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Occhio rotondo 39. Macellaia
È una macellaia. Da cosa lo si vede? Dall’abito, dalla postura dal contesto? Niente di tutto questo. Solo se si osserva con attenzione il cartello in alto sulla nostra destra si legge, seppure a fatica, la parola: Vitello. Un prezzario. Forse si poteva arguire dal marmo della cassa? Difficile dirlo, perché il marmo non è una prerogativa solo dei macellai ma anche dei pescivendoli. È una macellaia al femminile, anche se lei non è al banco a tagliare i pezzi di carne. Si suppone sia la cassiera del negozio, forse la moglie del macellaio.
Franco Vimercati ha scritto così – Macellaia – nel primo volume che ha pubblicato. Prima di diventare il fotografo morandiano degli orologi, delle bottiglie di acqua minerale e delle zuppiere, ha pubblicato un libro con 38 fotografie: Sulle Langhe. Di recente queste immagini sono state esposte dopo 50 anni dalla Galleria Raffaella Cortese a Camagna in Monferrato, a cura di Carlo Falciani. Era il 1974. Il libro lo curava Luigi Carluccio e recava un testo di Davide Lajolo, una serie di ritratti in bianco e nero. Sono gli abitanti di un paese del Piemonte, Monforte d’Alba, dove per anni Vimercati ha trascorso le vacanze estive. Persone, ma anche mestieri – contadino, pettinatrice, mediatore, eccetera – come si capisce dalle didascalie. Vimercati ha chiesto all’albergatore presso cui alloggiava di fare lui il casting.
L’anno seguente, presentando una mostra ben diversa, Paolo Fossati, uno dei suoi scopritori ed estimatori, scrive che il fotografo milanese ha cominciato “a valle, dai soggetti, con una serie, eccellente, di ritratti di gente che vive nella Langa piemontese ponendosi il problema di non uscire neppure per un attimo da ciò che la fotografia è e può, cioè attento a non fare né letteratura né a sociologizzare il motivo scelto”. Insomma sono ritratti, ma in corsivo. Non è un documento e non è neppure un vero ritratto. Ma allora cos’è? Somiglia forse alle tredici sveglie di un altro lavoro del medesimo anno: Un minuto di fotografia? Sì e no. Vimercati ha ripreso un’idea di un celebre autore tedesco: August Sander. Alla fine degli anni Venti e all’inizio dei Trenta Sander realizza Volti di questo tempo e dopo Uomini del 20° secolo; sono ritratti di mestieri.
Memorabile lo scatto del giovane apprendista muratore a Colonia mentre regge sulle spalle i mattoni poggiati su un ripiano: la mano destra sul fianco. Sander non voleva fare della sociologia, piuttosto della “tipologia”. Sono tipi professionali. Sono ritratti di categorie, qualcosa di molto oggettivo, ma in cui, come accade sempre nella fotografia, irrompe imprevisto un elemento soggettivo. Di solito è un gesto. Anche nella macellaia la mano in tasca, infilata nell’abito da lavoro che indossa: non sa dove metterla. L’altra mano è invece poggiata sul ripiano della cassa. Lo sguardo di lei è quasi assente, quasi neutrale. Nessuno di questi elementi riguarda il punctum, per dirla con Roland Barthes. Forse lo sono, dietro di lei, i fogli di giornale con cui si avvolgono i pacchi infilati in una corta asta di metallo?
Per me il punctum è quel vaso sul lato sinistro guardando e la pianta infilata; si tratta di un esemplare di Typha latifoglia, altrimenti detta mazzasorda, una pianta lacustre, usata per via delle lunghe spighe di colore marrone come elemento ornamentale: non sfiorisce mai. Qualcosa di molto comune in tante case: un fiore che non è un fiore e che si coglie lungo i fossi e i canali senza coltivarlo. È quel decoro che colpisce. Ha poi un rinforzo visivo nella parte decorata del banco-cassa: i motivi dentro i due rettangoli laterali e in quello quadrato al centro. Sono elementi di origine classica presenti in sarcofagi etruschi e romani. Insomma, è l’eleganza popolare di quel luogo che colpisce insieme all’abito da lavoro della macellaia con i bottoni bianchi fissati lateralmente. Franco Vimercati intervistato da Elio Grazioli (Franco Vimercati. Opere, John Eskenazi) sottolinea l’immobilità di quei suoi “ritratti”; si definisce, a ragione, un contemplativo cui l’azione interessa poco. Subito dopo aggiunge di essere passato di lì a breve a fotografare le bottiglie di acqua minerale: il carico psicologico gli sembrava eccessivo nei soggetti umani.
A ben guardare i ritratti del 1974 si coglie la medesima attenzione che appare nelle bottiglie e poi nella zuppiera. Vimercati non è un fotografo formalista, ma, come aveva colto nel 1975 Fossati, prosegue la lezione di Ugo Mulas: bada alla luce che si rapprende sulla carta sensibile. E come Mulas toglie l’aura a ciò che fotografa, e paradossalmente gliela restituisce mediante un altro procedimento: l’insistenza e la minima variazione. Nei 38 ritratti c’è ancora qualcosa di spurio, d’incerto, di non assoluto, e nella Macellaia, nella sua postura, nel gesto delle mani, e soprattutto nel mobile di marmo, c’è già la cifra che è tutta sua e singolare: una distanza che diviene prossimità: si produce solo là dove la fotografia rappresenta sé stessa. Qui nella Macellaia c’è ancora qualcosa di confusivo, c’è ancora l’aura della persona e della sua identità. La fotografia ancora la racconta. Dopo guarderà solo. Meglio: contemplerà.
In copertina, Vimercati, Langhe, 1973, Macellaia, © Archivio Franco Vimercati
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