
Anno mille: Avicenna e l’illuminismo perduto
A cavallo tra il decimo e l’undicesimo secolo, a pochi anni di distanza l’uno dall’alto, due giovani studiosi giungono a Gurganj, nell’attuale Uzbekistan. Da pochi anni la città, situata sulla riva occidentale dell’Amu Darya, vicino al confine settentrionale dell’odierno Turkmenistan, era diventata la capitale della Corasmia. La città di Gurganj era stata scelta come nuovo centro del suo regno, al posto dell’antica capitale Kath, da sempre preda di violente inondazioni, proprio dal fondatore della nuova dinastia dei Ma’ munidi, Abū l- ‘Alī Ma’ mūn, che in breve avrebbe convinto il califfo arabo di Baghdad a concedergli il titolo di “scià di Corasmia”.
È questo lo scenario su cui si apre il libro di Starr, dal titolo L’epoca geniale, uscito per Oxford University Press e recentemente tradotto per i tipi di Einaudi da Daniele A. Gewurz. È una storia di “relativa oscurità”, che avvolge il cosiddetto “illuminismo perduto”. Proviamo a offrire qualche dettaglio in più. All’epoca la Coramsia è una sorta di Dubai lontana dal mare: centro d’intensa attività, a metà strada di una delle rotte commerciali più trafficate dell’Eurasia. Una terra estremamente ricca, luogo di interscambio non soltanto di merci, ma anche di tradizioni culturali: cosmopolita e ben governata, attirava non soltanto grandi mercanti, ma anche le menti più creative del periodo.
Tra questi figurano i nostri due giovani: il primo è Bīrūnī, conosciuto anche nella versione latinizzata di “Alberonius”. Per intendersi rapidamente, costui è stato ribattezzato “il Leonardo dell’XI secolo”, molti hanno visto in lui un precursore del Rinascimento, ma in generale siamo di fronte a uno dei più grandi studiosi di tutti i tempi: dotato di una cultura enciclopedica, versato in ambiti come la trigonometria e l’astronomia, capace di calcolare i diametri della Terra e della Luna con una precisione che rimase ineguagliata sino al tardo Seicento; diede un impulso decisivo allo sviluppo di discipline che noi oggi etichetteremmo sotto il nome di antropologia culturale e sociologia; considerato uno dei padri degli studi religiosi comparati; grande esperto di ciò che i moderni avrebbero chiamato chimica, farmacologia e biologia vegetale; con qualche secolo di anticipo sugli europei elaborò strumenti come il mappamondo e ne perfezionò altri come l’astrolabio. Anche se di fatto autori come Copernico, Tycho Brahe e Galileo ignorarono la sua esistenza, tuttavia lessero e studiarono opere dei suoi seguaci che erano state tradotte in lingua latina.
Veniamo all’altro prodigio, Ibn Sīnā, forse leggermente più noto del primo, sotto il nome di Avicenna, grande conoscitore di Aristotele, logico e matematico di prim’ordine, si dedicò a un’analisi approfondita della teoria del sillogismo e fu autore di opere miliari in ambito medico-scientifico come Il libro della guarigione e Il canone della medicina, al punto da essere considerato uno dei padri della medicina moderna: stabilì per esempio le prime regole per la conduzione di sperimentazioni cliniche relative ai nuovi farmaci. Si dedicò intensamente allo studio della psicologia, della fisica, elaborando una bozza di teoria del moto, per certi versi anticipando alcune intuizioni newtoniane sull’inerzia. Non mancano contributi significativi in ambito chimico, per esempio nel campo della distillazione. Starr ci ricorda che autori come Tommaso d’Aquino, Dante e Chaucer lessero quasi certamente alcune opere di Ibn Sīnā in traduzione latina.
L’intento del volume risulta molto chiaro, sin dalle prime pagine: si tratta di contribuire a “salvare dall’oblio” – per quanto è possibile – tutto ciò che si riesce a sapere non soltanto relativamente alla vita e agli studi di queste due figure mirabili, ma più in generale dell’intero contesto sociale e culturale che ha reso possibile una tale fioritura di talenti.
Poco si comprenderebbe, in effetti, di questa epoca geniale, di questo illuminismo perduto, se non si cercasse di ricostruire lo scenario culturale e l’ambiente complessivo entro cui collocare i due enfant prodige. Starr ricorda, per esempio, il contributo essenziale di Abū Sahl al-Masīhī, un medico rinomato, cristiano, proveniente dalla regione del Mar Caspio, amico personale di entrambi. E poi Ibn al-Khammār, medico cristiano siriaco, soprannominato “secondo Ippocrate”; e poi Al-Nātilī, altro medico che tradusse i cinque volumi di Dioscoride, che per dieci secoli fu una sorta di bibbia della farmacologia.
Delineare i contorni essenziali dell’élite intellettuale coeva, tuttavia, pare del tutto insufficiente a offrire un quadro sensato della complessità del periodo, in cui convergono gli studi accumulati nei secoli, una certa sapienza stratificatasi col tempo e sedimentazioni poderose del sapere che trovarono l’occasione per emergere in tutta la loro intensità. Per esempio, il nostro autore ricorda l’importanza che ebbe per gli studi aristotelici di Ibn Sīnā un trattato intitolato Sugli oggetti della metafisica e scritto tre generazioni prima da un certo Abū Nasr Muhammad ibn Muhammad al Fārābī. Un discorso analogo si potrebbe svolgere relativamente all’importanza che ebbe nella formazione matematica di Bīrūnī il Manuale di calcolo per completamento e riduzione di Muhammad al-Khwārizmī, scritto attorno all’830 d.C. e spesso citato sotto il nome di Algebra, capace di offrire un metodo di analisi matematica del tutto rivoluzionario in quanto alternativo rispetto all’impostazione greca, fondata essenzialmente sulla visione geometrica.

Si potrebbero – e si dovrebbero – aggiungere, tuttavia, almeno i nomi di Abū Bakr al-Rāzī, Abū Mansūr al-Qumrī e Abū Sahl al-Masīhī: tutti autori che forse alla maggior parte di noi dicono poco e forse nulla, ma che furono invece momenti essenziali tramite cui un certo territorio e un certo periodo storico vennero sollecitati e impreziositi sul piano culturale e intellettuale, sino alla fioritura che ebbe luogo, in particolare, grazie alla presenza e all’operato di Bīrūnī e di Ibn Sīnā.
Le carriere di queste due figure di spicco vengono presentate da Starr rifacendosi al vecchio modello di Plutarco: l’autore si ispira alle Vite parallele, instaurando costanti parallelismi, ma evidenziando al contempo una serie di differenze tra i due, senza mai nascondere il tratto di rivalità e di spietata concorrenza che in realtà caratterizzò i loro rapporti reciproci. Nel periodo giovanile i due polemizzarono aspramente, per poi ignorarsi nel resto della vita – basti pensare che, quando Ibn Sīnā dettò la sua autobiografia, non trovò necessario nominare Bīrūnī, benché entrambi avessero addirittura vissuto nella stessa città, a Guranj, per un periodo totale di sette anni.
Ci sono almeno due aspetti che possiamo mettere in luce per mostrare quale distanza corresse tra i due. Da un lato, sul piano del temperamento, le differenze non avrebbero potuto essere più radicali: Bīrūnī era orfano, probabilmente – visto che il suo nome nella lingua iranica della Corasmia significa “qualcuno dei sobborghi” – non era originario di Kath. Fu attratto dalla vita pubblica, ma solo per breve tempo e conseguendo risultati non encomiabili: di fatto trascorse gran parte della sua esistenza immerso in studi solitari. Dall’altro lato, Ibn Sīnā era ricco di famiglia e crebbe in un ambiente familiare stimolante: il termine Sīnā si trova anche nel sacro libro zoroastriano, l’Avesta, e significa “persona colta”. Era un cortigiano e apprezzava la bella vita: divenne un amministratore e uno statista efficace, per ben due volte ricoprì l’incarico di visir.
L’altro profilo concerne la loro impostazione intellettuale di fondo: Bīrūnī si appassionava ai fenomeni specifici e poi procedeva a generalizzare sulla base delle osservazioni maturate nei casi particolari; critico nei confronti delle dimostrazioni raggiunte solo per mezzo della logica, si affidava alla matematica come strumento fondamentale di formalizzazione delle scoperte. Dai suoi scritti traspare una chiara fiducia nel fatto che tramite la matematica fosse possibile rappresentare fedelmente la realtà. Ibn Sīnā aspirava, invece, alla creazione di un quadro intellettuale unico, integrato e completo, capace di comprendere filosofia, scienza, medicina e religione. Da questo punto di vista, la formazione aristotelica influì pesantemente sulla sua ambizione di creare uno schema unico attraverso cui organizzare l’intero novero della conoscenza.
Le due vite proseguono, diciamo così, parallelamente, cercando di schivare, con alterne fortune, i colpi della sorte: l’instabilità del quadro politico, alimentata dall’ascesa dei Qarakhanidi nella regione, i movimenti secessionisti presenti nelle terre dei Samanidi e nella stessa Corasmia e così pure la pressione militare esercitata dai Buwayhidi portarono un grande scompiglio nella vita dei due studiosi. Le loro strade si separarono e con alterne vicende cercarono di preservare quanto più intatto possibile quello spazio di quiete e di studio così vitale e indispensabile all’avanzamento delle loro rispettive ricerche.
Un altro aspetto su cui l’autore si sofferma è il rapporto che i due svilupparono con la religione islamica: entrambi abili nel citare le scritture, ma con uno stile diverso. Starr spiega come Bīrūnī si riferisse spesso al Corano, spesso invocandolo per difendere le proprie invenzioni e le proprie metodologie contro i critici. Nessuno dei due, probabilmente, proseguì questo tipo di formazione includendo il kalām, né abbiamo notizia di loro pellegrinaggi alla Mecca: non risulta che fossero particolarmente dediti al digiuno o ad altre pratiche connesse al loro orizzonte religioso. Sul loro modo d’intendere la fede e sulla loro concezione del divino il lettore troverà nel libro diversi dettagli, utili a inquadrare più precisamente il loro modo peculiare di calibrare il rapporto tra scienza e fede.
Oltre all’analisi delle rispettive scoperte il libro intende offrire una prospettiva piuttosto articolata sulla loro eredità intellettuale, sviluppatasi nel corso dei secoli attraverso i loro immediati seguaci, discepoli e successori. Si pensi in particolare al grande matematico e astronomo ‘Umar Khayyām, che portò avanti gli studi di Bīrūnī, ma anche allo stesso al-Tūsī che grazie a una nutrita squadra di collaboratori, tra cui Fao Munji, astronomo cinese venuto da Pechino, riuscì a creare l’osservatorio di Maragha, l’istituzione scientifica più avanzata del mondo euroasiatico nel XIII secolo. Alcune intuizioni al-Tūsī, per esempio quella legata alle orbite circolari, furono riprese secoli più tardi dallo stesso Copernico. Sul fronte di Ibn Sīnā non possiamo rinunciare ad accennare alla violenta critica mossa da Ibn Rushd, a noi noto come Averroè, alla sua interpretazione della metafisica. D’altra parte, l’eredità filosofica di Ibn Sīnā venne approfondita tra il XII e il XIV secolo da un vero e proprio esercito di studiosi europei. I suoi testi cominciarono a circolare tra i francescani e i domenicani dell’università di Padova, poi di Parigi e infine di Oxford. Un impulso decisivo venne dato da Guglielmo d’Avernia, nominato vescovo di Parigi nel 1227, e proseguì con un suo giovane collaboratore, un professore bavarese di nome Albert, che poi sarebbe diventato uno dei “Magni” della nostra tradizione.
Malgrado tutta questa complessa trama di reti e di rapporti, Starr conclude dicendo che Bīrūnī e Ibn Sīnā crearono una sorta di “Rinascimento a due”: non è necessario rimarcare come sia loro mancato il supporto collegiale di cui Newton poté godere presso la Royal Society, ma più in generale si deve osservare come l’assenza di istituzioni capaci di alimentare e sostenere le loro ricerche e i loro studi – salvo rarissime eccezioni, incapaci di raggiungere la massa critica necessaria per diffondere quella che noi oggi potremmo definire una “mentalità scientifica” – costituì una delle peculiarità della vita intellettuale musulmana e forse una delle cause del suo declino.
Una vicenda che mette in scacco tante delle “narrazioni” attorno a cui la tradizione europea è andata costruendosi, maturando una propria consapevolezza: dopo aver osservato da vicino la parabola disegnata da Bīrūnī e da Ibn Sīnā, molte delle nostre certezze sulle magnifiche sorti e progressive della civiltà vengono revocate in dubbio. Il progresso lineare e costante della conoscenza scientifica, lo sviluppo in qualche senso obbligato e unidirezionale del rapporto tra scienza e fede, la crescente indipendenza del lavoro intellettuale da ogni forma di autorità esterna – simili idee in realtà non posseggono quell’universalità che spesso vantano: sono soltanto il nostro modo di vedere le cose perché, almeno in parte, le abbiamo vissute così.
