Scena
Berlusconi vorrebbe rientrare sulla scena politica,
ma tentenna. La scena europea gli è rubata da Monti,
quella italiana da Grillo e dalle scenate dell’antipolitica.
Templi e scenate
Chiediamoci non tanto “che cos’è una scena”, ma cosa fa o come si produce. Tutti sanno come si fa. Un genitore, ad esempio, sa riconoscere benissimo le “scenate” dei figli, e un marito quelle della moglie (e viceversa). La psicanalisi ha costruito un enorme edificio teorico e clinico su tale distinzione: l’inconscio non si dà a vedere, non “parla” solo attraverso scene, non è forse lui stesso nient’altro che un immenso “teatro”? Del teatro la scena è infatti la cellula originaria. La scena, non la rappresentazione, che è cosa assai più complessa. Se, come si dice, il teatro è un fenomeno originario connesso alla stessa antropogenesi, ciò lo deve proprio al suo essere innanzitutto scena. E se ha radici religiose, se ha rapporti ancestrali con il culto, è sempre per lo stesso motivo. Il templum, dopotutto, come lo si produce? È uno spazio circoscritto, un dentro separato da un fuori, all’interno del quale le stesse cose che ci sono fuori, le stesse almeno da un punto di vista materiale (sono dopotutto delle pietre, degli uomini, degli animali…), vengono investite di un nuovo senso, incommensurabile con l’ordine profano. Divengono, come si dice, “sacre”, una parola che fa tremare i polsi delle anime sensibili, ma che si potrebbe tradurre in termini molto più semplici, dicendo che nel recinto sacro della scena le stesse cose di prima ora “appaiono”, ma appaiono aureolate da una lontananza insuperabile. Appaiono sparendo alla presa. Appaiono divenendo “indecidibili”.
Una panchina al parco
Si pensi ora al gesto con il quale il regista studia la location del suo possibile set. Con le sue mani forma una specie di obiettivo, le pone davanti agli occhi e si guarda intorno. In realtà non guarda affatto, piuttosto inquadra, costruisce cioè un templum, all’interno del quale le stessa cosa di prima, che so? una panchina in un parco, appare. Una volta incorniciata, però, la panchina comincia anche a sparire, smette di appartenere a questo mondo. La cornice, il recinto del tempio, l’ha infatti separata definitivamente dal contesto. Ora non è più quello che era quando la si usava per sedersi. Comincia piuttosto ad assomigliare ad una panchina, “recita” la parte della panchina. Il mondo si è insomma fatto scena ma così facendo è diventato un fantasma, un ricettacolo di spettri.
Amleto
Se l’Amleto di Shakespeare è per noi moderni inaggirabile è proprio perché racconta questa strana metamorfosi: il “mondo”, metaforizzato dalla Danimarca, viene inghiottito dalla scena e la vita viene soppiantata dai suo simulacri. Sulle mura di Elsinor i padri sono spettri, nella reggia i re sembrano re ma sono forse assassini e le madri sembrano madri ma sono forse puttane. Intorno ad Amleto, che mette in scena la follia, lasciando nel dubbio sul suo stato re regine e cortigiani, ci sono amici che mettono in scena la loro amicizia perché i regnanti possano finalmente decidersi sulla natura della follia di Amleto. E poi ci sono attori che, istruiti dal metteur en scène Amleto, recitano, senza rendersene conto, la stessa vicenda narrata dallo spettro; e via così, in un proliferare metastatico di simulacri che proiettano tutto il dramma in una dimensione onirica al limite dell’allucinazione. È allora stupefacente che Amleto non agisca, che non si vendichi, che non ristabilisca l’ordine, che non faccia insomma politica? Ma come si può agire sulla scena? Sulla scena si recita, non si agisce. Nel recinto sacro del tempo non c’è azione, c’è ripetizione, c’è rito.
Tempo fuori dai cardini
L’azione è rivolta al futuro, è elaborazione di un senso a venire. L’azione è progetto. L’azione è profana nella sua più intima natura perché è antitradizionalista, perché è creatrice di qualcosa di nuovo, perché è storica. Ma quando il mondo è inghiottito nello spazio della scena, allora, come dice Amleto in uno dei passi più celebri di tutta l’opera, il tempo dell’uomo, un tempo eminentemente “politico”, va fuori dai cardini. La politica diventa insomma l’impossibile. La scena si installa nella Città come un cancro, nel senso che la corrode e la contamina, infine la dissolve (non è proprio questo il senso della tesi avanzata Guy Debord nel suo celeberrimo La società dello spettacolo?). Rito, ripetizione e recitazione subentrano all’azione politica. La città, insomma, ha cessato di essere una città per assomigliare ad una Città. Gli attori e i sacerdoti non possono allora che subentrare ai politici, come di fatto è avvenuto nel cuore del Novecento (l’intuizione del regista Jurgen-Hans Syberberg a proposito del nazismo: esso è stato una scena teatrale che ha divorato uno stato, sostituendosi ad esso).
Brecht, il sovversivo
Ma la scena può contenere anche un antidoto. Del resto è sempre lo stesso farmaco che, velenoso in certe dosi, in altre è benefico. Quando Bertolt Brecht pensa alla scena – e sono gli stessi anni dell’ascesa del nazismo – la propone come ambito della demistificazione dei rapporti sociali. La scena incornicia l’azione, certo, la sospende e la perverte, certo, ma questa paralisi – da Brecht battezzata “straniamento” – significa per lui la possibilità della veggenza. Quanto nella vita quotidiana resta fuori dalla nostra consapevolezza ordinaria, i rapporti di classe, la violenza e l’oppressione sociale, sulla scena brechtiana diventa visibile ed oggetto di giudizio critico. Il teatro smette di essere un tempio (o uno spettacolo) dove il mondo si cancella e diventa, invece, il laboratorio scientifico dove viene smontato e rimontato. Al sacerdote, al mistagogo, all’attore che ipnotizza le folle, subentra il filosofo che fa luce. La scena diviene luogo della conoscenza e la premessa dell’azione politica rivoluzionaria. Non è un caso se Brecht sia stato così trascurato negli ultimi trenta-quarant'anni della storia culturale italiana. La sua idea di scena era infatti sovversiva in un tempo in cui della scena si apprezzava, come si continua di fatto ad apprezzare, solo la potenza eversiva.