Raffaele Mattioli, banchiere e umanista

27 Luglio 2024

A parte qualche familiare, ormai sono ahimè tra le poche persone in vita che hanno conosciuto e frequentato Raffele Mattioli, per quasi un trentennio, dal 1948 al 1973 (anno della sua morte). Non per meriti personali, ma perché ero il figlio di uno dei più stretti collaboratori del banchiere, Antonello Gerbi, dal 1932 al 1970 capo dell’Ufficio Studi della Comit (a parte una parentesi decennale in Perù, fra il 1938 e il 1948, dovuta a motivi per così dire ‘razziali’). Vorrei inoltre ricordare il depositario di infinite storie, Gianni Antonini, già responsabile delle mattioliane edizioni Ricciardi, che poche settimane fa ha compiuto 98 anni e ha tuttora una salda memoria, cui mi capita di ricorrere spesso. 

Ho scritto molto di Mattioli e mio padre, e anche dei miei vari incontri con il primo, ma non ho mai messo uno in fila all’altro gli aneddoti più significativi che hanno caratterizzato il nostro rapporto. Chiedo scusa se, per affrontare questo argomento, dovrò necessariamente parlare anche di me.

I miei ricordi più antichi risalgono agli anni Cinquanta e sono in un certo senso riflessi, poiché coinvolgono mia madre Herma Schimmerling, viennese e quindi di madre lingua tedesca. Oltre a invitare occasionalmente Mattioli a pranzo, offrendogli sempre a fine pasto uno strudel casalingo, di cui era molto ghiotto, mia madre riceveva ogni tanto da Raffaele telefonate con quesiti di natura musicale. Non che fosse una super esperta, ma appassionata di musica sì e anche una discreta pianista dilettante. Una volta arrivò una chiamata di Mattioli che a bruciapelo le domandò: «Herma, come comincia il coro dei pellegrini nel Tannhäuser, quello famoso del terzo atto?». Lei glielo canta per qualche minuto; dopodiché lui ringrazia e chiude la conversazione. Viene presa per pazza dalla nostra collaboratrice domestica dell’epoca, che aveva sentito solo lo zufolare materno, per di più in una lingua inaudita, senza nemmeno uno scambio di parole.

Lo stesso fece altre volte Mattioli, interrogandola su arie delle operette viennesi più famose, che mia madre conosceva a memoria: ad esempio Sangue viennese (Wiener Blut) di Johann Strauss jr o La vedova allegra (Die lustige Witwe) di Franz Lehár: identica la scenetta al telefono.

E tanto per finire con mia madre – sempre nei miei ricordi di adolescente – un giorno mio padre, arrivando a casa dalla banca, le chiede un metro da sarta: vuole misurare la circonferenza delle caviglie di mia madre. Per quale motivo?  Perché Mattioli ha scommesso con mio padre che quelle di sua moglie, la signora Lucia, erano più sottili! Episodio spesso rievocato in famiglia con divertimento, ma senza tramandare purtroppo ai posteri il nome del vincitore (o vincitrice). 

Mattioli amava molto i giovani, tanto più se figli dei suoi amici più cari. Da buon abruzzese il capo della Comit mi dava del tu, come a chiunque. Io credo di avergli sempre dato del lei: dopotutto «il dr. Mattioli» incuteva una certa soggezione! Da ragazzino andavo talvolta in banca a trovare mio padre, il quale poi mi portava spesso da lui. Per raggiungere il suo grande ufficio che dava su Piazza della Scala, al secondo piano, seguivamo la felpata passatoia rossa stesa negli spaziosi ambienti interni (ideati da un altro suo fedelissimo, l’architetto Giuseppe De Finetti). Superate le robuste doppie porte in noce e salutati i due fedelissimi segretari, Emilio Brusa e Valentino Bona, venivo sempre da lui ricevuto molto affettuosamente. Ricordo che una volta – avrò avuto dieci o dodici anni – mi invitò a ingaggiare sulla sua scrivania un classico braccio di ferro. Mi diede l’illusione di riuscire a batterlo e poi con un gesto improvviso piegò ogni mia resistenza. Un gioco, ma anche un ammonimento: mai farsi illusioni prima di avere la vittoria in tasca!

Un nostro incontro, per me importante, avvenne poco dopo che mi ero laureato stancamente in Giurisprudenza, verso la fine del 1967, e non sapevo che fare di me stesso. Non potevo comunque entrare nella Comit perché allora – oggi non so – vigeva la regola che non più di due parenti stretti potessero convivere nell’istituto. E in banca c’erano già mio padre e mio fratello Daniele, che da poco aveva iniziato la sua breve carriera alla Comit, prima di optare per un lavoro più indipendente.Immagine rimossa.

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Raffaele Mattioli nella biblioteca della sua abitazione con Riccardo Bacchelli, Milano, novembre 1969. Fotografia di Giovanna Borgese; Archivio Storico Intesa Sanpaolo.

Andai dunque da Mattioli in Piazza della Scala per chiedergli lumi sul mio futuro: «Caro Sandro, se non hai scoperto la tua vocazione all’età di dodici o tredici anni, non potrai certo scoprirla oggi. Del resto, credi forse che io avessi la vocazione del banchiere? Un giorno, per caso, ho cominciato e poi sono semplicemente andato avanti. Con abbondante Sitzfleisch». «Sitzfleisch haben» in yiddish significa «avere carne sulle terga», ovvero «resistere al tavolino», «mettere radici»: un elogio della perseveranza, virtù essenziale – secondo il boss della Comit – per portare a compimento un progetto qualsiasi. 

Continuò poi Mattioli: «Parlerò con Lionello Adler, presidente delle Cartiere Burgo, potresti fare un po’ di pratica da lui, come ha fatto Maurizio» (il suo secondogenito). «E mi raccomando, leggi Lombard Street di Walter Bagehot» [direttore dell’“Economist” dal 1861 al 1877] se vuoi capire qualcosa sul mercato dei capitali». Non andai da Adler, ma lessi Lombard Street, un suggerimento utilissimo per la mia prima attività, quella di giornalista finanziario, assistente di Renato Cantoni, a sua volta autorevole commentatore di Borsa della «Stampa». Grazie a Cantoni, cominciai a collaborare nel 1971 al settimanale «Il Mondo», diretto allora da Arrigo Benedetti.  

Nel 1972, il timoniere della Comit mi fece un dono particolare, la cui importanza compresi solo anni dopo. Sabato 22 aprile si era svolta, a Milano, l’assemblea annuale degli azionisti Comit, che si era conclusa con l’estromissione di Mattioli dalla banca e la presidenza assegnata all’ex ragioniere generale della Stato, Gaetano Stammati. Un evento traumatico, voluto dal duo democristiano Andreotti (presidente del Consiglio) e Colombo (ministro del Tesoro), cui assistetti nella mia qualità di giornalista. Mi venne allora in mente un gesto audace e chiesi a Mattioli di rilasciarmi un’intervista. Accettò, non un’intervista (e pensare che nel pomeriggio di sabato avevo faticosamente preparato una serie di domande scritte), bensì un incontro nel suo studio l’indomani mattina, domenica 23 aprile, alle 11. Non aveva parlato con nessun altro giornalista. Si era solo intrattenuto nel pomeriggio di sabato con Eugenio Scalfari, il cui articolo per «L’Espresso» sarebbe però apparso il giovedì seguente, mentre «Il Mondo» usciva di mercoledì. Stetti con lui un paio d’ore. Alternava la conversazione alla lettura ad alta voce dei giornali, sorridendo alle sciocchezze che qualcuno aveva scritto su di lui («Tutto fa brodo!», commentava con bonario cinismo) e rispondeva ad alcune telefonate di simpatia. Al termine gli chiesi se avrebbe voluto rivedere l’intervista, ma lui rispose: «Non è necessario: basta che la rilegga Antonello!» L’articolo uscì puntualmente tre giorni dopo. Senza nemmeno rendermene conto, avevo realizzato il primo scoop della mia ‘carriera’: e lo dovevo all’affettuosa generosità di Mattioli.

Qualche mese dopo – Mattioli si era ormai ritirato, ma disponeva di un ufficio in banca – io ricevetti nello studio di Cantoni, dove lavoravo, una sua chiamata: «Corri a casa perché Antonello sta male». Quel giorno mio padre, diabetico, aveva avuto una grave crisi ipoglicemica. E mia madre non era in casa. La nostra fantesca – non sapendo che fare – aveva allora telefonato al dottor Mattioli, pensando si trattasse del nostro medico di famiglia. Quando giunsi trafelato a casa, mia madre era rientrata e il medico vero, il dottor Luciano Supino, era già al capezzale di mio padre. Dopodiché Mattioli mi aveva ingiunto: «Chiamami ogni giorno per darmi notizie». Cosa che feci. E quando una volta gli dissi che mio padre stava peggiorando, rispose. «Non è ancora giunto il suo momento! Te lo dico io che sono uno stregone!». Fu buon profeta.

Vidi per l’ultima volta Mattioli, una visita di cortesia, proprio in quel periodo (inizio 1973). Mancavano pochi mesi alla sua scomparsa (27 luglio). Era presente anche il cognato Antonio Monti, all’epoca direttore centrale della Comit, che immagino si consultasse ancora con lui per alcune faccende di banca. Raffaele indossava un’ampia veste da camera e appariva fisicamente stanco, tra fastidiose febbriciattole e volto mal rasato; ma la mente era come sempre prontissima. Si parlava, quando all’improvviso volle fare una telefonata (come si sarà capito dai racconti che ho appena fatto, il telefono era il suo vero instrumentum regni). Prese dunque la cornetta e domandò alla centralinista della banca di chiamare Gianluigi Gabetti, all’epoca amministratore delegato dell’IFI, finanziaria degli Agnelli (Gabetti era stato in precedenza vice direttore della filiale Comit di Torino e presidente dell’Olivetti Underwood a New York).

Questo il colloquio tra i due:

centralino IFI: «Il dottor Gabetti in questo momento è in riunione, non posso disturbarlo per alcun motivo».

Mattioli: «Gli dica che lo cerca il dottor Mattioli».

Gabetti (pochi secondi dopo): «Eccomi. Come sta, dottor Mattioli?». 

Mattioli: «Ciao, caro. Bene. Scusami se ti disturbo, ma stanotte ho fatto un sogno. Salivo in macchina su per la collina sopra Torino, dove abiti tu, e in prossimità della tua villa osservavo ai bordi della strada dei grossi mucchi di ghiaia. Allora mi sono domandato: che ci stanno a fare?».

Gabetti: «In effetti, dottor Mattioli, il viale d’accesso era piuttosto malandato, così ho deciso di rimetterlo a nuovo; e proprio in questi giorni i lavori sono in corso».

Mattioli: «Grazie, caro, avevo proprio bisogno della tua conferma per essere sicuro che le mie capacità stregonesche fossero rimaste intatte. Ti saluto, e a presto».

 

Dopodiché, se la memoria non mi inganna, ebbi ancora solo un’occasione di ascoltarne al telefono la voce calda e suadente. Un giorno di aprile mio padre, tornando da una visita all’amico, mi riferì che un mio articolo sulla Comit era piaciuto molto a Mattioli. Io: «Digli che il suo giudizio è un dolce vellicamento alla mia vanità». Mio padre: «No, vuole chiamarti lui stesso». Il che avvenne puntualmente qualche ora dopo, a riprova di una natura effusiva non comune. 

Oggi, dopo tanti anni, non posso che concludere con le parole scritte da mio padre il 18 luglio del 1974, sempre sul «Mondo», per ricordare l’amico a un anno dalla morte: «Nessuno che l’abbia trovato sulla sua strada ha proseguito il cammino con lo stesso passo. Non è stato più lo stesso dopo averlo conosciuto. A nessuno, che non abbia goduto di quell’autentico privilege, si potrà mai spiegare il come e il perché di questa sua elementarissima, semplicissima e pur trasfigurata umanità».

(rielaborazione di un intervento letto a Firenze il 21 giugno 2024, in occasione di un convegno su «Raffaele Mattioli: il banchiere, l’intellettuale, il politico», organizzato dalle Fondazioni Cesifin e Spadolini)  

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