Arena di Verona / Opera in multimedia con vista sciopero
Il multimedia – immagini, video e soluzioni grafiche variamente elaborate – fa parte ormai da molti anni del bagaglio del cosiddetto teatro di regia nel melodramma. Sulla spinta dell’emergenza, per uscire dalle strettoie dei protocolli sanitari anti-Covid, quest’estate lo ha adottato in maniera intensiva anche l’Arena di Verona, riuscendo così a mettere in cartellone un festival fitto di appuntamenti ma che del teatro di regia non ha quasi nulla. Come inevitabilmente accade nell’anfiteatro romano, la scelta – che ha rarissimi precedenti fra quelle antiche pietre – è passata attraverso la monumentalità: l’immenso led wall destinato alle immagini ferme o in movimento – struttura fissa e comune a tutte le cinque produzioni operistiche del festival – secondo i dati forniti ai giornali ha una superficie di 400 metri quadrati. Una struttura imponente, che di fatto segue l’andamento curvo delle gradinate dietro al palcoscenico ma che poi non è stata considerata sufficiente rispetto a uno spazio di spettacolo così vasto da lasciare raramente immune chi deve allestirvi uno spettacolo da una sorta di “horror vacui”.
Così la stagione in corso all’Arena ha una singolare – e non esaltante – natura “anfibia”: da un lato punta sull’innovazione tecnologica, dall’altro non rinuncia agli elementi scenografici di tradizione, con ogni evidenza scelti in magazzino per attinenza tematica, cromatica, di forma. Ma poiché la situazione emergenziale, o più probabilmente la necessità di ridurre i costi, ha evidentemente consigliato di rinunciare a utilizzare figure indispensabili come i registi, gli scenografi e i costumisti – dappertutto, altrove, questo per fortuna continua ad avvenire, nonostante la pandemia – il risultato è che le proposte di teatro musicale (fino al 4 settembre, trentacinque serate operistiche e cinque “serate di gala” concertistiche o di balletto, lasciando a parte l’inaugurazione affidata a due esecuzioni in forma di concerto di Aida dirette da Riccardo Muti) risultano quasi sempre generiche e irrisolte: spettacoli senza firma, ad eccezione di quelle musicali.
In questo modo, paradossalmente è accaduto che soluzioni tecniche anche avanzate (la firma era della D-Wok, agenzia che spesso collabora, ad esempio, con un regista inventivo e innovativo come Davide Livermore) abbiano finito per essere risucchiate nella routine di spettacoli che echeggiavano la tradizione areniana senza averne però la tipica natura kolossal. Perché alla fine lo spazio, fra led wall ed elementi scenografici aggiuntivi, risultava perfino ridotto e comunque poteva essere occupato da un numero di figuranti molto inferiore a quello tradizionale, mentre il coro era relegato fermo da un lato, sulle gradinate prospicenti uno dei lati della scena, musicalmente lontano (con vari problemi esecutivi) e scenicamente avulso dal contesto.
Nelle intenzioni della sovrintendente areniana Cecilia Gasdia, la sconcertante assenza di regia doveva forse essere compensata dall’idea che ha accompagnato l’adozione del multimedia: quella cioè di trovare legami fra le opere in programma e il patrimonio monumentale e documentario italiano, in modo tale da creare – grazie alla collaborazione di un bel numero di istituzioni culturali più o meno importanti – una qualche sorta di analogia, o sottolineatura, fra le immagini sul led wall e i lavori che andavano in scena. In alcuni casi, la sinergia appariva ovvia, come per la verdiana Aida, con il coinvolgimento del Museo Egizio di Torino. In altri più mediata: Pagliacci di Ruggero Leoncavallo ha visto la “chiamata” del Museo del Cinema di Torino e del Fellini Museum di Rimini, mentre per Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (come da tradizione affiancato nella stessa serata all’altra opera nel cosiddetto “dittico verista”) si è puntato sulla collaborazione del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento.
Per Nabucco ci si è rivolti al Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara e in questo caso è stata scelta una strada rappresentativa piuttosto netta: in stretta relazione con i materiali offerti dal museo lo spettacolo collocava la biblica vicenda degli ebrei deportati in Babilonia, di cui tratta il melodramma verdiano, nel contesto delle persecuzioni degli ebrei dal 1938 alla fine della Seconda guerra mondiale. Nabucco all’ingresso di un campo di concentramento, secondo le cronache, mentre sul led wall scorrevano immagini inequivocabili. Abbastanza per sollevare qualche protesta sui social network da parte dei tradizionalisti che non accettano scostamenti di epoca rispetto a quanto si legge nei libretti. E chissà che effetto aveva fatto la precedente produzione di Nabucco in Arena, firmata Arnaud Bernard e datata 2017, che era ambientata a Milano durante le Cinque Giornate del marzo 1848, dentro e intorno a una spettacolare riproduzione scenografica della Scala...
Negli altri spettacoli a cui abbiamo avuto modo di assistere, però, l’interazione è stata molto meno netta, e non così d’impatto. Aida, cessata la rapida sfilata di immagini di meravigliosi reperti del Museo Egizio, proposta in apertura, si è risolta in immagini un po’ da film e un po’ da cartone animato, non senza qualche incursione nel videogioco. Cavalleria rusticana e Pagliacci sono stati contrapposti nel riferimento cinematografico: la prima collegata al neorealismo (fra immagini in bianconero di processioni e borghi siciliani), i secondi affiancati alle rutilanti invenzioni felliniane, più con le scene dal vivo che in quelle multimediali, dedicate in realtà semmai a grandi ritratti del cineasta riminese e dei suoi attori d’elezione.
L’impressione di un multimedia con il freno a mano tirato, solo a sprazzi collegato alla drammaturgia dell’opera con cui doveva interagire, è stata confermata dalla Traviata. Per il capolavoro di Verdi, dall’Arena hanno chiesto alla Galleria degli Uffizi una serie di ritratti di donna: da Firenze hanno mandato un po’ di tutto, dalla Venere di Botticelli ad alcune belle tele di Boldini o dei Macchiaioli, passando per il Rinascimento e il Manierismo, senza trascurare Goya. Una gran bella raccolta che non ha spostato in nulla la routine di uno spettacolo scenograficamente dominato da due grandi scaloni di zeffirelliana memoria, su cui si affaticavano cantanti e figuranti. Così come una cartolina di maniera è parsa la Parigi tardo Ottocento che ha fatto da sfondo per il primo atto, con la Tour Eiffel in costruzione e sempre bene in vista, i cieli bigi popolati, chissà perché, da mongolfiere che salivano e scendevano.
Quasi sempre, insomma, la sensazione è stata quella di un’occasione mancata. Stretti fra la necessità di rispondere al pubblico tradizionale, ancorché più che dimezzato ammesso quest’estate agli spettacoli (non più di seimila spettatori grazie a un protocollo speciale per l’Arena; tetto massimo nella prima parte del festival quasi mai raggiunto) e le possibilità offerte dal multimedia e dalle tecnologie, i responsabili della Fondazione hanno cercato di trovare un compromesso che è risultato il più delle volte asimmetrico. Ridotto ai minimi termini l’effetto kolossal, cautissime le invenzioni creative basate sulla tecnologia.
Se non altro, ed è già molto, il versante musicale ha riservato agli appassionati più di qualche rilevante motivo d’interesse.
Ad esempio, il gran ritorno di Riccardo Muti in Arena, a 41 anni dalla sua precedente e unica apparizione, quando diresse il Requiem di Verdi pochi giorni dopo la strage di Bologna – agosto 1980. Libero da ogni rapporto con il fatto scenico, visto che si trattava di esecuzione in forma di concerto posta a inaugurare la stagione, il direttore napoletano ha concertato in maniera che non si può definire altrimenti che rivelatoria. Perché certi incisi dell’orchestra, certi frammenti suddivisi fra le sezioni – si tratti delle trombe o dei violoncelli – hanno raggiunto nella sua interpretazione un peso specifico drammaturgico esemplare tanto quanto la parola scenica e il suo rincorrere i motivi ricorrenti tipici di quest’opera. Motivi che in questo caso sono stati ricondotti alla loro natura primigenia, alle intenzioni del compositore: “segnali” che solo grazie all’eloquenza del fraseggio strumentale (e alla duttilità di tempi e dinamiche) assumono il loro più autentico senso drammatico.
Ad esempio, una scelta dei protagonisti vocali che è sempre parsa non solo ben centrata tecnicamente, ma anche tale da realizzare linee interpretative approfondite, meditate, stilisticamente consapevoli. E vale la pena di citare almeno Sonia Ganassi, Santuzza in Cavalleria rusticana; Marina Rebeka (Nedda) Yusif Eyvazov (Canio) e Amartuvshin Enkhbat (Tonio) in Pagliacci; Anita Rachvelishvili (Amneris) e Angela Meade (Aida) nel capolavoro egizio di Verdi; Irina Lungu (Violetta), Francesco Meli (Alfredo) e Luca Salsi (Giorgio Germont) in Traviata. Questi valorosi cantanti hanno dimostrato che la routine non è la dannazione inespiabile dell’Arena, che il tempo delle grandi voci non è finito e che l’anfiteatro romano di Verona rimane di esse uno dei luoghi d’elezione. E pazienza se dopo Muti (a onor del vero il confronto era effettivamente ingrato) i direttori saliti sul podio, pur esperti e attenti, non sempre sono sembrati alla stessa altezza dei cantanti. Ma si sa, dirigere l’opera in Arena è una sfida complicata.
Una sfida sono anche le relazioni sindacali, soprattutto se sono al minimo storico come quelle tra Fondazione e dipendenti, con dialogo ridotto quasi a zero. Così, questa stagione senza precedenti quanto a scelte di programmazione è diventata tale anche per l’azione decisa unitariamente da tutte le organizzazioni dei lavoratori: una giornata di sciopero alla metà di luglio, in teoria volta a far saltare la quarta rappresentazione di Aida. Qualcosa di mai accaduto prima. Ma troppo alto era l’allarme – condiviso da tutte le sigle sindacali – per i livelli occupazionali (ritenuti a rischio), per la vigilanza sanitaria (non un tampone per i dipendenti da aprile, si sostiene), per la tutela dei diritti dei lavoratori con contratti a termine (molto numerosi in Arena), per la stessa sostenibilità economica del festival, con la preoccupazione che uno sbilancio porti al commissariamento della Fondazione (che viene da un lungo stato di crisi ed è nel regime della legge Bray). Per non parlare dei dubbi e delle riserve sulla gestione artistica di coro e orchestra, a partire dalla riduzione degli organici.
Lo sciopero c’è stato, ma Aida è stata eseguita lo stesso, con i cantanti accompagnati solo da un pianoforte collocato nella buca dell’orchestra e il coro ridotto a un quinto del suo normale organico in quest’opera, poco più di venti cantori, quasi esclusivamente soprani. Inevitabili le polemiche, in una situazione già tesissima per i forti attacchi ai sindacati da parte delle associazioni degli imprenditori e dei commercianti e dello stesso sindaco di Verona, presidente del Consiglio di indirizzo della Fondazione, nei giorni precedenti lo sciopero. Senza che questo peraltro sbloccasse la trattativa. Del resto, l’astensione dal lavoro era stata proclamata il 2 luglio e fino al 15 il tempo per discutere c’era. Inopinatamente, poi, la sovrintendente Gasdia ha definito “storica” l’Aida senza orchestra e quasi senza coro. E non per la sua unicità in negativo (è chiaro che in questo modo chi c’era ha visto e sentito solo un simulacro di Aida), ma per il successo decretato dai 3.500 spettatori presenti. Sono seguite repliche vibranti, non è mancato il balletto delle cifre sulla partecipazione all’astensione dal lavoro.
Il festival continua, a prescindere dai temporali di stagione sempre in agguato, la temperatura rimane rovente.