Riformare la chiesa
«Dove andremmo a finire/se tutti dicessero: “Dove andremo a finire? / e nessuno andasse a vedere/dove saremmo andati a finire se fossimo andati. (K. Martin)
Nessuno, trovandosi in un vicolo cieco, resterebbe fermo in attesa che la realtà tutt’attorno cambiasse, scrive Martin Werlen, benedettino svizzero autore di un saggio che prende il titolo dalla poesia citata, Dove andremmo a finire? (Qiqajon) in cui tratta dell’attuale difficoltà in cui la Chiesa cattolica si trova nel suo rapporto col mondo contemporaneo. La distanza che li separa e sembra dilatarsi sempre di più, è così grande e profonda da apparire ormai una vera frattura. Non sembra si tratti di una generale crisi della fede, infatti non aumentano gli atei dichiarati rispetto a quanti dicono di credere in qualche forma di trascendenza. È, piuttosto, una situazione di forte allontanamento dalla Chiesa istituzionale da parte di chi, almeno formalmente, si professa cristiano.
Oggigiorno i confini tra credenti e non credenti sono diventati molto più fluidi di un tempo, osserva Tomas Halik – filosofo, psicologo, sociologo e presbitero ceco – in un altro libro che affronta sostanzialmente lo stesso tema di quello di Martin Werlen, Pomeriggio del cristianesimo (Vita e Pensiero): «I muri invalicabili fra credenti e non credenti, fede e scetticismo, sono crollati allo stesso modo di alcune divisioni apparentemente inamovibili sulla scena politica e culturale».
Se la ricerca di spiritualità aumenta e le chiese si vuotano significa che la Chiesa non sa più rispondere a quel bisogno. E ne è consapevole dato che, al suo interno è in atto un movimento di forte autocritica che comporta una contrapposizione, talvolta molto aspra, tra posizioni e visioni diverse del suo ruolo e del suo futuro. Lo fa per bocca di molti suoi membri autorevoli, a partire dal papa insieme a molti altri laici e religiosi di grande spessore culturale e morale, come sono gli stessi autori dei due libri di cui stiamo parlando.
A differenza di altre istituzioni che attraversano anch’esse oggi una crisi di credibilità molto seria, come i sistemi democratici o le organizzazioni internazionali che avrebbero dovuto garantire la pace e almeno una certa giustizia e solidarietà tra gli Stati, la Chiesa cattolica (quella che sembra maggiormente in “recessione” tra le confessioni cristiane) sta dimostrando di sapersi mettere apertamente in discussione e probabilmente riuscirà a rinnovarsi, come d’altra parte ha fatto diverse volte nella Storia, perché riesce ancora a raccogliere attorno a sé persone sinceramente interessate al bene comune e alla difesa di quei valori, umani prima che religiosi, sui quali abbiamo costruito la nostra civiltà. Ma questo non sarà possibile se si resterà fermi in quel vicolo cieco in cui siamo finiti.
Entrambi gli autori si domandano innanzitutto il perché della crisi in cui versa la Chiesa cattolica e le loro risposte sono concordi. Tomas Halik paragona la situazione odierna a quella dell’epoca della Riforma: allora fu lo scandalo delle indulgenze (sostanzialmente la possibilità di pulirsi l’anima con offerte in denaro) a provocare un’indignazione che portò al grande scisma luterano; oggi è lo scandalo degli abusi sessuali e psicologici all’interno della Chiesa che ne ha messo in luce un’intollerabile ipocrisia. Per secoli essa ha messo al centro della sua predicazione la morale e al centro della morale la sessualità imponendo, come dice il Vangelo riguardo ai sacerdoti e ai farisei del tempo, fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23, 1-12). Con le sue parole di semplice umanità sulla omosessualità, Francesco ha operato quasi una rivoluzione e suscitato critiche durissime, eppure l’omosessualità è molto diffusa nella Chiesa, tollerata e coperta purché sia vissuta come una colpa. L’ipocrisia di questo atteggiamento provoca un senso di profondo disagio e di ripulsa nei fedeli, omosessuali o meno non importa. È l’ipocrisia il problema, insieme alla evidente incapacità di vivere coerentemente l’amore che viene predicato a gran voce, quell’affetto che Cristo ha indicato come primo attributo di Dio.
«I cattolici abbandonano la chiesa” – scrive Werlen. – Questo titolo da prima pagina ci è purtroppo familiare. Perché i cattolici abbandonano la chiesa? Perché essa ruota costantemente intorno a sé stessa; perché non vive l’esempio di Gesù; perché non fa ciò che annuncia; perché non vede le persone nei loro bisogni».
Le chiese chiuse e vuote durante la pandemia sono sembrate ad Halik un segno profetico del futuro della Chiesa se essa non affronterà con determinazione un cambiamento che la renda capace di dialogare con la società odierna. Le chiese vuote sono il sintomo di un allontanamento, di una frattura tra la Chiesa e la società talmente profonda che non servono a niente i tentativi di riorganizzare le istituzioni: «I tentativi di salvataggio operati dalla gerarchia … non sono soluzioni reali», assomigliano piuttosto a «un cambio di cuccetta sul Titanic.… La situazione non cambierà finché la Chiesa non accetterà un modello pastorale completamente nuovo».
Capovolgendo la parabola del pastore che lascia novantanove pecore per cercare l’unica smarrita, Werlen invita la Chiesa a lasciare l’unica rimasta per cercare le novantanove smarrite. Per farlo bisogna vivere il momento di crisi presente come un kairos, sostiene Halik, un momento opportuno, «il momento benedetto del passaggio dall’egocentrismo ecclesiastico a una partecipazione consapevole». Se la Chiesa vuole essere davvero Chiesa, assemblea di tutti i cristiani e non un bunker, «una setta chiusa su se stessa, deve realizzare un cambiamento radicale della concezione che ha di sé, dell’interpretazione del suo servizio di Dio e degli uomini in questo mondo». Questa è l’occasione di imparare a trascendere se stessa, per aprirsi all’«universalità della sua missione»: l’annuncio fatto da Gesù che il mondo intero è destinato alla salvezza, al di là delle appartenenze di fede e cultura, al di là delle condizioni di vita. Questa è la buona notizia della quale ci è stato chiesto di essere testimoni e divulgatori.
Occorre ravvivare la fede in questo annuncio, la fede nella bontà paterna di un Dio reale ed essa non nasce dagli enunciati, sostiene Tomas Halik, ma dal riconoscimento di una prassi di vita, grazie alla quale è possibile parlare di fede dei non credenti, di fede implicita di chi, senza riconoscersi cristiano, vive in realtà una vita improntata ai valori umani propri del cristianesimo. E qui bisogna, finalmente, superare un fraintendimento che Halik sottolinea con chiarezza e semplicità: «A parlare della fede di un uomo è la sua stessa vita, piuttosto che ciò che pensa o dice a proposito di Dio. Ma quando parliamo del modo in cui un uomo vive, guardiamoci dal ridurre l’interezza di una vita soltanto al campo della morale, a virtù e peccati: nel modo in cui un uomo vive, in cui si esprime, rientrano anche la sua ricchezza emotiva, la sua fantasia e creatività, la sensibilità nei confronti della bellezza, il senso dell’umorismo, la capacità di empatia e tutta una serie di altre qualità. Alla domanda su che tipo di uomo sia e quale fede ispiri e guidi la sua vita, troviamo una risposta nel modo in cui egli mette in pratica il compito di essere uomo». Questa è la strada per un vero ecumenismo e richiede soltanto di avere «fiducia nel potere di Dio, di prendere sul serio l’azione dello Spirito anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa».
Superare «l’egocentrismo ecclesiastico» vuol dire avere il coraggio di pensare un ruolo diverso del prete, una diversa sottolineatura del ministero conferito a tutti i battezzati, una partecipazione paritaria di uomini e donne («la discriminazione delle donne, afferma Martin Werlen, è il portato dello spirito del tempo dei secoli passati»), l’abbandono di pregiudizi e tradizioni ormai superate e inadeguate ai nostri tempi, senza per questo allontanarsi dalla Tradizione che non ha nulla a che vedere con quelle. La Tradizione è la trasmissione viva dello Spirito, distinta ma strettamente legata alla Scrittura, spiega Werlen citando il grande teologo francese Yves Congar: «Della tradizione viva fa parte l’attenzione che i tempi ci richiedono per risultare credibili. Le tradizioni, invece possono essere abbandonate o modificate senza perdere l’essenziale della fede; si sono dovute ripetutamente abbandonare nel corso della storia della chiesa per non mettere in pericolo la Tradizione, cioè la trasmissione della fede nel proprio tempo. Chiunque consideri le tradizioni come la Tradizione immutabile diventa un tradizionalista».
Non c’è dubbio che molte cose debbano cambiare nell’organizzazione e nello stile ecclesiastici se si vuole che la Chiesa cattolica continui a testimoniare con efficacia e credibilità il messaggio evangelico. Ha le risorse e la capacità per farlo, ha l’umiltà per riconoscere gli sbagli, le servono volontà e coraggio affinché questo suo pomeriggio non rappresenti il preambolo della vecchiaia, ma l’inizio del giorno nuovo. Così è inteso infatti il pomeriggio nella concezione biblica del tempo.