Pistoia ovest come Berlino Est
Il rompicapo dell’adolescenza
Ci sono vite che sono fuori dal radar, non entrano nelle rappresentazioni collettive dell’epoca in cui siamo, come ci fosse un casting per essere testimoni del proprio tempo e qualcuno non lo sappia, non gli interessi, non abbia voglia di stare in file. Per esempio chi da ragazzo non è né vittima né eroe, non è sulle barricate delle case occupate né dipendente da internet, non è talent né cervello in fuga, chi non ha fatto una start up e non abita in una smart city, chi non è stato abusato da piccolo né ha minacciato nessuno, chi non è un “angelo del fango” né in una gang di strada… Ogni tanto il dubbio ci viene, che l’universo sia assai diverso dalla sua rappresentazione attraverso il campione della cronaca, della saggistica e del discorso pubblico: in fondo eravamo avvisati, in un delizioso libro dal titolo L’infraordinario Geoges Perec notava che i quotidiani si occupano di tutto tranne che del nostro quotidiano, che l’informazione privilegia lo straordinario per stupirci, e si separa così da noi, dalle vite che siamo. Sarà capitato a molti di esser stati in luoghi e situazioni il cui racconto giornalistico tradiva il proprio vissuto, come se il repertorio costruito da testimone sconfessasse quel clamore, quell’allarme, quel panico altrimenti descritto. Poi in fondo non è nemmeno questione di disinformazione, perché tutta la letteratura specialistica, l’intero discorso pubblico in mano ad esperti tende ad enfatizzare i problemi – sui quali si costruiscono gli specialismi, la saggistica, le carriere universitarie – mentre la normalità, i chiaroscuri, l’incertezza di verdetti e di giudizi hanno meno mercato. Gli adolescenti e i giovani – che spesso abitano questo limbo, in attesa di sapere che ne sarà di loro, alla ricerca di un posto al sole, precari per definizione e onestamente indefinibili, per quanto assediati da tanti tentativi di farlo – sono i soggetti sociali predestinati all’esilio di quella cronaca, di quella rappresentazione, di quel discorso.
Provincia
Dobbiamo forse ai fumetti di Gipi il tentativo recente più efficace di dare cittadinanza a quelle biografie, di farci capire ad esempio cosa vuol dire vivere da ragazzi in una città di provincia, di improvvisare pomeriggi nel vuoto o nella rinuncia alle opportunità, del piacere di essere gruppo senza alcuna precisa vocazione, senza voler aggredire il futuro di mille progetti. Ad anni luce dall’humus delle città “intelligenti” o di un campus californiano, ma anche di una banlieu parigina o di un riot londinese, si cresce e si diventa adulti, in milioni, senza che la propria agenda sia dettata dalle primarie del PD o dal Jobs Act. Non distratti o superficiali, anzi per lo più allagati da mille pensieri e mille dubbi – su di sé, su che fare, sulle sorti del mondo – molti ragazzi e ragazze stanno attraversando i loro 15, 20 o 25 anni lontani dal Centro, senza slogan, parole d’ordine, appartenenze sociali forti, immersioni nella Storia del proprio tempo.
Non è facile sintonizzarsi, cogliere quei segnali senza insegne, raccontare una stagione di vita che risulterà spesso inaccessibile agli stessi protagonisti una volta adulti, se è vero che il panico attuale sull’adolescenza – e il successo editoriale di tanti libri pieni di risposte - è in fondo di genitori che sono tutti ex (adolescenti) ma a distanza di sicurezza, senza la possibilità di riaccedere a quegli stati emotivi. Si sa che vite a bassa intensità e scarsa codifica non si colgono nel registro della cronaca, del romanzo o della tragedia, non succede abbastanza da catturare l’ascolto per semplice descrizione, non si classificano o si riconoscono al volo nelle categorie che da adulti si privilegiano: serve tempo, silenzio, pazienza, curiosità.
Frastuono
La ricerca sociale ha un espediente metodologico per raccontare il cambiamento a bassa intensità, l’indagine longitudinale: star dietro a qualcuno, reintervistarlo negli anni, raccogliere i dati di quel che succede lungo il corso di vita, per poter tracciare il reale impatto della vita e della Storia nelle nostre biografie. Il cinema sembra averne fatto tesoro, Boyhood è il caso cinematografico dell’anno, ma vale anche per il meno noto e altrettanto interessante Romans d‘ados, il documentario di Beatrice Bakhti che racconta la vita di 7 adolescenti ripresi dai 12 ai 18 anni. E in fondo non abbiamo tutti visto in passato l’alter ego di Francois Truffaut - Antoine Doinel – passare di film in film dall’infanzia all’età adulta, seppur nella finzione e senza intento di presa diretta sulla sua vita?
Frastuono, il coraggioso film-documentario girato da Davide Maldi, in programma al Torino Film Festival e a Filmmaker a Milano, prova oggi a descriverci l’adolescenza che non vediamo, qui a casa nostra. Prima l’incontro con due ragazzi “reali” di Pistoia cioè con due adolescenti non già mutati in personaggi per qualcosa, Iaui e Angelica, poi un lavoro preparatorio di dialogo e comprensione delle loro vite fatto da chi ci vive ogni giorno coi ragazzi – Nicola Ruganti, insegnante e operatore sociale, Lorenzo Maffucci, musicista e animatore di gruppi musicali giovanili – infine 3 anni di riprese, in un’opera a metà fra la fiction e il documentario, con una scrittura rarefatta, quasi senza dialoghi. 3 anni non ci stanno in 90 minuti, così ci si immagina un enorme lavoro di montaggio, eppure tutto quel “girato” non diventa un continuo cambio di scena, non ci sono accelerazioni, colpi di scena, scene madri. Nulla di più lontano da MTV, dai Talent televisivi, dall’immaginario della notte in discoteca, dall’idea dei nativi digitali nervosamente connessi, dalle palpitazione della stagione degli ormoni: Frastuono nega che l’adolescenza sia un action movie, contro ogni attesa di chi guarda invidiando il surplus di energia di quell’età, i ragazzi e le ragazze sono tendenzialmente statici, tranquilli. Perché c’è una conoscenza del mondo che passa per l’azione e la parola, e una che passa dal silenzio, dall’osservarsi allo specchio, dallo stare, e i ragazzi prediligono la seconda. Più introspettivi, più contemplativi del paesaggio, più alla ricerca e meno sicuri dei propri traguardi, Iaui e Angelica provano la loro vita, e gli autori ci chiedono di guardarli, per una volta senza ipoteche normative, cioè senza aver già deciso chi sono, cosa diventeranno, cosa succederà dopo nel film.
Cuffie e silenzi
In questa difficile sospensione del giudizio Maldi, Maffucci e Ruganti scelgono di proporre una chiave di lettura, che è certamente molto forte nei ragazzi di oggi, cioè il rapporto con la musica. In questo racconto di vite parallele Iaui compone musica elettronica nella sua casa immersa nelle colline dell’Appennino, Angelica canta e suona in un gruppo. Si intuisce in entrambi una voglia di fare e di esserci che non trova forma nella vita dei genitori o di semplice studente, l’impegno solitario nelle proprie stanze per la passione musicale, la ricerca dei suoni e la prova della voce, il progetto di un passaggio a Berlino, che poi si realizza. Ma l’adolescenza non è prometeica, gli autori del film lo sanno, non è un arco teso verso un bersaglio preciso, Iaui e Angelica vagano, provano, sostano, eseguono la loro quotidianità diligentemente mentre la loro mente va chissà dove.
Cos’è che colpisce? Da un lato la rinuncia alla parola, coraggiosa stilisticamente, controintuitiva rispetto al soggetto. Ma questa non era l’età dei social network, questi non erano ragazzi sempre connessi? E non è comune a tutti vederli intenti a messaggiare e chattare? Vero, ma gli autori del film che non mettono mai un cellulare in mano ai ragazzi sembrano dirci altro, che non è da lì che accedi a loro, non è sbirciando in quel flusso che pure Iaui e Angelica avranno, sono i silenzi più che i dialoghi a descrivere i personaggi. Di più, forse non vale solo per i ragazzi, nel film ci sono molti paesaggi, molte inquadrature sulle bellissime architetture di Pistoia, oltre ai primi piani dei ragazzi, come a suggerire una diversa ecologia fra sguardo e parola, dove l’osservare recuperi terreno rispetto al fiume di parole che invade ogni spazio, anche visivo.
L’altro aspetto è quello del suono: quando Iaui mette la cuffia la prima volta è quasi uno choc, da quel volto quasi contadino, in quel paradiso terrestre nel quale vive, non ti aspetti l’irrompere della musica techno. Indossare la cuffia è l’atto di separazione dal presente, è il gesto onirico per eccellenza, perché immediatamente sei altrove, in un altrove che scegli tu nel tuo repertorio immaginativo. È così che Pistoia Ovest può diventare Berlino Est, la fantasia del viaggio ha evidentemente bisogno di uno scarto e la musica e l’arte in generale è il terreno in cui oggi i ragazzi sognano una possibilità, che il lavoro o la politica non sembrano più regalare loro. Iaui che compone e Angelica che cantano – come oggi stanno facendo migliaia di ragazzi ovunque - stanno provando a guardare il mondo con un filtro colorato, a regalarsi un’emozione e una trasformazione di sé, forse senza pretese, certamente non guidati dalla febbre della ricerca di fama.
Tutto avviene senza clamore, l’adolescenza e la vita di provincia mettono la sordina alla rivendicazione generazionale ma regalano al contempo molta libertà, nel vuoto puoi fermarti e scartare dal presente, puoi farti bastare il poco che hai e fare del bosco il tuo campo giochi, puoi provare la voce e mille vestiti, puoi in sostanza viverti questa età come stagione della possibilità, prima che quella finestra si chiuda e i ruoli sociali si sovrascrivano all’identità in divenire.
Stefano Laffi è ricercatore presso l’Agenzia di Ricerca Sociale Codici (Milano)