Primavera dei Teatri a Castrovillari
Alcuni fili, alcuni appunti da uno dei festival ormai tradizionali dell’estate dedicato ai nuovi linguaggi della scena contemporanea, “Primavera dei Teatri”. È tornato quest’anno a Castrovillari (CS), dopo alcune edizioni autunnali e qualche anno di silenzio per mancanza di finanziamenti, nel suo periodo abituale, fine maggio - primissimi giorni di giugno. Vi proponiamo qui, tra gli spettacoli che abbiamo visto, quelli che più ci hanno colpito, in una selezione ricca, costituita di molte prime assolute.
La fiaba e il basso napoletano (Angela Albanese)
“La fiaba è cosa da ascoltare, in cui gesto e intonazione, mimica e pause, tengono un ruolo capitale. Ancora un passo e diremo tranquillamente che la fiaba è un genere teatrale, che postula un recitante e un pubblico, anche ridotto a un ascoltatore solitario”. Così scriveva nel 1979 Edoardo Sanguineti a margine di una delle settecentesche Fiabe teatrali di Carlo Gozzi, La donna serpente, ribadendo ancora una volta l’evidente porosità di fiaba e teatro, entrambi luoghi di oralità e finzione. Tempo e spazio speciali di sospensione sono quelli del teatro, proprio come accade nelle fiabe in cui, già a partire dall’iniziale formula incantatoria del “c’era una volta”, le leggi sono sospese e le ambientazioni spazio-temporali sono subito messe in crisi. Ma le fiabe sono anche cosa da ascoltare, e un’ulteriore, felice conferma della loro intima vocazione performativa è arrivata anche in quest’edizione di Primavera dei Teatri, dal cunto di Re Pipuzzu fattu a manu. Melologo calabrese per tre finali, restituito con energia ed efficacia dal condirettore artistico del festival Dario De Luca, regista e interprete della fiaba, accompagnato dalle ottime sonorizzazioni del polistrumentista Gianfranco De Franco.
Il cunto di De Luca è liberamente tratto dalla storia di Re Pepe inclusa nella raccolta di fiabe e novelle calabresi che Letterio Di Francia, fine umanista ed etnografo di Palmi, aveva trascritto all’inizio del secolo scorso dalla voce di “valenti novellatrici ” e “bravi novellatori”, e pubblicato nel calabrese della sua zona con testo italiano a fronte in due importanti volumi nel 1929 (ora disponibili presso Donzelli in due versioni, una scientifica in doppia versione dialetto-italiano a cura di Bianca Lazzaro, e un’editio minor, della stessa curatrice e solo in italiano, dal titolo Re Pepe e il vento magico); e da quel repertorio avrebbe attinto anche Italo Calvino nel 1956, prendendo a prestito cinque storie per le sue Fiabe italiane.
Anche questa fiaba, ritradotta da De Luca nel suo dialetto cosentino con utili innesti in italiano, è aperta dal consueto “c’era una volta” che crea subito incantamento nei bambini, e non solo (“C’era na vota, na vota, na vota c’era nu Re. / C’a mugliera l’era morta, lassànnuli na figlia… Reginotta”). A dispetto del titolo, protagonista della storia non è Re Pipuzzu, ma una donna caparbia e coraggiosa di nome Reginotta, che di fronte all’insistenza del padre perché si trovi finalmente un marito, decide di prendere farina e zucchero e di impastarselo con le sue mani. E mentre impasta a piedi nudi e gonna lunga a balze, Reginotta-De Luca intona una filastrocca propiziatoria (“Re Pipuzzu fattu a manu / senza nchiostru e calamaru / ccu la forza di su vrazzu / ppi mi fa nu masculazzu”), la cui potenza ritmica è sostenuta sia dalla cadenza rimata dei versi, sia dal sapiente movimento delle mani e del corpo dell’attore. La giovane impiega addirittura sei mesi a modellarsi il marito, e per farlo come si deve unisce all’impasto le giuste dosi di intelligenza, bontà, passione, fedeltà, simpatia e gelosia, e avrebbe aggiunto anche il coraggio, se non fosse che la preziosa ampolla che lo contiene va in frantumi, lasciandone privo Re Pipuzzu. Completa il capolavoro di Reginotta un peperoncino rosso posto sulla bocca del pupo, come buon auspicio per un rapporto amoroso loquace e piccante (quello stesso peperoncino che nella sua versione Calvino avrebbe sistemato al posto del naso). Ma una folata di vento in una giornata di sole si porta via Re Pipuzzu, e toccherà alla indomita Reginotta liberarlo dalle catene d’amore di una Draghessa, complice il potere magico di una castagna, di una noce e di una nocciola che approdano in questa fiaba, per via diretta e indiretta, dalla ’Ntroduzzione che apre il Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, così come dallo stesso Basile e dal suo Pinto Smauto è tratta la suggestione (raccolta di recente anche da Emma Dante) del pupo di zucchero creato dalla protagonista Betta, insieme a molta parte di questo racconto. Ma le fiabe, si sa, sono davvero un “pullulare di motivi che vengono da tutte le parti” (G. Celati, Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, 2011, p. 113), e lo sa bene anche De Luca che, con misura e sapienza attoriale, innesta in questo aggrovigliato intreccio di storie anche voci di paese, echi, colori e suoni della sua terra, vivaci espressioni dialettali che esaltano la portata ritmica dello spettacolo, e che gioca persino al rialzo lasciando al pubblico, incantato e divertito, la facoltà di deciderne il finale.
Non c’è finale invece, ma la reiterazione di giorni sempre uguali nello spettacolo Felicissima jurnata, riscrittura dei Giorni felici di Beckett in un ‘basso’ napoletano, per la drammaturgia e regia di Emanuele D’Errico, con i bravissimi Antonella Morea e Dario Rea, e le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità. Lo ha allestito, in prima nazionale, il virtuoso e giovane collettivo Putéca Celidònia, che ha preso in gestione beni confiscati alla camorra nel Rione Sanità a Napoli, nel Vicolo della Cultura per farne luogo di accoglienza e di restituzione ai cittadini attraverso servizi socio-culturali, ivi compresi corsi e laboratori di teatro.
All’ingresso in teatro ci aspettano i rumori e il vociare caotico dei vicoli partenopei, fra sgommate di motorini, clacson, urla da mercato rionale (perfetta è la cura del suono di Hubert Westkemper), mentre sul palco il monticello che interrava la Winnie di Beckett è diventato un enorme Vesuvio di acciaio e di tessuto blu (scene di Rosita Vallefuoco), che nel cratere intrappola fin sopra la vita Lina, di provata esistenza, moglie di Lello, e nel cui ventre fumante, trasformato in un angusto basso, si consuma Lello di precaria esistenza, marito di Lina. Fatta salva la traduzione dialettale, in molti punti la riscrittura segue rigorosamente il dettato beckettiano, fra il mutismo di Lello e il torrente verbale di Lina. Identico è il loro risveglio sempre uguale, uguali sono le preghiere di Lina, l’invito a Lello a mettersi le mutande, a spalmarsi la cremina, identico e ugualmente nostalgico è il gioco dei ricordi o l’ottimistica voglia di cantare in chiusura della pièce. Ma alle parole di Beckett si intrecciano anche quelle degli abitanti dei bassi, registrate oppure recitate da Lina, le loro storie di fragilità e di solitudine (“sono anni che non mi propongo al genere umano”), di volontà di riscatto (“ncoppe se campa ‘e n’ata manera… nel basso la strada fa parte della casa…”), di attaccamento nonostante tutto (“je voglio stà ‘a casa mia… je ‘a voglio bbene sta casa…”). E questo incastro polifonico è drammaturgicamente denso, riuscito e felice, come felici sembrano i giorni, sempre uguali, che restano a Lina e Lello.
“E dentro ti senti morire”. Sembrerebbe anche questa una battuta da Giorni felici, mentre invece è tratta dai convincenti 20 minuti di Smart Work, di Gianluca Vetromilo e Armando Canzonieri, regia di Gianluca Vetromilo, proposti come esito, che ci piace segnalare, della residenza artistica a Castrovillari del gruppo Mammut Teatro. Parole dolenti, specie se a pronunciarle è un giovane che passa la vita di corsa in bicicletta arrabattandosi fra un call center al mattino e la consegna delle pizze alla sera, in un mondo in cui ogni minimo imprevisto (forare!) può farti perdere il lavoro, in una società che è sempre più smart a discapito di tante altre vite.
I corpi e le città fantasma (Massimo Marino)
Nel mio racconto inizio dai Quotidiana.com. Hanno portato nella città sotto il Pollino la versione completa di I greci sono gente seria! Come i danzatori, che nella forma di studio di venti minuti nello scorso dicembre aveva vinto il premio “Tuttoteatro Dante Cappelletti”. In scena come sempre Paola Vannoni e Roberto Scappin intessono un fitto, caustico intreccio di pensieri che si esplicano in architetture di pungenti ragionamenti, in insidie retoriche che scavano dietro cliché, apparenze, finzioni del quotidiano fraseggiare. Questa volta però c’è qualcosa di più, nel loro procedere come in un grido wittgesteiniano rivolto alla nostra epoca che riempie di fiati inutili nient’altro che la comune opinione ovvero ciò che non si conosce e che perciò sarebbe opportuno tacere. Questa volta i due oltre a sfidarsi al fioretto (o alla sciabola, o alla mannaia) con icastici dialoghi ricamati sul nostro niente, tirano in ballo i corpi con passi di danza. Sono elementari figure, accenni, tentativi, piccole parodie di movimenti di balletto, di slanci, di accelerazioni, oppure silenzi in cui movimento è l’immobilità del corpo e lo spazio di vuoto che chiede alla nostra vorace voglia di spettacolo. L’azione fisica diventa riposo della mente, subito insidiato dal commento corrosivo, in una riflessione col sorriso tirato su corpo e idee, su relazioni e fughe tra corpo, vita e lavorio del pensiero, tra vita concreta e pensiero. Per accumulo, aggiunta, variazione, distrazione si crea una struttura discorsiva fatta di movimenti corporei e dichiarazioni apodittiche, sempre in bilico tra convenzione e derisone di stereotipi. E così i due combattono, tra di loro, e tra urgenza della passione intellettuale e il lasciarsi andare, con metodo, alla felicità, alla rabbia, ai sentimenti, alle levità incarnati dai corpi nella danza. Tra sbuffi di macchina del fumo che ci fanno chiedere, come sempre, se il loro sia tutto uno sberleffo alle nostre ansie di catalogazione, alle paure di liberazione, o se sia una messa in scena del nostro stesso essere di fumo.
La città è la protagonista di altri due lavori particolarmente lancinanti. In Città sola, dal testo di Olivia Laing pubblicato dal Saggiatore nella traduzione di Francesca Mastruzzo, ridottuzione e adattamento per la scena da Fabrizio Sinisi, ideazione Lacasadargilla, con Lisa Ferlazzo Natoli sola in scena tra proiezioni e suoni, ci porta nel cuore della metropoli. Ci trascina in solitudini artistiche vissute nelle sue case, nelle sue atmosfere di luce e di ombra, nelle lacerazioni che sentirsi separati, diversi nella moltitudine, induce. Su due pannelli e sul fondale scorrono immagini di palazzi, grattacieli, interni come sfocate, fantasmi di vetro e cemento in un mondo popolato da fantasmi interiori. L’attrice (e regista con Alessandro Ferroni) percorre solitudini diverse, tutte con un fondo di disperazione, di rassegnazione, di rabbia, di rimpianto per una socialità perduta e resa ancora più lontana dalla vicinanza degli altri assiepati per strade, rinchiusi in milioni di stanze tutte uguali, tutte simili a ombre notturne. “Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde o bianca o dorata”. Si viaggia nelle algide visioni e negli smarrimenti di Edward Hopper, nell’immobilità e nei silenzi irraggiungibili delle sue figure. Si incontrano Andy Warhol, accumulatore inveterato di oggetti per creare “barriere contro le esigenze dell’intimità”; Henry Darger, che riempì per anni la sua stanza di migliaia di figure di un universo immaginario. Ci sono i Rimbaud in molte pose e situazioni di David Wojnarowicz che si concentrava su come sopravvivere e vivere in una società che contrasta la diversità. Si parla di elettroshock, di stigma di follia affibbiato, di morti per Aids. Si evoca del mutant chantant Klaus Nomi, “che dell’essere un alieno fece un’arte”, con la sua voce né maschile né femminile, non integrato neppure tra i disadattati. E altri viaggi avvengono in questi deserti metropolitani, dove la connessione è comunque separazione attraverso schermi, dove sempre lei, la solitudine, è personale e non politica, ma collettiva. Lisa Ferlazzo Natoli ci porta in questi limbi d’inferno con voce delicata, come in una meravigliosa ballata funebre per le nostre assenze.
Differente è la città di Via del Popolo di Saverio La Ruina, uno dei padroni di casa di Scena Verticale. Lo spettacolo si apre come finiva Masculo e fiammina, un suo precedente spettacolo del 2016: al cimitero. Una passeggiata tra le tombe della cittadina calabrese, con commenti in dialetto, riapre il tempo, raffigurato sullo sfondo della scena da un orologio di cartone, sciolto, come una riproduzione fatta in casa di quello di Dalì. È il tempo liquido di quella via di Castrovillari (siamo nell’autofiction dichiarata) dove la famiglia dell’autore arrivò dalla montagna: dove si accesero le illusioni, la vita, le economie degli anni del boom; dove si svolsero le lotte politiche degli anni settanta, dove una generazione è cresciuta e maturata e un’altra è invecchiata.
Il racconto di tipi, macchiette, momenti seri e ridicoli della vita di quel micromondo meridionale e provinciale che rispecchia il macromondo nazionale a suo modo, si innesta, a un certo punto, sul ricordo di una sera in cui il padre, quello che aveva aperto il bar negli anni sessanta riempendosi di cambiali, ormai anziano, non torna a casa. La madre si preoccupa pochi minuti dopo l’ora solita di rientro. Passa il tempo, sempre lui, quella ghigliottina sulla scena, e a poco a poco anche il figlio e la polizia si mettono in agitazione. Inizia la ricerca, che si intreccia, con abile sospensione, ad altri avvenimenti del paese, come nei racconti epici, come nei canti di Ariosto.
I fatti si susseguono e deviano, fino al felice scioglimento, al ritrovamento molte e molte ore dopo dell’uomo sperso, addormentato nei campi, steso nel grano alto.
Quella che cresce, sempre, come negli altri spettacoli di La Ruina, è la visione di un mondo: siamo condotti dalla voce placida, cullante del narratore, che prima ci fa vedere, poi ci fa entrare nel mondo intravisto, infine ci fa sprofondare in una metafora dei nostri spazi, ma soprattutto del tempo della vita, dei cicli, partendo da quella passeggiata nel cimitero, con il dolce sussurro che passioni, paure, sviluppo e crisi siano tutti, sempre, passeggere vanitates di una vita che di quelle domestiche vanità, illusioni, tensioni, solitudini ha sempre bisogno. Narra, quasi cantilenando, di una vita antica che forse non era migliore rispetto al vuoto delle metropoli, anche se appariva più calda. Che nel presente sembra comunque lontana, un sogno svanito dietro le serrande abbassate dei tanti mestieri, della tanta vita che popolavano via del Popolo.
Le fotografie sono di Angelo Maggio. La foto del manifesto è di Ivan Ozerov / Artwork: Desme Digital.