Per farla finita con l'homo œconomicus
Il modo migliore per controllare un corpo, e fargli fare quello che si vuole che faccia, non è quello di mettergli alle calcagna un poliziotto e un giudice (o un prete); è molto più efficace – ed economico – mettergli un poliziotto e un giudice nella testa, così quel corpo si controllerà da solo, e si giudicherà da solo. In questo senso, come scrive Wendy Brown nel Disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo (Luiss University Press, Roma 2023) “il neoliberismo”, prima di essere una dottrina e una pratica economica, “è una caratteristica modalità della ragione, della produzione di soggetti, una ‘condotta della condotta’ e uno schema di valutazione” (p. 24). Non è tanto che si agisce tenendo conto dei vincoli economici, è che si pensa, e quindi si provano affetti, in modo neoliberale. È questo l’oggetto del libro di Wendy Brown, che infatti discute di come il neoliberismo sia ormai molto più che una ‘semplice’ faccenda economica, quanto appunto il principio, l’unico principio, che regola le vite degli esseri umani e dell’intero pianeta.
In effetti non c’è più nessun aspetto della vita umana che non venga valutato nei termini economici del capitale umano, della concorrenza, della valutazione, del ROI (return of investment) e così via: “il neoliberismo” diventa così “un ordine normativo della ragione che […] assume la forma di una razionalità di governo che estende una formulazione specifica di valori, pratiche e misurazioni economiche a tutte le dimensioni della vita umana” (p. 32).
Ma che cosa vuol dire, effettivamente, che ogni aspetto della “vita umana” diventa prima di tutto un fenomeno economico? Pensiamo alla salute pubblica, che in Italia è gestita dal servizio sanitario nazionale. Forse qualcuno ricorderà che quando questo sistema fu istituito (1980) le sue articolazioni locali si chiamavano USL, cioè Unità Sanitarie Locali. Come dice la stessa denominazione, l’obiettivo di queste unità era garantire la salute pubblica. L’USL, come sappiamo, non è durata molto, già pochi anni dopo è diventata ASL, cioè azienda sanitaria locale. Nonostante gli sciocchi continuino a ripetere che non contano le parole, ma solo i fatti, in questo caso è evidente che è la parola – azienda – che produce un fatto. Parlare di aziende significa parlare di costi, di efficienza, di profitto, di concorrenza, di valutazione. E la salute? C’è ancora, ma mentre prima era il solo obiettivo, ora è uno – e non è affatto detto che sia il principale – degli obiettivi della governance (altra parola dagli effetti pervasivi a cui Brown dedica pagine molto interessanti) di una ASL.
Non ci vuole molto per capire che c’è un’enorme differenza fra una USL e una ASL, e questa differenza sta tutta nel passaggio da una ragione politica – è giusto che tutti i cittadini possano accedere alle cure di cui hanno bisogno – ad una economica, secondo cui gli utenti del SSN non sono più, infatti, dei cittadini, ma appunto dei clienti di un servizio in libera concorrenza (fra ASL diverse e con la medicina privata). È proprio nel passaggio da cittadino a cliente il senso del libro. Se si è, prima di tutto, cittadini, allora questo significa che ognuno di noi – come sosteneva Aristotele – è un homo politicus, cioè un vivente naturalmente sociale che ha a che fare con la giustizia, l’eguaglianza e l’etica; se, invece, è soprattutto un homo œconomicus – questo è il soggetto umano secondo la ragione neoliberale – allora si sentirà sempre in competizione con i suoi simili (l’altro è piuttosto un concorrente), agirà in base al principio costi/benefici in un regime, appunto, di permanente concorrenza reciproca.
Ma che c’è di strano, diranno in molti, forse la salute non rientra comunque anche nel campo dell’economia? Si può pensare alla salute senza tenere conto dei vincoli economici? Certo che si può, in realtà si deve perché la salute pubblica è un valore – in base al principio politico dell’eguaglianza – che non può essere misurato in base a principi economici, perché non è un valore di mercato. Tuttavia un’affermazione del genere viene giudicata, se non ingenua, del tutto irrealistica dal sentire comune ormai del tutto colonizzato, appunto, dalla ragione neoliberale. È questa impossibilità anche solo di immaginare un mondo non asservito all’economia il tratto caratteristico del nostro tempo; al contrario si accetta senza discussione “l’economizzazione di sfere e pratiche fino a questo momento non economiche” (p. 32) come appunto la salute, l’istruzione, il rispetto per l’ambiente, la vita stessa; alla fine “siamo ovunque homines œconomici e soltanto homines œconomici” (p. 34).
Si capisce perché il neoliberismo vada compreso, più che come una dottrina economica, come un dispositivo di soggettivazione, che produce non tanto degli economisti, quanto delle persone che pensano sé stesse in termini di aziende ‘individuali’ in concorrenza con altre aziende simili. Che cosa comporta, sul piano della vita delle persone, questa radicale e apparentemente definitiva economizzazione della vita umana? Wendy Brown elenca cinque conseguenze principali: 1. “un soggetto concepito e costruito come capitale umano per sé […] corre continuamente il rischio di fallire, di essere licenziato e abbandonato senza aver fatto niente, a prescindere da quanto sia capace e responsabile. Le crisi fiscali, i licenziamenti collettivi, l’esternalizzazione, la cassa integrazione e così via possono metterci in pericolo anche quando siamo investitori e imprenditori responsabili e dotati di buonsenso.
Questo pericolo incide addirittura sui bisogni essenziali, come il cibo e un tetto sulla testa, poiché il neoliberismo ha smantellato tutti i programmi di previdenza sociale. La disintegrazione della sfera sociale in frammenti d’imprenditorialismo e investimento su sé stessi elimina la protezione fornita dall’appartenenza a un piano pensionistico o alla cittadinanza” (p. 38). Capiamo il senso del libro, Il disfacimento del demos, cioè il disfacimento del principio secondo cui il governo democratico è affidato al popolo (δῆμος). Se ognuno lavora per sé, in un regime di costante concorrenza contro gli altri, non vale più alcun principio di solidarietà sociale e di uguaglianza. Dopo l’homo œconomicus non rimane più niente. 2. “la disuguaglianza, non l’uguaglianza, è lo strumento e la relazione tra i capitali concorrenti. Quando veniamo considerati capitali umani in tutto ciò che facciamo e in ogni luogo, l’uguaglianza smette di essere la nostra relazione naturale con gli altri. Pertanto, l’uguaglianza non è più un fondamento o un assunto a priori della democrazia” (p. 38). Ma senza eguaglianza, che rimane dell’ideale democratico? “Una democrazia composta da capitale umano è costituita da vincitori e vinti, non prevede un trattamento o una protezione paritari. Anche in questo senso il contratto sociale viene rovesciato” (p. 38). 3. “Quando tutto è capitale, scompare la categoria del lavoratore, così come la sua forma collettiva, la classe […].
Allo stesso tempo viene smantellata la stessa ragione d’esistere dei sindacati, delle associazioni di consumatori e di altre forme di solidarietà economica all’infuori dei cartelli tra capitali” (p. 39). Se ognuno è un capitale umano (secondo la famigerata formula, ormai corrente anche nei regolamenti scolastici), è evidente che non può fare appello all’aiuto degli altri, perché questi sono in realtà dei concorrenti, le cui azioni rispondono solo all’impersonale logica del business. Il sindacato allora diventa del tutto inutile, così come la solidarietà di classe (si pensi a quanto ha resistito Amazon alla creazione di sindacati fra i suoi dipendenti). Questi primi tre punti segnano il passaggio dall’homo politicus all’homo œconomicus; di conseguenza, ed è il quarto punto:
“Quando esiste soltanto l’homo œconomicus, e quando l’ambito politico stesso viene rappresentato in termini economici, sparisce la base della cittadinanza che si occupa della cosa pubblica e del bene comune. Qui il problema non è solo che si sottraggono fondi ai beni pubblici e che i fini comuni vengono svalutati dalla ragione neoliberista, cosa peraltro vera, ma che la cittadinanza stessa perde la sua valenza e sede politica. La valenza: l’homo œconomicus si accosta a tutto come a un mercato e conosce soltanto la condotta di mercato: non sa pensare agli scopi pubblici o ai problemi comuni in modo genuinamente politico. La sede: la vita politica, e lo Stato in particolare […] vengono riconfigurati dalla razionalità neoliberista. La sostituzione della cittadinanza definita come interesse per il bene pubblico con una cittadinanza ridotta al cittadino come homo œconomicus elimina anche l’idea stessa di popolo, un demos che afferma la propria sovranità politica collettiva” (p. 39).
Non è necessario un colpo di stato per porre fine al demos, e quindi sconfiggere la democrazia; basta convincere le persone che il demos, propriamente, non esiste, come pensava la campionessa del neoliberismo, Margaret Thatcher, che infatti coerentemente affermava che “there is no such thing as society there are individual men and women and there are families”. Da notare che le famiglie, per chi ne ha una, diventano l’unico argine non individuale allo spietato e impersonale dispositivo del mercato. Viene da qui il familismo del nostro tempo, perché se quando sei nei guai lo stato non ci pensa, ti può aiutare solo la famiglia. L’ultima conseguenza individuata da Wendy Brown è un corollario dei primi quattro punti: 5. “la giustizia, la pace o la sostenibilità ambientale possono essere perseguite fintantoché promuovono obiettivi economici” (p. 40), non in quanto valori di per sé.
Non è perché è giusto che è il caso di salvare il pianeta dall’invadenza capitalistica, ma perché è conveniente, perché innescherà la green economy. D’altronde di che stupirsi quando succede sempre che un’impresa quotata in borsa segna un rialzo delle sue quotazioni proprio nel momento in cui annuncia un massiccio piano di licenziamenti? In questo senso “l’iterazione neoliberale dell’homo œconomicus sta spegnendo l’agente, il linguaggio e gli ambiti attraverso i quali la democrazia, in qualsiasi variante, si materializza” (p. 73). Quello che l’inconscio neoliberista minaccia, allora, è “il progetto ideale, immaginario e politico della democrazia” (p. 175), un progetto che si basa invece sul principio non economico dell’eguaglianza, del valore non economico della cultura, in particolare di quella umanistica (cioè quella che classicamente si pone l’obiettivo di formare l’essere umano nella sua completezza; “l’homo œconomicus come capitale umano si lascia alle spalle non soltanto l’homo politicus, ma […] l’umanesimo stesso”, p. 42), sul principio politico della cittadinanza.
Tuttavia, e questo è forse il punto più interessante del libro, al centro di questo progetto c’è un paradosso, ché se da un lato la razionalità neoliberista si fonda sull’assoluta indipendenza dell’individuo in quanto “capitale umano”, dall’altro, tuttavia, lo smantellamento del demos lo lascia del tutto solo in balia di quello stesso mercato che dovrebbe essere il suo ambiente ‘naturale’: è “questo è il paradosso centrale, forse persino lo stratagemma centrale, della governance neoliberista: la rivoluzione neoliberista avviene nel nome della libertà – liberi mercati, Paesi liberi, uomini liberi – ma distrugge le basi su cui la libertà poggia, la sovranità degli Stati e dei soggetti” (p. 97), perché che cosa può il singolo e isolato homo œconomicus – senza società, sindacati, sistema di welfare, senza nemmeno la possibilità di accedere a un sistema di istruzione superiore pubblica – contro lo strapotere del mercato? Un paradosso che produce sempre più disagio, insofferenza, disperazione.
In effetti, come scrive in chiusura Wendy Brown, l’immagine della razionalità neoliberista “dell’essere umano, il suo principio di realtà e la sua visione del mondo – ‘non esiste un’alternativa’ – sacralizzano, aumentano e naturalizzano questa disperazione senza riconoscerla. Lasciando che i mercati decidano il nostro presente e il nostro futuro, il neoliberismo abbandona del tutto il progetto del controllo individuale o collettivo dell’esistenza. La soluzione neoliberista ai problemi è sempre altri mercati, altri mercati completi, altri mercati perfetti, altra finanziarizzazione, nuove tecnologie, nuovi modi per monetizzare. Tutto fuorché un processo decisionale collaborativo e contestatore, il controllo delle condizioni di vita, la pianificazione del futuro; tutto fuorché una costruzione deliberata dell’esistenza attraverso il dibattito democratico, il diritto, una linea politica. Tutto fuorché il sapere, la deliberazione, il giudizio e l’azione umani classicamente associati all’homo politicus.” (p. 192).
Tuttavia da questa situazione nasce una crescente insoddisfazione. Si pensi al fenomeno della great resignation, le dimissioni di milioni di persone da posizioni lavorative anche remunerative che rendono, però, la vita del tutto impossibile. Si tratta, come mette in evidenza Dario Gentili nella sua Prefazione, di un fenomeno che dice che, nonostante tutto, qualcuno comincia a capire che c’è vita dopo l’economia. Forse il demos non è del tutto disfatto. C’è ancora spazio per la politica. Manca solo un soggetto politico capace di cogliere questa opportunità. Ma prima o poi arriverà, e se non arriverà sarà lo stesso demos a inventarne uno.