Ovadia e Tiezzi alla prova del teatro antico
Riscrivere, osare, far risuonare richiami ed echi del contemporaneo? Oppure lasciare che del mito antico si colgano le istanze archetipiche e atemporali? Tradire o preservare la tradizione? La rassegna di rappresentazioni classiche organizzata dalla Fondazione INDA al teatro greco di Siracusa è un importante laboratorio di sperimentazione sulle prassi del teatro antico nelle nostre scene e offre (tanto attraverso i tentativi riusciti, quanto attraverso le proposte più anacronistiche) un prezioso terreno di riflessione sul rapporto tra classico e contemporaneo.
Lucia Lavia in "Ifigenia in Aulide", ph. Franca Centaro
Le due tragedie greche in cartellone in questa cinquantunesima edizione (Supplici di Eschilo e Ifigenia in Aulide di Euripide) forniscono un limpido esempio di due strade antitetiche nell’affrontare la sfida: i registi Moni Ovadia e Federico Tiezzi hanno raccolto critiche ed elogi in modo opposto e speculare. Del resto Siracusa partecipa con vivacità e orgoglio al festival di cui è ospite, forse non diversamente dall’antica Atene: non è solo la comunità degli esperti e degli studiosi a discutere e a ‘schierarsi’, ma una più ampia cerchia di cittadini (può accadere, nelle strade di Ortigia, di accapigliarsi con un barista sullo iato tra i gusti del pubblico e quelli della critica).
Ha convinto molti l’Ifigenia di Tiezzi, che ha attraversato il testo classico con eleganza e rigore, senza riletture forzate né eccessivi stravolgimenti. Con la consueta abilità nell’accostare suggestioni visive e universi figurativi, il regista ha affiancato al mondo mitico greco un immaginario da India arcaica: il Coro (guidato dalla valente Francesca Ciocchetti) è connotato da vesti etniche, tinte arancio da Hare Krishna, preziosità orientali. “Mi piace pensare alla guerra di Troia come al Ramayana, uno dei grandi poemi epici della mitologia induista”, ha dichiarato Tiezzi. E una simile prospettiva, se corre il rischio a tratti di una qualche freddezza, ha l’indubbio merito di sgomberare il campo dalle sovrastrutture psicologistiche che spesso intorbidiscono Euripide, e di far deflagrare la potenza del testo (tradotto da Giulio Guidorizzi). Notevole la Clitemnestra volitiva di Elena Ghiaurov che, con il suo ingresso, riesce a imprimere allo spettacolo uno scarto di intensità (un po’ più lenti il prologo e il primo episodio): in lei si riconosce già la donna omicida e fatale dell’Orestea. Moglie decisa che rievoca un passato mai perdonato, madre che non può tollerare il sacrificio prima imposto e poi voluto della figlia Ifigenia (Lucia Lavia), regina che trama e intesse stratagemmi per evitare l’inevitabile: è Clitemnestra il fulcro di un mondo di donne che si contrappone a quello della maschile di guerra e devastazione.
Dall'alto: una scena da "Ifigenia in Aulide"; Elena Ghiaurov (Clitennestra), Sebastiano Lo Monaco (Agamennone), Lucia Lavia (Ifigenia), in "Ifigenia in Aulide", ph. Franca Centaro
L’autodeterminazione femminile è al centro anche di Supplici: le cinquanta figlie di Danao decidono di sottrarsi al matrimonio forzato con i figli di Egitto, loro cugini, e chiedono asilo a Pelasgo, re di Argo. Una tragedia di sconvolgente modernità per i temi trattati (accoglienza, tutela della libertà, riflessione sui valori della democrazia), ma arcaica nella forma: al Coro e al suo cantare viene lasciata una preminenza assoluta, le preghiere e le discussioni prevalgono sull’azione, manca una riconoscibile acmè tragica. È un testo che invita il regista a trovare soluzioni e a sporcarsi le mani, se vuole evitare un risultato implausibile e declamatorio. Certo non si sottrae alla sfida Moni Ovadia, che anticipa le possibili critiche adattando una celebre risposta di Kantor: «Se mi chiedessero “Vous avez joué Eschyle?”, risponderei: “no, j’ai joué avec Eschyle!”».
Il coro in "Supplici", ph. Maria Pia Ballarino
Il gioco comincia con un coraggioso adattamento drammaturgico (firmato insieme ai musicisti Mario Incudine e Pippo Kaballà) che mescola dialetto siciliano e greco moderno, cantata e poesia. Ecco che il dettato di Eschilo diventa un maestoso ‘cunto’ orchestrato sulla scena dallo stesso Incudine, convincente cantastorie, messaggero apocrifo che ci conduce all’interno del testo antico rinnovandolo e riscoprendone tutta la musicalità. Le Danaidi si rivelano “fimmine migranti, vistute di barbari veli”, portatrici di colori e movenze tribali, supplici della più antica e legittima delle richieste: l’accoglienza dell’altro a scapito del sé. Il neogreco diviene invece la lingua della democrazia e della libertà, brandita come una spada da Pelasgo (un incontenibile Ovadia) contro i persecutori d’Egitto, giunti a riprendersi le cinquanta parenti con la violenza: attraverso la decisione di proteggere le Danaidi il re di Argo si fa fondatore, davanti allo spettatore, di uno dei princìpi identitari dell’Occidente.
“Ma questo non è Eschilo”, si sente mormorare sulle gradinate del teatro, mentre le musiche dagli echi africani accompagnano le preghiere dialettali delle donne. Eppure alcune questioni annose affrontate dagli studiosi e per lo più trascurate dai registi (l’uso della metrica; il ruolo costitutivo della coralità nel teatro greco; l’attore antico come performer totale) trovano in questo spettacolo se non una soluzione definitiva, almeno un tentativo coraggioso e creativo. E appunto di ricerche, esperimenti, indagini si deve nutrire sulle scene di oggi il teatro antico, per non limitarsi a essere museo.