Peter Brooks. Vite di Balzac
Nel 1858, quando il valore letterario dei romanzi di Balzac era ancora molto discusso, uno dei suoi primi critici, Hippolyte Taine, scriveva: “Balzac esce quasi sempre da sé stesso e diventa il suo personaggio. […] Si inebria della propria opera, se ne riempie l’immaginazione, è posseduto dai suoi personaggi, ne è ossessionato, li vede: agiscono e soffrono in lui, così presenti, così potenti che si sviluppano da soli, con l’indipendenza e la necessità degli esseri reali”. Tra Otto e Novecento Taine, Oscar Wilde e Henry James furono affascinati dalla vitalità degli eroi della Commedia umana; più tardi, invece, i rappresentanti del Nouveau roman – ad eccezione di Michel Butor – li considerarono con diffidenza. Ai loro occhi era imperdonabile l’ingenuità con cui il romanziere ottocentesco aveva creato un duplicato della realtà per poi compiacersi della sua verosimiglianza, fingendo di ignorarne il carattere di artificio letterario.
Nel contempo, però, storici e sociologi andavano accorgendosi che quel “duplicato della realtà” era un formidabile strumento di conoscenza. All’alba del XXI secolo era ormai assodato che nulla era più utile della Commedia umana per comprendere la nascita del giornalismo moderno e quella della pubblicità, l’evoluzione del credito, del diritto commerciale e del diritto di famiglia nell’età della Restaurazione e di Luigi Filippo. Quelle “Mille e una notte dell’Occidente” con cui Balzac si era proposto di incantare il suo pubblico, si rivelavano una preziosa miniera di informazioni e di documenti; non andavano lette come finzioni, erano una fonte storica.
Nella seconda metà del Novecento, d’altronde, le ricerche dei balzachiani sulla genesi dei romanzi che compongono la Commedia umana erano andate confermando puntualmente quello che storici e sociologi avevano intuito: dietro la maggior parte degli intrecci e dei personaggi di Balzac si profilava il ricordo di eventi reali, di personaggi che il romanziere aveva conosciuto e seguito con appassionata e instancabile curiosità. Se nessuno poteva dire di aver incontrato Lucien de Rubempré, nel suo destino si concentravano i destini di decine di giovani aspiranti giornalisti che Balzac aveva incrociato; la carriera mondana delle figlie del ricco pastaio Goriot era perfettamente sovrapponibile a quella di tante regine dei salotti parigini, abili nel nascondere le loro origini tutt’altro che aristocratiche.
Nessuno era più adatto del critico americano Peter Brooks a confrontarsi con la controversa questione della “realtà” del mondo balzachiano. Una realtà troppo gremita di stereotipi datati e superati, come sosteneva Roland Barthes? O una realtà capace di custodire e trasmettere la verità di un’epoca, come pensava lo storico Albert Sorel, uno dei maestri di Marcel Proust?
Brooks aveva già affrontato questi interrogativi dedicando a Balzac un capitolo del suo capolavoro L’immaginazione melodrammatica, datato 1976 e tradotto in italiano, da Daniela Fink, per Pratiche, nel 1983, su suggerimento di Mario Lavagetto. L’immaginazione melodrammatica, attraverso un’analisi di Papà Goriot, metteva in luce due caratteristiche molto particolari dell’arte di Balzac: la sua capacità di proporre al lettore dei segni che rivelano, una volta decifrati, il carattere dei personaggi, e la sua tendenza a privilegiare le situazioni estreme e cariche di drammaticità.
Ma questo modo di rappresentare la realtà attraverso segni eloquenti e scene dal forte impatto emotivo non era un’invenzione di Balzac; era quello adottato dagli autori del mélodrame, il genere teatrale più popolare in tutta Europa ai tempi della giovinezza del romanziere. Gli spettatori del mélodrame capivano dai gesti sovraeccitati e dalle cupe espressioni del personaggio più malvagio le sue orribili intenzioni; decifrando segni analoghi, i lettori di Balzac comprendevano le segrete mire del genio del crimine Vautrin, travestito in Papà Goriot da pacifico borghese.
Con il fiato sospeso, nei teatri dove i mélodrames venivano rappresentati, il pubblico parteggiava per i personaggi innocenti perseguitati da potenti senza cuore; i lettori di un romanzo come Il cugino Pons con analoga passione seguivano gli odiosi intrighi dei ricchi parenti di un povero musicista per impadronirsi delle opere d’arte da lui collezionate. Peter Brooks non era certo il primo critico a evidenziare il debito di Balzac nei confronti del mélodrame; prima di lui, però, gli aspetti melodrammatici di Balzac erano stati in genere visti come un’imbarazzante eredità del peggior romanticismo.
Per primo Peter Brooks li ha considerati non scorie ma punti di forza della rappresentazione balzachiana. Per lui, all’origine dei grandi conflitti etici che attraversano la Commedia umana e dell’interesse estremo di Balzac per la decifrazione dei segni c’è proprio quell’immaginazione melodrammatica che trionfava sui palcoscenici dei teatrini popolari del Boulevard du crime.
Vite di Balzac, uscito negli Stati Uniti nel 2020 e pubblicato da Carocci nel 2022 (traduzione di Giuseppe Episcopo, pp. 217, € 18), nella bella traduzione di Giuseppe Episcopo, torna al Balzac “melodrammatico” valorizzato nel saggio del 1976, ma con l’obiettivo di rendere la sua opera accessibile e familiare al pubblico odierno, spesso un po’ spaventato dalla mole dei romanzi maggiori, dai termini tecnici delle descrizioni dettagliatissime, dalle digressioni invasive della voce autoriale.
Entrare nel mondo di Balzac, spiega Brooks al lettore di oggi, significa entrare nella mente di un uomo che non ha avuto una sola vita, ma mille vite: le vite dei suoi personaggi, che rispecchiano a un tempo la società nella quale si svolgono e la vita interiore del loro creatore, “guidata da fantasie di conquista e di potere”. Ma come far accedere a questa esperienza chi magari non ha ancora mai letto nulla di Balzac? Per risolvere questo problema non facile, nei dieci capitoli che compongono il suo libro Brooks ha saputo farsi narratore; non ha esitato a raccontare gli intrecci di nove romanzi della Commedia umana, in modo da poter illustrare destino e carattere dei protagonisti sullo sfondo delle loro vicende. Da queste sue letture, i temi maggiori di Balzac emergono in tutta la loro impressionante complessità.
Le vite dei personaggi mostrano quell’imprevedibilità, quell’autonomia che affascinava Oscar Wilde e Henry James, ma si rivelano anche sempre radicate in qualche modo nella biografia dell’autore, che vi proietta sogni e passioni, desideri e terrori. L’apprendistato del giovane Rastignac, ad esempio, che in papà Goriot impara a leggere i segni della vita sociale parigina, non è forse figura dell’apprendistato del romanziere, che anche lui deve saper decifrare una realtà dai mille segreti? Tutta la meccanica del capitalismo nascente la troviamo al tempo stesso al centro della carriera, dell’esistenza di Balzac “uomo d’affari indebitato” (definizione di Taine), e al centro di alcune delle sue opere più significative.
L’usuraio Gobseck, che domina segretamente il mondo finanziario, è un’incarnazione del denaro ma è anche un’allegoria dei poteri del romanziere, che deve saper scrutare nelle vite dei suoi contemporanei come il Dio che “sonda i cuori e le reni”. Se in Illusioni perdute l’industrializzazione dell’editoria e la commercializzazione del romanzo sono descritte così bene dall’interno, è perché Balzac di questi fenomeni ha l’esperienza diretta di chi ha tentato tutti i mestieri del libro e di chi, come autore, ha dovuto per tutta la vita fare i conti con il mercato.
Altrove però la molla della narrazione non è il vissuto dell’autore, ma la sua inesauribile curiosità per le vite altrui, radicalmente diverse dalla sua: come la vita della duchessa di Langeais, travolta dalle dinamiche sadomasochiste della passione romantica, o quella della protagonista del Giglio della valle, esempio terribile del potere devastante della repressione imposta all’eros dalla società. Altrove ancora la vita di un personaggio illumina un momento storico con straordinaria pregnanza. È il caso del colonnello Chabert che, creduto morto alla battaglia di Eylau, al suo ritorno è fonte di imbarazzo per la moglie che si è risposata.
Con la sua vicenda, nota Brooks, “il tramonto dell’epopea napoleonica ci conduce in una modernità senza cuore”. E non mancano, come ha evidenziato nei suoi saggi recenti anche Alessandra Ginzburg, personaggi che offrono a Balzac l’occasione di anticipare le scoperte della psicologia del profondo. A questo proposito, Brooks cita il protagonista della Pelle di zigrino: per lui la scelta di vivere il desiderio è una scelta autodistruttiva. Attraverso il suo destino “Balzac scopre, come Freud in Al di là del principio del piacere, che il principio del piacere è inestricabilmente legato al suo opposto, la pulsione di morte”.
Non è dunque soltanto in quanto testimonianza di un mondo scomparso che la Commedia umana merita l’attenzione del lettore del XXI secolo, ci suggerisce l’autore de L’Immaginazione melodrammatica. È in quanto impresa conoscitiva: Balzac è il pioniere di quella decifrazione indiziaria dei comportamenti umani, dei gesti involontari e rivelatori di cui saranno eredi Freud e Proust. E la creazione balzachiana è creazione di un’infinità di vite intrecciate tra loro che reciprocamente si illuminano: le vite dei personaggi che sono anche, come ci dice il titolo, “vite di Balzac”, vite del romanziere che ne organizza la narrazione e vi investe tutta la sua passione per la conoscenza. “Il vasto mondo della Commedia umana – nota Brooks – deriva in definitiva dall’atto solitario di scrittura che promana da una sola mente. Eppure l’opera resiste al tempo… Ci dice tante cose su come leggere altre persone e società intere. Balzac rimane la prima e ancor oggi la più importante guida del mondo moderno”.