No-ordinary wor(l)d

8 Ottobre 2012

Diaspora. Development. Normalization. Intifada. Settlers. Refugees. Return. Demolition.


Come ragionerei se fossi stato cresciuto sin dalla nascita con queste parole intinte nel latte materno? Non c’è dubbio che reagirei attraverso degli automatismi, risposte scavate in una storia che oltrepassa il mio piano biologico ed esperienziale. Parole più antiche di me e talmente impetuose da tracimare nel mio vissuto obbligandomi a seguirne la corrente. Per esempio, farei molta fatica ad ascoltarti pronunciare “Green Intifada” perché la tua resistenza è attuata con l’agricoltura... o “Cultural Intifada” perché combatti con gli strumenti della conoscenza. Condividerei i metodi, ma ti chiederei di chiamare le cose con il loro nome. Potresti accettare l’idea dei “partigiani biologici” dopo aver perso i nonni o i genitori nella Resistenza?

 

Oppure?

 

Ridefinire.

 

Se fossi stato cacciato da casa mia all’arma bianca (o nera), forse desidererei tornare a casa.
Se fossi un profugo, forse vorrei non sentirmi sospeso a tempo indeterminato in un insediamento che non posso chiamare casa.
Se vivessi in un Campo, forse competerei con i coloni che continuano ad erodere il mio senso di appartenenza.
Se mi sentissi defraudato forse attiverei o parteciperei alla Rivolta.
Forse, mi sentirei strappato in due. Forse, da una parte il desiderio di ripartire e abbandonare questo posto di merda che ho dovuto trasformare in qualcosa di più accettabile con l’aiuto di un’importante agenzia internazionale, forse dall’altra l’attaccamento a questo posto in cui ho depositato senso ed esperienza per tre generazioni.

 

Oppure?

 

Ridefinire.

 

Dicono che a forza di sbattere la testa contro a un muro, prima o poi impari a cambiare strategia. Qui il muro è roba grossa. Articolata. Non è solo quell’onda grigia e immobile di 5m. Ci vuole una grande mente per aggirarlo.

 

Oppure?


A questo punto mi chiederei “perché devo essere sempre io a ridefinirmi?”. A modificarmi in funzione di una forza esterna che esercita la sua pressione? Non vorrei “normalizzare” la situazione perché farlo significherebbe consegnare la mia coscienza al comfort di una vita disegnata da un altro autore. Avrei difficoltà a chiamare “sviluppo” tutto ciò che mi viene proposto come un miglioramento gentilmente offerto dalla ditta del sorriso. In poche parole, coltiverei la ribellione come pratica esistenziale.

 

Oppure... si potrebbe costruire assieme un vocabolario di nuova concezione. Dalle stesse parole, probabilmente, ma con vitamine diverse. Con significati più vicini alla nostra esperienza. Una prassi che dichiara come modello l’incompiuto per non castigarsi da sola in nuove future trappole. Se la parola è l’unico apriscatole che rimane senza subire rappresaglie insostenibili, la parola e il suo ri-significare diventa la tecnologia di punta per avventurarsi in possibilità inesplorate e cambiare il pensiero del sistema.

 

Per esempio, che cosa si intende per “inelegibile”?
Obbiettivamente: che non incontra i parametri prefissati da un team di esperti, così definiti per incrociare gli standard dell’elettore con le capacità dell’eletto. Non meritevole di sostegno.
Soggettivamente: autonomo e indipendente, che attraverso caparbietà, esperienza e capacità relazionali ha sviluppato una prassi e un sistema in grado di sostenerlo. Praticamente, non-ordinario.

 

Se questo è chiaro e viene condiviso, nel contesto aggressivo forse diventa ancora possibile accogliere l’inelegibile nel discorso e farne materia di dialogo.

 

Collective Dictionary è il primo degli strumenti che il gruppo di partecipanti ha individuato assieme ai tutor come pratica generativa fondamentale per individuare un campo dialogico e d’azione condiviso, allo scopo di evadere tanto dai pregiudizi delle trappole ideologiche quanto dal colonialismo di un pensiero paternalista che “vorrebbe aiutare”. Una cascata di vocaboli significativi viene via via selezionata e ridefinita nel suo significato oggettivo e soggettivo, seguito da storie personali che collocano le parole in uno scenario semantico riassemblato sulla realtà dei 16 Refugee.

 

A questo link uno sguardo introduttivo sul dizionario in progress.

 

Le parole stanno diventando la base del nostro progettare. Queste persone dal pensiero politico forte, nate con veementi capacità speculative, ci stanno dando filo da torcere nel mettere in pratica e sedimentare il segno, il decidere sul da farsi: la continua indeterminatezza li ha cresciuti talentuosi “surfer” del quotidiano capaci di reinventarsi l’indomani come viaggiatori leggeri e senza bagaglio. Quindi senza la zavorra del pensiero progettuale, perché progettare in occidente significa proiettare nel futuro. Qui si fa e basta, ri-assemblando la distruzione in unromanico” mai esausto. Sempre tradizionale e comunque contemporaneo. Praticamente, non-ordinario.

 

Disinnescando le implicazioni umanitarie di sviluppo e normalizzazione, ci addentriamo ora nel Ritorno e nei suoi significati frammentati e per nulla granitici. Nel prossimo dispaccio gli approfondimenti ad una complessa e difficile articolazione dell’insegnamento alla progettazione: se da un lato l’aspetto combattivo delle persone risalta le ammirevoli capacità resilienti e resistenti, dall’altro ci mostra con spietata chiarezza che l’aspetto evolutivo, quello che permette di generare il nuovo, riporta i devastanti effetti psico-sociali del controllo e della demolizione. Che tormentano l’inconscio con il loro subdolo ritornello: “qualsiasi cosa tu faccia è sotto altrui dominio, qualsiasi cosa tu faccia verrà distrutta”.

 


Bozze di visione vengono sistematicamente disegnate e ridefinite giornalmente fino alla scelta dell’impronta progettuale. Nell’immagine, un primo schema valoriale per una proto-pubblicazione tracciato da un partecipante.

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