo – ma vero – al quale editori, autori, collezionisti e archivi (sì, anche l’Archivio Fossati…) sono certa donerebbero le tavole necessarie a creare una traccia per il futuro percorso. Mi piacerebbe vedere le tavole di Little Nemo senza dovermelo comprare. Un posto che possa ospitare mostre temporanee legate alla ricerca e all’approfondimento e non al commercio, e dove i fumettisti possano organizzare mostre per vendere i loro lavori. Dove non si parli solo in italiano.
Forse non si produrrà qui la nuova cultura, ma sarebbe un modo di mettere in circolazione quella che già esiste. Restituire risorse al terreno. Non so come un progetto del genere potrebbe mantenersi, però nella settimana in cui il Pac inaugura la mostra sulla Pixar è inutile dire che il fumetto è arte e l’arte arricchisce chi la fruisce ma a volte anche chi la produce.
Una biblioteca del fumetto, però, ossia un posto in cui le persone possono andare a disegnare, dovrebbe essere aperto anche di notte, perché i disegnatori amano la notte. Per migliorare e diffondere la cultura (del fumetto) a Milano ci vorrebbero la metropolitana, e un posto come questo, aperti entrambi fino a tarda notte.
Doppiozero approfondisce il tema Che fare in un incontro pubblico il 7 dicembre 2011 alle ore 17 alla sala Diamante, all’interno di Più libri più liberi (Roma, EUR Palazzo dei Congressi, 7-11 dicembre 2011). Ne parleranno, con il nostro Stefano Chiodi, Andrea Cortellessa, Michele Dantini e Christian Raimo.