Nuovi teatri crescono?
«E cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?». C'era qualcuno – non ricordo esattamente chi – che aveva ripreso questo verso delle Luci della centrale elettrica per affrontare i teatri italiani degli anni Duemila, il loro avvento dirompente, la biodiversità così cangiante da essere difficile da raccontare per intero, la loro successiva caduta o almeno normalizzazione. È un modo un po' brusco di iniziare un articolo, ma è proprio questo il punto: tornare a chiedersi cos'è successo, cos'eravamo e cosa siamo, cos'abbiamo fatto in questi anni, com'è andata e come sta andando. Un argomento forse un po' démodé per l'agenda critica d'attualità, ma per molti versi è un tema strutturale e ancora pressante; anche magari per rispondere ad altri interrogativi più “sul pezzo”, ma in generale per far fronte a una strana abitudine del nostro teatro e in realtà anche del Paese che è quella di dimenticare tutto in un soffio per guardare – invece che avanti – altrove.
Fibre parallele, La beatitudine
Teatri Duemila
La storia la sappiamo già tutti, forse non vale neanche la pena di ripeterla. A inizio millennio, una serie di proposte di spettacolo provenienti per lo più da gruppi nuovi e emergenti ha scosso il panorama teatrale italiano. Molti l'hanno colta come una nuova ondata di rinnovamento della ricerca. I Duemila sono gli anni della “non-scuola” romana, “iconoclasta, comica, concettuale, poetica” come la descriveva Nico Garrone – da Daniele Timpano a Massimiliano Civica a Lucia Calamaro a Deflorian/Tagliarini – e dei nuovi artisti siciliani con Emma Dante in testa; e poi ovviamente dei “giovani” gruppi: la visionarietà tecno-scenica di Santasangre, la raffinata ricerca drammaturgico-visiva di Muta Imago, il debutto di Teatro Sotterraneo e di Fibre Parallele, il teatro pop-rock-punk dei Babilonia Teatri, il lucido disincanto di Menoventi, la rarefatta astrazione di Pathosformel, fino alla Tempesta di Anagoor, a Codice Ivan e poi a tutta la nuova danza da Ambra Senatore a Sonia Brunelli e Barokthegreat a CollettivO CineticO. Edizioni memorabili del Premio Scenario e appuntamenti imperdibili nei festival estivi (dall'Alveare di Contemporanea Prato a Dro con la sua Factory, da Ipercorpo a B.Motion di Bassano) hanno accompagnato l'emergere di una biodiversità folgorante che lascia senza fiato – all'epoca e in questa sfilata di ricordi –, un insieme che dal punto di vista estetico stava difficilmente insieme, un fermento il cui unico dato in comune sembrava proprio quello di non averne alcuno, sfuggendo a qualsiasi tentativo remoto o inedito di categorizzazione. E forse proprio per questo ha attirato nel giro di pochissimo tempo l'attenzione di critici e operatori.
Muta Imago, Hyperion, ph. Filip Van Roe
Il fenomeno, fra la pluralità di proposte inedite e i correlati rischi di cannibalizzazione da parte di un sistema sempre alla ricerca del nuovo prodotto da consumare in velocità, sembra poi essersi bene o male assestato in una certa “maniera” linguistica e di seguito essere rifluito nelle singole storie di ciascun artista, in tournée tutto sommato regolari scandite – quando va bene – dalla cadenza di stagioni e rassegne. In realtà, l'abbiamo visto succedere già varie volte: dalla regia critica ai Teatri Novanta, passando per i versanti del teatro di gruppo dei Settanta, avanguardie e postavanguardie, fino all'ultimo fermento sullo scorcio del secolo dei Teatri Invisibili. Questi, erano giovani di poco più di vent'anni (questa è una delle poche etichette trasversali che più o meno sfortunatamente aveva attecchito all'epoca), ora sono oltre i trenta: i gruppi emergenti sono diventati gruppi e basta, a differenza dei loro celebri precedenti senza aggettivi – men che meno estetici – che ne sostengano i percorsi. E, allora, che cosa racconteremo di questi anni Zero?
Lo sguardo della critica
All'epoca sulle pagine della critica italiana non si parlava d'altro: Generazione T, Zero, doppiozero, Iperscene, quarta ondata, terza avanguardia. E dieci anni dopo, sono in tanti a interrogarsi sull'apparente rientro del fenomeno. Fra bilanci e riflessioni, feste, retrospettive e compleanni, negli ultimi tempi se lo stanno chiedendo in tanti: dagli sforzi di Renato Palazzi del 2014 di cercare di fare il punto della situazione, con il correlato di dibattito che hanno innescato; passando per riflessioni sparse dei più presenti osservatori di quel periodo (Graziano Graziani, Massimo Marino, Andrea Porcheddu, Teatro e Critica, fino all'ultimo convegno-festa per i dieci anni di Altre Velocità), per arrivare al video “di compleanno” di Teatro Sotterraneo intitolato Come sopravvivi? (dove rispondevano a modo proprio vari artisti della scena), fino all'ultimo numero di «Culture Teatrali» dedicato proprio a quei gruppi e a quel momento della scena.
Però le domande poste dalla critica al presunto venir meno di quella che sarebbe la “quarta” delle varie ondate del Nuovo Teatro italiano risalgono a un po' di tempo fa, un anno e mezzo, forse due. C'è chi lamenta un riassorbimento delle istanze maggiormente innovative, chi una cristallizzazione delle proposte, chi ancora individua un'incapacità di crescere e maturare, chi identifica in questo le responsabilità del sistema. Oggi pare che la questione non sia più all'ordine del giorno: per sguardi e penne che avevano seguito da vicino il fenomeno nel suo stesso originarsi – fra l'altro non limitandosi alla recensione dei singoli lavori e invece assumendosi spesso il rischio di avanzare ipotesi di interpretazione trasversali –, il tema di quei teatri, quelle presunte crisi, comunque lo stato attuale della ricerca paiono aver lasciato il posto ad altri e ben più pressanti argomenti. Per un periodo, la questione della regia, della sua fine e della sua rinascita (ed è questo in effetti il settore che sta esprimendo nel Paese le proposte più interessanti, da Civica a Latini, Latella e Arcuri); ma poi, nel 2015, tutta l'attenzione si è spostata massicciamente sulla riforma del Fus e sulle conseguenze che avrebbe e poi ha comportato per il sistema teatrale italiano. E fra l'altro, quest'ultima questione non cadrebbe così a sproposito, viste le correlate modificazioni strutturali che si prospettano, molte delle quali legate proprio alla possibilità di sopravvivenza della forma-gruppo nella sua indipendenza e per la sua biodiversità, nucleo genetico storico del teatro – non solo di ricerca – italiano.
Virgilio Brucia, Anagoor, ph. Dietrich Steinmetz
Prove di maturità fra collaborazioni e indipendenza
Ma questa è un'altra storia, e mi auguro ci sarà modo più avanti di affrontarla dalla giusta distanza per valutarne in concreto obiettivi e conseguenze effettivi. La vicenda che si vuole analizzare in questa sede, invece, è quella del (presunto) riassorbimento delle proposte più innovative di quelli che furono i teatri emergenti degli anni Duemila. Per – va detto subito – rovesciarla radicalmente.
Il momento, è vero, non è certo quello del fermento vivace di dieci anni fa. Però ci sono degli eventi e fenomeni di cui è necessario tenere conto, per cercare di leggere la strada che quelle compagnie hanno compiuto, il loro percorso dalla nouvelle vague emergente all'attuale maturità: oltre a chi ha deciso di concludere il proprio percorso nel teatro (Pathosformel e Codice Ivan), c'è anche chi ha messo su casa (in senso teatrale ma non solo), chi si è stabilizzato, chi è cresciuto nel linguaggio e nell'organizzazione.
Per fare qualche esempio qua e là, basti pensare alla Sagra Malatestiana, che ha consentito a diversi di questi gruppi (fra gli altri, Santasangre, Anagoor, Muta Imago) di confrontarsi con la progettualità complessa del teatro musicale: anche se gli effetti saranno tutti da valutare su un più lungo periodo, in alcuni casi la differenza dell'esperienza sembra già evidente (per esempio, potrebbe non essere una coincidenza il mutamento di Anagoor, fra una prima fase più estetizzante e una, quella attuale, che si fonda proprio sull'articolazione delle relazioni fra i diversi linguaggi scenici). C'è da menzionare inoltre la collaborazione di altre compagnie con i nuovi giganti del sistema teatrale, i Teatri Nazionali: consolidando rapporti già saggiati in precedenza, l'ultimo lavoro di Babilonia Teatri è una co-produzione fra Veneto e Ert, mentre quest'ultimo sostiene il nuovo spettacolo di Menoventi, al debutto fra poche settimane. Come notava Lorenzo Donati in un articolo di qualche giorno fa, è importante vedere programmati in stagione i Babilonia a fianco ai soliti grandi nomi “da stabile”; ed è altrettanto interessante che ci sia qualcuna di queste grosse strutture che dedica un'attenzione non episodica né strumentale a quella generazione della scena che proprio in questa fase avrebbe necessità di una solidità diversa (e però forse c'è il rischio, qui, se i rapporti non saranno modulati a dovere, di vedere la forma-compagnia dissolversi nelle maglie dei grandi enti di produzione, per via dell'impostazione dei nuovi criteri del Fus). D'altro canto, c'è chi ha fatto una scelta diversa e al contrario scommette invece sulla propria indipendenza: è altrettanto importante notare che nel 2015 sono diversi i gruppi Duemila che per la prima volta sono stati riconosciuti e finanziati dal Fus (fra questi, Fibre Parallele, Muta Imago, Sotterraneo).
David è morto, Babilonia Teatri, ph. Eleonora Cavallo
Dal punto di vista estetico: linguaggi che crescono
Dal punto di vista estetico – complice anche forse le diverse condizioni produttive – si assiste a una diffusa maturazione delle intuizioni con cui i Teatri Duemila si erano posti all'attenzione nazionale: sembra che ciascuno abbia approfondito e verificato il proprio percorso; e questo proprio in quel tempo, fra la fine del primo decennio del nuovo millennio e l'inizio del secondo, che molti avevano letto come un momento di stasi.
“Cosa racconteremo di questi anni Zero”? Che quella dei teatri degli anni Duemila sia stata soltanto un'ondata, una parentesi, un momento? Che la spinta progettuale di quella – a suo tempo chiamata – “generazione” sia andata esaurendosi con il crescere dell'età e/o la possibilità o meno della stabilità? O che ci sia sotto qualcosa di diverso, che ha a che fare con altri fattori, per esempio la sanità generale del sistema o anche la buona salute del nostro stesso sguardo?
Una risposta chiara è nel nuovo lavoro dei Babilonia, David è morto: Valeria Raimondi e Enrico Castellani, un tempo performer di riferimento di tutti i loro spettacoli – dopo diversi tentativi – sono usciti di scena, spostandosi in regia. Il lavoro è affidato a quattro attori, che portano sul palco il linguaggio ormai cifra della compagnia. La lingua è sempre quella frammentata del quasi-rap che li ha resi celebri, il punto di vista quello tenero e feroce dal cuore della provincia, il riferimento alla logica delle comunicazioni di massa (che qui si arricchiscono del registro dei talent show); ma – nonostante la difficoltà data da alcuni momenti di fragilità di interpretazione al debutto, che probabilmente si risolveranno nelle date successive con il consolidarsi del gruppo –, la scrittura di Babilonia, facendosi corale, raggiunge punte di efficacia drammaturgica nuove: esplode polverizzandosi nella pluralità di presenza, visione, azione dei quattro diversi interpreti, concedendo molto più margine alle potenzialità di immedesimazione e straniamento (nelle performance a due dei primi lavori spesso prevaleva quest'ultimo polo). Un simile punto di svolta nei linguaggi e nelle estetiche è percepibile nitidamente anche nel lavoro di altri gruppi: si è detto di Anagoor, si potrebbe fare l'esempio di Fibre Parallele, e poi menzionare il percorso di Teatro Sotterraneo – oggi compagnia residente del centro Associazione Teatrale Pistoiese –, la cui scrittura è partita da una dimensione collettiva e frammentata per numeri e gag e si è poi sviluppata secondo linee più omogenee e originali, trovando – in una posizione piuttosto prossima alle logiche del web e della post-televisione – nella condivisione con il pubblico l'elemento drammaturgico discriminante.
Teatro sotterraneo, Il giro del mondo
Uno sguardo al passato per rivedere il presente
Quindi, almeno dal punto di vista estetico, la (presunta) stasi si convertirebbe in diversi casi nello sviluppo del percorso precedente e addirittura nell'emersione di qualche nuovo orizzonte di lavoro. Però non è solo questo il punto e il David dei Babilonia può dare un'altra e sostanziale risposta alla domanda su cos'è successo ai nostri Nuovi Teatri degli anni Zero: questo spettacolo sul suicidio di un adolescente (e non solo) a un certo punto si blocca con l'entrata in scena della voce off che ha accompagnato fino a quel momento lo svolgersi della messinscena; si presumerebbe il regista e invece no – sia per chi conosce la compagnia, sia per il resto del pubblico, a cui l'attore rivela invece di essere un cantante (accumulando ironicamente ancora più scatole cinesi in quel gioco fra realtà e finzione). È un cantante che è giunto all'estremo gesto perché, dopo l'inaspettato successo di una sua hit, con già proposte di dischi e contratti e tournée nazionali, si è reso conto di essere incapace di ripetere quel miracolo artistico, di sottostare alle pretese incalzanti delle major, di soddisfare le aspettative voraci del pubblico. Niente di strano, se non fosse che la canzone si intitola proprio come lo spettacolo, David è morto.
Qui il discorso si sposta dal piano estetico a quello politico-culturale: senza alcuna forzatura rispetto all'ultima fatica dei Babilonia – che merita senza dubbio, in altra sede, un'analisi diretta e più approfondita –, è difficile non intravvedere in quelle parole, nel modo in cui sono poste in scena, un minimo dello sfondo produttivo che riguarda anche il teatro.
Nel valutare l'attuale fase dei Teatri Duemila non si può dimenticare il contesto di iper-produzione e iper-visibilità bulimica che ne ha accompagnato gli esordi, e anche le mutate condizioni materiali successive, con un momento di crisi che si è consolidato in modo permanente dentro e fuori dai teatri. E di conseguenza sarebbe opportuno non guardare allo stato attuale di presunta stasi come un momento conclusivo del gran fermento di dieci anni fa, assecondando la fame di quella “tradizione del nuovo” che ha segnato tanto Novecento fino ai suoi esiti più recenti. Ascesa, consacrazione, declino, e poi oblio, fine della storia (in senso stretto e senso lato), sono gli step che hanno scandito le diverse “ondate” della ricerca italiana, alla fine quasi tutte poi assorbite dal sistema rispetto a cui si proponevano come alternativa. Qui non si sa ancora come andrà a finire, ma è importante non dimenticare ancora una volta il passato recente, per capire meglio il presente e forse provare a immaginare un po' di futuro. Per il momento, personalmente penso che dovremmo essere per certi versi contenti di aver superato la fase del “boom” dei teatri Duemila, la bulimia, l'ansia di nuovo e dunque di consumo, dei giovani a tutti i costi, degli studi, delle maratone dei festival. Quello che è certo è che per portare a maturazione un rinnovamento di linguaggio ci vuole tempo, un tempo disteso, un'attenzione e una cura, e condizioni di lavoro dignitose. I risultati – certo meno travolgenti e incalzanti, ma decisamente di diversa compiutezza – che quei ex-nuovi ed ex-giovani gruppi hanno espresso negli ultimi mesi stanno lì a testimoniarlo.