Primavera dei Teatri
Apre la stagione dei festival, Primavera dei Teatri, la bella rassegna che si svolge a Castrovillari, sotto l’imponente massiccio del Pollino. Dagli inizi del secolo ogni maggio-giugno, con qualche edizione saltata e qualcuna spostata in autunno per i soliti problemi politico-economici, la compagnia Scena Verticale insiste a presentare novità di teatro contemporaneo, in una terra, la Calabria, con poche strutture culturali. Il successo è stato, dagli inizi, clamoroso, grazie alla piacevolezza del luogo, tra montagne e paesi presepio come Morano o Civita, ma soprattutto grazie alla cura degli organizzatori, che il teatro lo fanno e sanno di quanta attenzione c’è bisogno per far scattare quella scintilla che lega indissolubilmente teatro, pubblico, territori. Quest’anno il festival, per la prima volta, ha organizzato anche una rassegna di danza, sperimentale, come racconta Gaia Clotilde Chernetich, che ha preceduto quella tradizionale di teatro, spinta a indagare nuove drammaturgie.
Danze a primavera (Gaia Clotilde Chernetich)
Primavera dei Teatri è una di quelle felici occasioni di incontro di artisti, operatori e pubblico che sembrerebbe appartenere alla realtà proprio per sfatare leggende e ogni ordine di preconcetti nei confronti del teatro, della danza e, più in generale, delle arti performative. Castrovillari, trovandosi in uno spazio “distante da tutto”, fa emergere la forza e la necessità del teatro come elemento trasformativo. A onor del vero, le Castrovillari italiane sono numerose. Sono luoghi, disseminati da nord a sud, isole comprese, che grazie alla caparbia volontà di alcuni si rendono disponibili a lasciarsi trasformare, accogliendo il cosiddetto “contemporaneo”, lasciandosi sfidare da proposte non sempre ‘facili’, soprattutto per chi non ha già familiarizzato con un certo tipo di estetiche. Spesso, inoltre, il tempo limitato dei festival appare come un evento colonizzante, che invade gli spazi a tempo determinato sfruttando luoghi e risorse senza osservare un principio rispettoso di interscambio con il territorio e le sue comunità. Credo, però, che sia davvero importante sottolineare quanto gli sforzi che rendono possibili questi eventi non siano attraversamenti a senso unico, ma sempre veri e propri investimenti a lungo termine. Primariamente, la loro funzione è di disseminare arte e cultura ovunque, a maggior ragione in un Paese discontinuo qual è l’Italia, e secondariamente quella di lasciare tracce e generare esperienze, individuali e collettive, che iscrivono nei luoghi e nelle persone memorie a lungo termine. A volte, eventi come questi sono come stargate nel tessuto locale poiché aprono spazi di riflessione, abitabilità e, in alcuni casi, benefiche frizioni. Altre volte, sono avvenimenti attesi, che rispecchiano prospettive di apertura e promesse di futuro di cui è diventato impensabile immaginare l’assenza. L’Italia dei festival ha, senza dubbio, la fisionomia di un arcipelago frammentato, dove ogni isola mette a frutto le proprie specificità. Più in generale, se c’è un principio che le arti sceniche esprimono ai più alti livelli questo è quello della cura dell’esperienza, della relazione con le comunità e della disponibilità, sincera e desiderata, volta a creare relazioni con i territori di riferimento. Partecipazione, esperienza e comunità sono tre importanti parole chiave, asset della ricerca artistica che danno vita a processi di sensibilizzazione territoriale la cui portata non è né pienamente misurabile, né ancora pienamente compresa.
Al festival Primavera dei Teatri, giunto alla sua XXIV edizione, l’avvio di questo processo è stato affidato alla danza. Non solo perché evidentemente qui vale – per dirla alla Samuel Beckett – il pensiero per cui “dance first, think later”, ma perché per la prima volta il festival ha creato un appuntamento di danza internazionale dedicato ai professionisti del settore. Con il titolo PRIMA, e onorata della presenza di un buon numero di curatori, questa nuova piattaforma ha mostrato alcune caratteristiche che la proiettano nel futuro. Ciò che è importante sottolineare è come PRIMA abbia lasciato da subito un segno positivo, che aggiorna l’idea stessa di ‘piattaforma’ in una chiave più dialogica e sensibile. Certamente, la logistica del festival aiuta a raggiungere questo obiettivo, chi partecipa diventa parte, nel giro di qualche ora, di una comunità accessibile e dialogante, ma questo non sarebbe stato possibile senza lo spirito che lo guida e la cura di chi fa in modo che il benessere, dentro questa esperienza, sia un criterio prioritario per tutti i professionisti coinvolti. Il programma ha previsto spettacoli e le condivisioni degli esiti dei progetti in residenza. Questi ultimi, in particolare, erano di diversa natura: in alcuni casi si trattava di lavori praticamente giunti a compimento, pronti per la circuitazione, mentre in altri si è trattato della presentazione dei materiali scenici in corso di creazione, ancora non ultimati. Gli artisti che hanno condiviso i propri lavori negli Open Studios sono stati Annamaria Ajmone, Maria Luigia Gioffrè, Mauro Lamanna, Danila Gambettola, Leonardo Schifino, Dario Rea, Maher Msaddek, Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini e Roberta Racis. Se non entro nel merito dei loro lavori in questo articolo è perché credo che tutte le proposte non concluse, seppur presentate in contesti pubblici, non dovrebbero essere oggetto di sguardi esterni che ne riportino i percorsi dentro discorsi di natura critica. L’assenza di un pubblico vero e proprio e la “freschezza” di alcuni lavori fanno sì che l’accento debba essere posto sullo spirito e sui principi della condivisione e sulla testimonianza. La possibilità di accedere ai “work in progress” permette di osservare e di misurare la temperatura. Come se si potesse fare un carotaggio di quello che succede nelle sale prova di luoghi diversi e molto distanti tra loro, si possono intuire gli interessi, le direzioni e le tendenze. L’opportunità di avere gli sguardi degli esperti del settore, in questo caso anche internazionali, dovrebbe innescare processi costruttivi di dialogo ed eventualmente di co-produzione e distribuzione degli spettacoli stessi. È chiaro come gli artisti condividano, in queste sessioni, ricerche ancora vulnerabili, che probabilmente non erano mai state messe alla prova di sguardi esterni. Mi soffermo su questo aspetto perché ritengo che sia importante distinguere questo tipo di circostanze dai festival che hanno, invece, la vocazione a incontrare il pubblico vero e proprio. Sono due esperienze diverse, altrettanto importanti e solo in parte sovrapponibili. Dunque, a maggior ragione, sono fondamentali quei momenti di dialogo off stage per artisti e operatori. Le proposte di incontro nel programma di PRIMA e una cittadina come Castrovillari favoriscono questi scambi, creando le condizioni più adatte per incontri fondamentali per tutte le parti coinvolte.
Coerentemente con la propria vocazione multidisciplinare, la curatela di PRIMA ha programmato proposte molto diverse tra loro. Nello spazio di cinque giornate, sono stati presentati i lavori di Chiara Bersani, che continua la tournée del suo nuovo Sottobosco, di Dalila Belaza, che ha presentato Figures, di Maria Hassabi con On stage e di Chiara Kotsali con To be possessed. Questi ultimi, in particolare, sono stati due lavori che hanno messo in luce quanto profondamente diversificate possano essere le esperienze del pubblico della danza. Da un lato, Hassabi attinge dalla cultura delle arti visive portando in scena una sequenza di 50 minuti di pose che, emergendo da un unico slow motion, indagano la possibilità di rintracciare qualcosa di radicale, originario e antico, che tiene insieme esercizi di presenza e archivi di posture. Dall’altro, Kotsali mette in atto un vero e proprio rito, architettato al minimo dettaglio, ed esplora con voce, corpo, disegno dello spazio e suono il tema della possessione. Con strumenti come stralci audio di interviste, documentari, immagini e movimenti, raccoglie il tutto in una scenografia che come un altare rende la sua danza liturgica e il pubblico allo stesso tempo ‘partecipante’ e ‘spettatore’ di un’azione che oscilla tra individuale e collettiva. Un progetto e un oggetto particolare, che insiste anch’esso su questa oscillazione tra micro e macro, è stato quello di Mauro Lamanna, artista che lavora con la VR, e Aguilera Giustiniano che con Real Heroes hanno dato vita a una passeggiata nel centro storico di Castrovillari sonorizzata con cuffie attraverso le quali viene narrata una doppia vicenda, la protesta cilena del cacerolazo (protesta pacifica e rumorosa espressa attraverso la percussione di strumenti da cucina come pentole, mestoli, ecc.) e una tanto brutta quanto probabilmente comune storia di mafia che mette in relazione mondi e spazi molto diversi. Tornando alla coreografia, ha debuttato Atto bianco di Roberta Racis che presenta una sorta di Giselle ‘al contrario’ che parte da un misterioso atto bianco per concludersi con un’azione in cui la danzatrice rovescia la prospettiva di osservazione e instaura una relazione diretta col pubblico. Elena Antoniu, artista cipriota, ha presentato Landscape un lavoro che sovraesponendo il corpo femminile sessualizzato ne riconferma la dimensione politica e la necessità di un profondo ripensamento delle pratiche dello sguardo. Infine, ultimi due spettacoli in programma sono stati Cry violet di Panzetti/Ticconi e Necropolis di Arkadi Zaides. Il duo di coreografi esplora il tema del greenwashing sovrapponendolo a un pianto e crea un cortocircuito tra danno e riparazione, con la colpa che diventa, anch’essa, prodotto commerciale. Il lavoro di Zaides, invece, affronta il tema dell’ingiustizia subita dai corpi dei migranti anche dopo la loro morte. Lo spettacolo mette il pubblico di fronte alla brutalità della mancanza di umanità, rispetto e empatia che quotidianamente subisce non solo chi perde la vita nel tentativo di entrare nello spazio europeo, ma anche chi di quei cari non riuscirà mai ad avere, probabilmente, notizie. Il lavoro si chiude lasciando la platea sospesa, con la sensazione vertiginosa di affacciarsi a un baratro di domande, ma con la consapevolezza che la scena è, ancora e sempre, quello strumento affilato di dialogo e di riflessione di cui abbiamo, perdutamente, bisogno. E così il cerchio, per chi ha vissuto i giorni di PRIMA si è chiuso. Grazie a questo lavoro, ogni domanda, istanza e ricerca attraversata nei giorni precedenti ha assunto una rinnovata tridimensionalità nel quale convivono il senso della presenza, della condivisione e, più ampiamente, il teatro nella sua essenza.
Solitarie drammaturgie (Massimo Marino)
La sezione teatrale del festival esplora il presente con nuove scritture, spesso affidate all’esecuzione di un solo interprete o di due. Solo due spettacoli corali si registrano, Mare di ruggine di Antimo Casertano è il primo, un’epopea familiare costruita intorno al lavoro all’Italsider (poi Ilva) di Bagnoli (Na), l’impiego cercato a tutti i costi, la fatica dell’altoforno, le malattie, gli scontri, fino alla dismissione dello stabilimento, alla fine del lavoro, il tutto incrociato con gli affetti, gli innamoramenti, le generazioni. La tecnica narrativa accompagna azioni dai forti picchi emotivi, fino al melò, senza scolpire effettivamente, per una certa dilungata compiacenza, contrasti memorabili, come quelli, per rimanere in zona siderurgica, quelli di Palazzina Laf, il film di Michele Riondino. Il lavoro comunque testimonia, con prove di bravi attori, un pezzo di storia, che meriterebbe di essere resa più incalzante.
In altre drammaturgie, solistiche o a al massimo dialoganti, si riscontrano problemi analoghi: gli attori e i registi fanno di tutto per movimentare la vicenda, si moltiplicano in voci e attitudini, per creare quel contrasto di azioni che gli antichi dicevano essere il segreto del dramma, scontro in atto, spesso senza possibilità di conciliazione. Ma il dramma si incarta nel monologo, nella dichiarazione, nell’esplorazione di sé, nella frantumazione dell’io, nel vorticare senza vie d’uscita del contrasto, risultando alla fine ripetitivo, risaputo, senza luce. Così è in Vorrei una voce di Tindaro Granata, racconto di un’esperienza in un carcere femminile mediata dalle canzoni di Mina, una scoperta, prevedibile, di un mondo ‘maledetto’, fatto di storie di marginalità, condito da eccessivi compiacimenti personali dell’attore. In Gramsci Gay di Iacopo Gardelli ammiriamo Mauro Lamantia nell’interpretazione del fondatore del PCdI e poi di un ventenne smandrappato di oggi, che ha scritto “Gramsci Gay” su un’immagine dell’uomo politico senza sapere chi fosse, ma non andiamo molto oltre la denuncia dell’indifferenza contemporanea. Play, di Caroline Baglioni, ci porta in un provino, con un regista che “ci prova” e un’attrice che resiste eroicamente alle più o meno sotterranee avances, spostando in continuazione il fuoco: ma non basta la bravura asciutta degli attori, la stessa Baglioni e un ambiguo, incalzante Annibale Pavone, a dare aria a un testo che a un certo punto si perde labirinticamente in sé stesso, tra necessità di testimonianza e tentativo di penetrare le personalità (regia di Michelangelo Bellani). Spezzata di Fabio Pisano, con la regia di Livia Gionfrida, racconta di un delitto e un’esecuzione. Brava è Mariangela Granelli, con le voci e i canti d’anima di Serena Ganci, a evocare un mondo intero, ma la storia e l’azione si smarriscono per strada, come avviene pure, finendo nella banalità del quadretto familiare fallimentare, Totale di Pier Lorenzo Pisano, con Gioia Salvatori e Andrea Cosentino.
Tutti questi lavori hanno bisogno, a mio parere, di essere rimeditati, centrati, magari ampliati, inserendo il contrasto di altri attori ai solisti monologanti o dialoganti. È una forma del contemporaneo, il teatro dei soli, dei solitari, anche per motivi economici, produttivi, ma poca aria porta e poca apertura per lo spettatore. Così avviene in Quello che non c’è, di Giulia Scotti, vincitore del premio Tuttoteatro – Dante Cappelletti, indeciso tra il racconto, con un noioso parlare simil quotidiano con forte cadenza lombarda, il fumetto, il noir e il dramma familiare, incapace di creare punti d’attrazione che giustifichino la massa del materiale. Anche qui, come negli altri lavori, è da ricordare che sebbene si tratti di debutti, siamo ancora – credo – in cerca di una forma. E i festival hanno proprio questa funzione.
L’aria la ritroviamo in un delicato, ironico, malinconico lavoro di Mariano Dammacco con quell’attrice straordinaria, cangiante, che è Serena Balivo. In La morte ovvero il pranzo della domenica, una donna dai bianchi capelli racconta, sempre con un mite, comprensivo, sorriso sulla bocca, il pranzo con i genitori ultranovantenni. Lo spettacolo fa ridere e commuove, con arte anche, se volete, un po’ ruffiana, usando la caratterizzazione che arriva fino ai bordi della macchietta, tenendosene però sempre appena al di qua, come una maschera per parlare in modo ‘affettuoso’ di quel grande tabù che è la morte. Il pubblico è trasportato da I 4 desideri di Santu Martinu, una favola con le sonorità del dialetto che ha del boccaccesco fabliaux medievale e del fabulazzo osceno alla Dario Fo. Dario De Luca, uno dei padroni di casa di Scena Verticale, con le musiche di Gianfranco De Franco, davvero un’altra voce, un altro narratore, ci porta nella casa di un capraio, nei desideri suoi e della moglie, nelle pulsioni sessuali, rapendoci come solo i grandi racconti sanno fare.
Ho lasciato per ultimo un altro lavoro corale, entusiasmante, Pinocchio – Che cosa è una persona, una creazione di Davide Iodice, grande artista negli ultimi anni appartatosi e ingiustamente alquanto dimenticato, che con le napoletane Scuola elementare del teatro e il Conservatorio popolare per le arti della scena, accosta madri, padri e figli ‘diversi’, attori e attrici e ragazzi portatori di fragilità, creando una sinfonia fisica e di confessioni, di danze e girotondi, di scene immaginose, che toglie le etichette di down, autistico, Wiliams, e, con nasi lunghi finti, maschere di conigli, fatine turchine dai corpi e dalle facce normali o oversize, grilli parlanti che portano la croce, ciuchini, rivela la favola come grande modello di possibilità, di meraviglia, di confusione dei ruoli e di uguaglianza, di affettività. Gli attori qui non si esibiscono, ma si accompagnano, si ascoltano, si accarezzano, si sostengono Un’emozione che toglie il respiro e decreta, almeno questa volta, il trionfo del teatro ‘popolare’ sui rovelli e le destrutturazioni del ‘contemporaneo’.
Le fotografie sono di Angelo Maggio. L’ultima immagine ritrae un momento di Pinocchio di Davide Iodice.