True Detective: il tempo è un cerchio piatto
“Una volta qualcuno mi disse: ‘il tempo è un cerchio piatto’. Ogni cosa che abbiamo fatto o che faremo, la faremo ancora e ancora e ancora…”
Una delle serie più acclamate della scorsa stagione televisiva, True Detective, è, al suo cuore, una riflessione profonda sul tempo. Scritta per il canale via cavo HBO dallo showrunner Nick Pizzolatto, che ha innervato il racconto di una fitta trama di riferimenti letterari e filosofici (croce e delizia per detrattori e appassionati), la serie costruisce con il tempo e il suo scorrere un rapporto molto complesso. In True Detective, il tempo è, in primo luogo, un tema, un oggetto di riflessione, lo strumento per far uscire il racconto dai confini stretti dell’indagine sui delitti aberranti di un serial killer deviato e dargli una profondità concettuale inedita per un racconto televisivo. Nella serie gran parte del “carico” narrativo è affidato alla coppia dei due detective protagonisti, Marty Hart (Woody Harrelson) e Rustin Cohle (Matthew McConaughey), due caratteri opposti destinati allo scontro ma anche a un’intesa profonda. Tanto Marty è un uomo che preferisce vivere la concretezza del momento, non indulgere al filosofico (non riflette mai sulla sua cattiva coscienza solo per non doverne rendere conto a se stesso), quanto l’astrazione, l’introspezione, la continua ricerca di un senso più profondo oltre l’apparenza superficiale delle cose sono gli unici modi che Rust conosce per vivere. La serie è tutta punteggiata dalle sue riflessioni ad alta voce: nei lunghi tragitti in macchina tra le paludi della Louisiana (ormai un marchio di fabbrica delle produzioni HBO, da True Blood in avanti), nella sala interrogatori della polizia, nello spazio spoglio del suo appartamento: anche la recitazione di McConaughey si è dovuta adeguare, con quell’inflessione strascicata e lenta con cui pronuncia le battute. “Il tempo è un cerchio piatto”, dice a un certo punto Rust durante l’inchiesta cui viene sottoposto per accertare la sua estraneità ai delitti del serial killer a cui aveva dato la caccia anni prima. Sta raccontando, a suo modo, la celebre Teoria-M, che insieme a quella sul ritorno ciclico del tempo è uno dei leitmotiv della serie. Rust sperimenta sulla sua pelle la teoria dell’eterno ritorno, è un uomo immobilizzato in un istante a-temporale, prigioniero del suo passato che ritorna a tormentarlo in un circolo continuo: il tragico episodio della morte improvvisa di una figlia molto piccola, il disfacimento del suo matrimonio e l’irrimediabile collasso di una vita normale. Nel corso degli episodi, cambia la sua apparenza esteriore (i capelli crescono, il volto si scava, la barba si allunga) ma Rust è sempre lo stesso perché continua a rivivere quello che è già successo, senza mai alcun progresso: il cambiamento è solo una tragica illusione.
Ma in True Detective il tempo è anche un campo in cui sperimentare strategie narrative raffinate, come l’uso esteso del flashback: non una tecnica limitata a brevi spaccati del passato, ma una struttura portante in cui il presente è sempre teso all’indietro e aperto verso ciò che è già avvenuto. Le vicende del serial killer “Re Giallo” e poi la caccia di Marty e Rust sono delineate attraverso la continua alternanza fra tre diversi ambienti temporali: il 1995, l’anno in cui i due detective si conoscono e iniziano le indagini, il 2002, in cui il loro rapporto si deteriora irrimediabilmente, e il 2012, quando le indagini sul serial killer vengono riaperte e i due sono chiamati a ricordare i fatti del 1995 e del 2002. Nessun codice estetico “avverte” lo spettatore di questi viaggi nel passato, se non i cambiamenti fisici nei corpi degli attori. La linearità procedurale che di norma caratterizza le indagini cede il passo a una distorsione della linea del tempo.
La linea temporale scompaginata di True Detective è solo un esempio di una tendenza forte della serialità americana contemporanea. Nel corso dell’ultimo decennio esteso, da quando all’inizio degli anni 2000 la serie 24 ha riproposto il “tempo reale”, sono aumentate a dismisura le narrazioni tv che si sono focalizzate su quella che potremmo chiamare un’estetica della spettacolarizzazione temporale. La distorsione e il dis-allineamento del tempo sono diventati i marcatori di un’estetica della “complessità”, che richiedono uno spettatore altamente motivato e attrezzato per non perdersi nelle pieghe della storia.
Curioso come il tempo, il passato che ritorna e i suoi riflessi sul presente siano anche al centro di The Affair, la serie di cui in questo momento si parla e scrive di più, targata Showtime e ideata da Sarah Treem e Hagai Levi, l’inventore israeliano di In Treatment. Noah è uno scrittore in crisi creativa. Tutti gli aspetti della sua vita che gli erano sembrati privilegi (il matrimonio con una donna sensuale e realizzata, proveniente da una famiglia facoltosa che fino a quel momento aveva risolto tutti i problemi derivati dal suo essere, in fondo, solo un tizio che non è ancora riuscito a “diventare qualcuno”) si trasformano in insopportabili zavorre nel momento in cui incontra Alison, una cameriera della località di mare upper class in cui si trova la casa dei suoceri. Anche lei ha il suo bel bagaglio emotivo da trascinare, un figlio piccolo morto tragicamente, un matrimonio che non si è mai più ripreso. Tra i due nasce una storia che sembra guidata solo dall’attrazione fisica e dal fascino del proibito ma che, nel corso delle puntate, porta a conseguenze molto più serie di quelle di un flirt estivo, soprattutto perché s’intreccia con un caso di omicidio. Un detective indaga, Noah e Alison sono costretti a ripercorrere con la memoria e a raccontare le circostanze del loro amore infedele: ogni episodio è diviso esattamente a metà, racconta gli stessi eventi presentati dal punto di vista prima dell’uno e poi dell’altro amante. Il tempo raddoppia, ogni istante è vissuto due volte in successione. L’effetto Rashomon (dalla tecnica usata dal celebre film di Akira Kurosawa) arriva sul piccolo schermo, a sancirne la maturità nello storytelling.
Di una storia esistono sempre due versioni e nei flashback di The Affair le vicende non sono mai oggettive ma “filtrate” all’origine dal ricordo soggettivo e dalla memoria di uno dei due amanti, lasciandoci sempre in sospeso: chi è veramente attendibile? Chi mente e chi è sincero? Nel ricordo cambiano le sfumature, lo sguardo sugli altri personaggi della storia (la moglie di Noah è molto più affascinante e positiva nella memoria di Alison, mentre è spesso un’insopportabile snob viziata nell’immagine che ne ha il marito). Un dettaglio trascurato nella versione dell’uno diventa l’elemento inverante di quella dell’altro: un bacio o il testo di un sms cambiano valore a seconda di chi li ricorda, l’innocenza si trasforma in malizia, l’erotismo in romanticismo, l’eroismo in pavidità, l’emozione in freddo calcolo. In fondo, come i due amanti di The Affair, tutti siamo narratori inaccurati della nostra vita, ci autorappresentiamo (agli altri ma soprattutto a noi stessi), sempre preda della tensione irrisolta tra verità e relatività.