Speciale
Non chiamatele rivoluzioni
Gli eventi e le proteste degli ultimi anni ci hanno mostrato l’urgenza di una riflessione politica sulle nuove modalità di partecipazione alla scena pubblica, tra occupazioni e nuove esperienze di autogoverno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di pratiche politiche radicate nella materialità delle esistenze, nella sua concretezza e nelle sue urgenze; esperienze che difficilmente possono essere fatte rientrare in un’unica analisi, dal momento che ognuna mantiene una propria specificità legata al contesto. Inoltre, non è facile tenere assieme uno sguardo generale e l’attenzione al presente, alla materialità e contingenza delle esperienze. Sono eventi specifici, ognuno diverso dall’altro, ognuno unico a suo modo. Eventi unici, eppure in connessione. Tenere insieme questa unicità con lo sguardo ampio di una lettura generale è difficile e forse anche un po’ pericoloso, ma non è impossibile, se conosciamo i rischi dell’uso ingenuo della teorizzazione.
La mia intenzione è quella di prendere in considerazione alcuni eventi di protesta e di riappropriazione degli spazi urbani degli ultimi anni. Quelli più famosi, quelli che hanno smosso gli immaginari, quelli che hanno creato le scintille e, in un certo senso, quelli che hanno creato un “brand” di protesta, a cui a volte si attinge con troppa facilità. Parlo dei movimenti che dal 2011 hanno riempito pagine di giornali e telegiornali internazionali, hanno fatto esplodere i social network: il movimento degli indignados spagnoli, piazza Tahrir del 2011, il movimento Occupy, negli Stati Uniti, in Turchia e non solo, fino alle risonanze che esso ha avuto in Italia. Dall’“anno sognato pericolosamente”, così come Žižek ha definito il 2011, gesti di riappropriazione degli spazi urbani e della capacità di agire politicamente aldilà delle dinamiche della rappresentanza sono rimbalzate di nazione in nazione, disegnando traiettorie da paese a paese, tra distanze e lotte comuni; un’ondata che ha assunto forme differenti, ma che si ritrova nel comune rifiuto delle contraddizioni di un capitalismo globale senza freni, e che proclama una democrazia fatta di autodeterminazione e una politica fatta di relazioni, scambi in presenza, non rappresentativa, fatta di autogestione delle risorse. Nonostante queste esperienze di lotta non rimandino a un programma politico definito, né ad un’identità politica omogenea, comune è l’urgenza di resistenza, riappropriazione e restituzione di spazi, di luoghi, ma soprattutto della capacità di agire e fare politica a partire dalle esistenze.
Occupy Gezy
Ma innanzitutto, occorre fermarsi e chiedersi: queste proteste, cosa sono esattamente? Se dovessimo scegliere una delle categorie del conflitto in politica, con che nome sceglieremmo di chiamarle? Rivolte, rivoluzioni? Occorre fare chiarezza su questo. Spesso si tende a considerare rivolta e rivoluzione come in continuità, laddove una rivolta viene ristretta allo scoppio acerbo e violento del conflitto, non ancora propriamente politico, che dovrebbe condurre alla fase più strutturata, più politica, della rivoluzione. Secondo questa impostazione, una rivolta che non si compie in una rivoluzione, in uno slancio teleologico che mira alla presa di potere, altro non è che una rivoluzione fallita. Un aborto di cambiamento. Occorre allontanarsi con forza da una simile lettura, sostenendo una distanza sostanziale e una forte differenza concettuale tra i due piani.
Furio Jesi in Spartakus ha già chiarito, in modo eccezionale, il perché rivolta e rivoluzione non possano essere poste su un piano di continuità, perché una rivolta è da considerarsi radicalmente altro. La rivolta è uno scoppio improvviso che non coincide con un complesso di movimenti insurrezionali orientati verso specifici obiettivi finali secondo una strategia temporale definibile. Se sotto certi aspetti la rivoluzione è interamente calata nel tempo storico, la rivolta lo mette tra parentesi, instaurando una temporalità altra. Anche quando assume i tratti di una specifica reazione, si pone come esperienza non dialettica, che recide il suo rapporto con l’immediato contesto preparando al dopodomani della società, suscitandone un’anticipata epifania. Per questo, non importa che vi sia un domani, e un domani ancora, o che i rivoltosi sopravvivano per inverare nel tempo storico le proprie lotte. La rivolta si connota come inattuale, e da tale inattualità trova la propria forza e ragion d’essere. Per questo, una rivolta è sempre fuori dall’ottica della sovranità: perché è fuori dalla sua temporalità, dalle sue categorie, dalle sue linee teleologiche. In un contesto quale quello attuale, in cui la coesistenza di una perdurante crisi economica e di una crescente globalizzazione dei processi economici, sociali e politici, rimette in discussione alcune delle categorie fondative della sovranità così come la tradizione della teoria politica ce l’ha presentata, le esperienze di protesta non possono che ereditare tale mutamento del simbolico politico. In questo senso, sono eventi che portano nel DNA il crollo dello stato-nazione, dell’idea di sovranità. Sono figli del loro tempo. Per questo motivo, comportano un ripensamento dello stesso concetto di politica democratica e di organizzazione del potere. Si contraddistinguono per il loro spostamento rispetto all’ottica tradizionale della presa di potere e del percorso istituzionale; non mirano al potere, ma istituiscono nuovi spazi politici. Sono esperienze costituenti di istituzioni altre. Sono rivolte, non rivoluzioni.
Per questo motivo, occorre abbandonare tutte la valutazioni classiche, che si muovono sul piano dell’efficacia. Non si può valutarne la riuscita sul piano della presa di potere, che riprodurrebbe la dicotomia rivolta/rivoluzione e l’idea per cui la rivoluzione è il compimento e il successo di uno slancio dissidente. Ma quale sarà l’efficacia di una protesta che non mira alla presa di potere, che non tenta di inserirsi in un percorso istituzionale? Una rivolta non riesce quando prendi il comando ma quando sposti il simbolico. Una rivolta riesce quando cambi l’immaginario, quando inventi nuove pratiche di resistenza e contro-condotte che si trasmettono, come in un contagio, aldilà dei confini della tua stessa lotta. La rivolta è un exemplar, una scintilla. Le istituzioni che esse creano, fuori dalla logica della sovranità, sono istituzioni dell’agire comune, che puntano al mutamento delle pratiche e del simbolico diffuso, disinvestendo di senso la conquista del potere istituzionale e ufficiale. E come gli incendi che divampano da piccole scintille, gli eventi degli scorsi anni si sono susseguiti velocemente, quasi in un’ondata che sembrava inarrestabile.
Queste lotte non cercano il potere, ma la fondazione di una politica nuova, su basi diverse: mettono al centro le relazioni e le pratiche orizzontali, rifiutano la gerarchia, i leader, l’organizzazione. Mettono al centro i corpi e il rapporto con il tessuto urbano.
Non solo oggetto di politiche e biopolitiche, i corpi assumono il ruolo centrale di nuclei di produzione politica. Una politica che si radica nell’esserci fisicamente – in quel luogo, in quel momento –, contro politiche istituzionali e una finanza globale invisibili, ma che agiscono direttamente sui corpi. I corpi nelle piazze ricreano le condizioni del vivere lo spazio pubblico: dormono e vivono nella piazza, si prendono cura dello spazio attorno a loro e si curano l’uno dell’altro dando vita a relazioni di uguaglianza di cui denunciano l’assenza nell’ambito politico ed economico. Ri-fondano simbolicamente lo spazio pubblico, in un gesto di riappropriazione, risignificazione e potenziamento dello spazio urbano. Riutilizzano gli spazi dando vita a nuove pratiche spaziali, manifestando il diritto all’accesso fisico, all’occupazione, all’uso dello spazio cittadino. L’occupazione è forma dell’agire che più rispecchia l’esigenza di autogestione e partecipazione. Occupare spazi, infatti, fuoriesce dall’idea della manifestazione come “blocco della città”, così come dall’idea di protesta come attacco ai luoghi del potere. Travalicando i confini tra legale e illegale, si esprime un rifiuto del tutto peculiare: occupare è gesto inaugurale, che fonda nuove pratiche e nuovi comportamenti, rovesciando le dinamiche della crisi attraverso la costruzione simbolica e materiale di nuova comunità. Occupare è occuparsi di una realtà condivisa, che si costruisce assieme e di cui ci si prende cura. Si costituisce come istituzione del comune, realizzando un’alternativa politica e sociale, una città nella città.
Indignados, la “primavera araba” del 2011, il movimento Occupy Wall Street e Occupy Gezi, fino alle esperienze italiane dei NoTav e dei teatri occupati: operando una “schivata” rispetto al piano delle istituzioni, questi nuovi movimenti hanno lavorato sul piano dell’efficacia simbolica, nel tentativo di fondare una politica delle relazioni che rifiuta la delega e si muove sul piano della costruzione collettiva di una dimensione comune di esistenza, aldilà del diritto, delle leggi, del potere in politica. Le piazze degli ultimi anni si sono nutrite di lotte per la democrazia radicale senza per questo assumere traiettorie teleologiche, tipiche del processo rivoluzionario. Si sono radicate in una performatività plurale che non cancella le individualità, in cui la domanda collettiva emerge dalle storie singolari. Sono esperienze di corpi in rivolta che nel contatto, nell’essere insieme, creano lo spazio e le condizioni per un nuovo modo di pensare e agire la politica.