Sophie InTreatment
Ecco perché non mi ha mai convinto fino in fondo il lavoro di Sophie Calle, nonostante, nessuno lo nega, l’interesse e i meriti. Mi è sempre rimasto un che di amaro in bocca e alcune sue opere mi sono sembrate francamente fuori registro per un’artista così intelligente ed esperta. La ragione emerge in me come per caso alla fine della 41a puntata della prima serie di InTreatment, il serial televisivo (edizione americana) con lo psicoterapeuta, che vedo ben cinque anni dopo.
L’unico caso che si risolve positivamente, quello di Sophie (che caso!), si conclude con il saluto del terapeuta che dice alla ragazza: “Abbi cura di te”. Una battuta naturale e scontata, si dirà, ma non è proprio questo ciò a cui deve giungere una terapia riuscita, a far sì che l’analizzato arrivi finalmente ad aver cura di se stesso?
Si ricorderà che è la stessa battuta di congedo che titola l’opera famosa della Calle, presentata in pompa magna alla Biennale di Venezia del 2007 e l’anno seguente alla Bibliothèque Nationale di Parigi (stessi anni di InTreatment), esaltata anche da Rosalind Krauss nel suo ultimo libro Sotto la tazza blu. La frase nell’opera della Calle viene impugnata come avente significato del tutto opposto, cinico e liquidatorio – sadico e ipocrita, dice la Krauss – da parte di un amante per chiudere una relazione. Alla luce dell’episodio di InTreatment mi sembra venire a galla tutto il rancore e l’incomprensione di Calle, del suo alter ego nella finzione, e il narcisismo di Calle artista.
Che cosa significa? Non ne faccio certo una questione psicologica, bensì estetica: vedo compiacimento e autocompiacimento – invece di tensione, ricerca, osservazione, attesa, svelamento... – in diverse opere di Calle (un’altra è quella sulla morte della madre, nella stessa edizione della Biennale al Padiglione Italia) che a me sembrano non quadrare, una volta si diceva rimanere irrisolte, o “letterarie” (e infatti piacciono molto a quegli uomini di scrittura che prendono spunto dalle cose, arte o meno che sia).
Discorso lungo, vero?, e pieno di insidie dialettiche, ma a me qui basta esporre la questione: le opere narcisistiche non riescono a staccarsi pienamente dai tormenti dell’Io – anche dell’Io dell’arte, se ci si passa la sintesi fulminea –, neppure in un gioco di specchi, alter ego, finzioni, in cui è logico che si esercitino, ma nel quale in realtà sono presi per demoltiplicazione da “perturbante” –, non riescono ad essere veramente “sé”, individui complessi che vanno per il mondo e si relazionano agli altri, “opere” in senso compiuto. Stato o destino dell’arte contemporanea?