Speciale
Perché disegnare volti
È facile disegnare un volto con poche linee. Prima si realizza un ovale, poi si aggiungono due linee ad arco per le sopracciglia, due punti per gli occhi e, in mezzo a questi, una linea angolare per il naso, poi, più in basso, una linea orizzontale basterà per tracciare una bocca.
Il volto appare. La nostra mente riconosce immediatamente in quei tratti semplici la rappresentazione di un essere umano, senza bisogno di realismo: quel disegno al limite dell'astrazione è quanto basta a un rudimentale riconoscimento facciale. Sperimentiamo questo meccanismo cognitivo sin da piccolissimi, quando nelle nostre prime settimane di vita quella capacità di riconoscere un viso ci permette di empatizzare e relazionarci con i nostri genitori. È una capacità che sviluppiamo per la nostra sopravvivenza e che ci fa subito capire come siamo fatti, che siamo diversi dagli uccelli, dai lupi, dai gatti o da qualsiasi altro animale possa avvicinarsi alla nostra culla; sappiamo dal suo viso quale sia la specie a cui appartiene, così da capire quali sono i nostri simili da cui avremo nutrimento e protezione.
Tutti sono capaci di disegnare un volto stilizzato. Il processo di stilizzazione prende il nome dallo strumento, lo stilo, che gli antichi usavano per scrivere e disegnare sulle tavolette di cera: era una sorta di bastoncino in osso, ferro o avorio con una punta acuminata, che produceva come risultato delle linee piuttosto nette e sottili. Perciò disegnare in modo stilizzato significa disegnare con linee, poche ed essenziali, in modo chiaro e deciso. La stilizzazione non si presta alla rappresentazione realistica, quanto piuttosto alla semplicità, con la quale si cerca di cogliere l'essenza della cosa da rappresentare.
Il disegno di volti stilizzati è tornato davvero di moda soltanto negli ultimi cento anni; dall'età del Bronzo, probabilmente, non si era più visto un tale piacere nell'usare la stilizzazione per rappresentare volti.
In un piccolo museo del nord della Sardegna, a Viddalba, in una zona montuosa che si alza dietro a spiagge per niente famose, ci sono una cinquantina di stele funerarie, risalenti ad un periodo che va dal III sec a. C. al IV d.C., che colpiscono per le loro buffe raffigurazioni: sono dei piccoli ceppi di pietra, alti meno di un metro che hanno nella parte alta l'incisione, più o meno raffinata, di un volto stilizzato. Alcuni paiono frutto di un modo canonizzato, altri sembrano riusciti non troppo bene, come dei tentativi maldestri; in alcuni casi sembrano, addirittura, rappresentazioni cariche di ironia. In quello stesso periodo, a migliaia di chilometri di distanza, nell'oasi egizia del Fayyum, artisti eccelsi creavano ritratti mortuari di una raffinatezza e di un realismo stupefacente. Si può credere che ci sia una differenza di abilità nei loro esecutori, e questo è un dato di fatto, ma più probabilmente la differenza è frutto di scelte, ovvero di cosa si pensava fosse importante per una società e di cosa non lo fosse.
I primi esempi di volti stilizzati nell'arte novecentesca sono di Picasso, che prese a modello iniziale le stilizzazioni delle statuette cicladiche che aveva visto nella sua terra natìa e poi l'arte africana che si iniziò a diffondere a Parigi dopo l'esposizione universale del 1900, in virtù dallo sfruttamento delle colonie, depredate di opere considerate primitive e artigianali, eppure intriganti. Quella stessa matrice africana la possiamo trovare nelle opere di Amedeo Modigliani, probabilmente ispirate a loro volta dal lavoro dello scultore Constantin Brâncuși, che aveva sintetizzato in modo personale gli stessi input di Picasso; anche Henri Matisse disegnerà mirabili volti con poche linee, rendendo più eleganti e ammiccanti le stilizzazioni africane; intanto Jean Cocteau, disegnatore indefesso, sintetizzò un suo modo di stilizzare i volti che si rifaceva alle rappresentazioni in voga nell'antica Grecia. Senza voler stilare un elenco esaustivo, si può fare un salto fino ai giorni nostri e citare l'artista Mimmo Palladino, capace di rappresentare il volto umano in un modo arcaico e universale, senza connotazioni di sorta, se non con un rimando, quasi sognato, a una certa idea di mediterraneità.
Disegnare un volto stilizzato diviene un esercizio di rappresentazione della condizione umana e quasi ogni artista figurativo si misurerà con questo compito.
L'arte preistorica sembra invece ignorare il disegno del volto. Uno dei rari e più antichi esempi è quello della grotta di Bernifal, in Francia, datato 15000 anni fa. È ottenuto, come spesso accadeva a quel tempo, sfruttando un rilievo della roccia; probabilmente, in un lampo di pareidolìa, l'artista ha aggiunto alla roccia, con del carbone, due sopracciglia e degli occhi, neri e profondi come buchi, forse un naso, un po' camuso, e un accenno di bocca. L'effetto è piuttosto realistico. Il volto di Bernifal sembra emergere dalla roccia come un fantasma e i suoi occhi sono in grado di catturare lo spettatore, di entrargli dentro come quelli di un demone.
A parte questo singolare esempio, non pare esserci nessun altro indizio, nell'arte preistorica, che suggerisca un interesse, almeno pittorico, per il volto umano. Forse era la scultura ad adempiere questo compito.
Ci piace pensare che quegli uomini si sentissero talmente immersi nell'ambiente naturale, talmente intrinsecamente collegati alla natura, che non sentivano il bisogno di emergere e di autoaffermarsi come specie peculiare. Erano solo una delle tante forme di vita che si agitavano in quell'inverno preistorico. Tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che la coscienza di sé non fosse ancora emersa e che sia scoccata come una scintilla soltanto millenni più tardi, durante le prime civiltà.
Dunque, disegnare volti sembra essere prerogativa dell'uomo moderno, come un bisogno che emerge man mano che la coscienza di sé cresce.
Ma quali sono i motivi che ci spingono a farlo?
Disegnare gli altri
Se disegnare permette una conoscenza più approfondita delle cose, disegnare un volto umano ci consente di capire meglio come siamo fatti, come gli altri ci vedono, chi sono gli altri e così via.
Si prenda un foglio e si disegnino, usando il modo semplice sopracitato, i volti delle persone che si ricordano: parenti, amici, vivi o defunti, incontri casuali, persone viste in metro o nei sogni. Il foglio si popolerà di una quantità crescente di volti, ognuno con le sue caratteristiche somatiche ben precise: una ridda di facce rappresentativa di quanto le nostre vite siano intrecciate a quelle degli altri. Inoltre, l'evocazione di una persona sembra renderla presente e viva davanti a noi.
Questo esercizio ci permette di esplorare quanto diverso ogni individuo possa essere dall'altro, esperienza che facciamo quotidianamente, senza accorgercene, anche solo passeggiando in strada. Abituare i bambini a disegnare grandi varietà di facce può permettere loro di capire quanta bellezza c'è nella diversità; inoltre è importante per far comprendere loro come le caratteristiche anatomiche non determinino il carattere delle persone e che le semplificazioni usate da fumetti, vignette e cartoon spesso possono essere pericolose, creando stereotipi con cui avremo a che fare per tutta la vita e che useremo per giudicare le persone con cui ci relazioniamo, invece di provare a capirle.
Ovviamente non si deve confondere questo tipo di esercizio con il ritratto, ovvero con la rappresentazione di qualcuno che abbiamo di fronte a noi, anche solo in foto. Mentre il ritratto cerca di riprodurre in modo fedele ciò che vediamo e necessita di una grande abilità, il volto stilizzato raffigura soltanto i tratti essenziali e può essere realizzato da chiunque.
Nella stazione metro di Malbeek, a Bruxelles, ci sono delle opere dell'artista Benoit Van Innis. Sono dei ritratti, realizzati con poche linee, neri su fondo bianco, alti un paio di metri. Ci guardano mentre siamo seduti sul treno, attraverso i finestrini. Il loro sguardo è inevitabile e davvero invadente. Un volto disegnato riesce a guardarci come una fotografia o un ritratto dipinto in modo realistico, ma, per qualche motivo il disegno, con la sua essenzialità, sembra interrogarci con una forza maggiore, forse proprio perché sembra parlare in modo universale della condizione umana.
Possiamo dire che il primo motivo per cui è importante disegnare volti è che, in questo modo, si riesce a cogliere l'essenza di una persona. Il secondo motivo è che, imparando a rappresentare la moltitudine di possibilità di cui sono capaci le fisionomie umane, ci abituiamo ad accettare la diversità, senza stupircene.
Disegnare noi stessi
In un famoso manuale di disegno si mostra come le persone disegnavano i loro autoritratti prima di essere "migliorati" grazie agli insegnamenti del libro: ci sono molte facce disegnate in modo incerto, un po' infantili, storte, sbilenche, con tratti esagerati, errori prospettici e così via. Dopo aver svolto tutti gli esercizi consigliati, invece, gli autoritratti diventano realistici, le ombreggiature al posto giusto, i lineamenti coerenti e somiglianti. Nel libro i risultati del prima e del dopo sono messi a confronto tra loro e sembrano fatti da persone diverse: originali, istintivi e singolari quelli del prima, omologati, ben realizzati, realistici quelli del dopo. Come se imparare a disegnare ci facesse perdere quella capacità di intuizione e di visione che abbiamo quando la nostra mano è incerta.
Disegnatori o meno, dovremmo sempre misurarci con l'autoritratto. Ci costringerà a interrogarci sul come siamo fatti, su quali siano le caratteristiche somatiche che ci rendono peculiari e riconoscibili, fino al riconoscere la nostra natura più intima. Quando ci scattiamo un selfie non mettiamo in moto tutti questi ragionamenti profondi: stiamo affermando la nostra identità, cercando di mostrare agli altri come vorremmo essere visti. Disegnandoci, invece, scaviamo dentro noi stessi per comprenderci meglio.
Dovremo imparare ad usare questi autoritratti come strumento per farci conoscere dagli altri, lasciandoci interrogare sul perché ci siamo rappresentati in un certo modo.
Quindi il terzo motivo per cui è importante disegnare volti è che si conosce meglio noi stessi.
Disegnare per empatizzare
Il disegno di un volto è capace di scatenare in noi delle reazioni. Se si prova a disegnare una faccia sorridente, anche a noi verrà da sorridere; se si prova a disegnare una faccia imbronciata, la nostra bocca si piegherà in una smorfia. Non accade la stessa cosa quando guardiamo una fotografia, o almeno non in modo così automatico.
Quando stiamo disegnando e il volto inizia ad apparire, lo riconosciamo facilmente come umano e il nostro cervello cerca subito di creare empatia, cercando di entrare in sintonia con le emozioni che vede rappresentate. È grazie ai neuroni specchio che ci viene da sorridere quando disegniamo una faccia sorridente. I bambini molto piccoli reagiscono allo stesso modo a dei disegni di facce stilizzate, recitando le espressioni che vedranno rappresentate. Non otterranno lo stesso risultato guardando una foto, perché le informazioni contenute sono troppe e troppo complesse da elaborare; necessitano insomma di saper leggere un'immagine. Invece il disegno stilizzato sembra rispondere a quella che è la rappresentazione sintetica di un volto umano contenuta nel cervello e che funziona come un vero e proprio riconoscimento facciale.
Nei miei corsi faccio provare un esercizio rivelatorio rispetto a questi meccanismi del cervello: chiedo ai partecipanti di chiudere gli occhi e di disegnare poi una faccia in modo stilizzato (ovale, occhi, naso, bocca). Quando riaprono gli occhi, la maggior parte di loro sorride stupefatta di essere riuscita a disegnare alla cieca. Il risultato è sempre di una coerenza perfetta tra occhi, naso e bocca, come se sapessimo in modo automatico come sono posizionati l'uno rispetto all'altro e quale sia la giusta distanza tra loro; infatti nessuno inverte gli elementi, oppure distanzia o avvicina troppo gli occhi. Spiego loro che il nostro cervello è programmato per riconoscere volti umani e il sistema è talmente ben funzionante e rodato da permetterci di disegnare una semplice faccia anche tenendo gli occhi chiusi.
Si può dire che un altro motivo per disegnare volti è che piace molto al nostro cervello.
Come abbiamo visto in questi esempi, non c'è ragione valida per non disegnare volti. Ci permette di capire meglio noi stessi e gli altri, ci consente di rappresentare la quasi infinita varietà somatica di tutti gli abitanti di questo pianeta e in questo modo comprendere quanto diversi possiamo essere, ci concede un divertimento intelligente che il nostro cervello apprezza.
Adesso che l'articolo è finito, potete uscire, comprarvi un quaderno o un taccuino, prendere una penna, dei pennarelli o delle matite, e iniziare a riempirlo di volti: immaginati, ricordati, divertenti, strani, belli, mostruosi, colorati.
Vedrete che non potrete più annoiarvi e, sfogliando quelle pagine, avrete sempre una ridda di sguardi che potranno confortarvi.
Leggi qui il programma di Scarabocchi 2024 (Novara 13-15 settembre)