Annientamento o rigenerazione? / Una cellula ci sdoppierà
Lena è una biologa. Ancora una donna che insegna all’Università che dentro di sé porta amore e dolore, come Louise Banks in Arrival. Gli alieni sanno empaticamente che questo è il tipo di umano eccellente, il meglio che il pianeta possa offrire per un incontro, per un affidamento. Come Arrival di Denis Villeneuve deriva creativamente dal racconto di Ted Chiang, Annihilation (Annientamento) di Alex Garland è la sceneggiatura che reinventa il primo capitolo della trilogia Area X di Jeff VanderMeer (pubblicata nel 2014 e tradotta da Cristiana Mennella per Einaudi l’anno dopo). Annientamento è un film, e lo sceneggiatore e regista inglese avrebbe preferito che potesse essere visto prima nelle sale cinematografiche: è su Netflix dal marzo 2018, in prima televisiva.
Il bel personaggio interpretato da Amy Adams era una linguista di fama mondiale, e il militare afroamericano cercava proprio lei per capire che diavolo di lingua parlassero gli eptapodi parcheggiati in mezzo mondo con le loro miti astronavi a forma di mandorla; qui Natalie Portman è una biologa con un passato militare, che pensava di aver perso per sempre l’amato marito, sparito da 12 mesi in una missione militare segreta. Là i continui flashback e flashforward del montaggio ipnotizzante viaggiavano su due piani di narrazione: quello in tempo reale della paura e dell’avvicinamento all’Altro e quello forse reminiscente oppure preveggente in cui la madre dialogava con la figlia prima bambina, poi adolescente, poi morta. Qui flashback e flashforward avventurano l’intelligente, bella, coraggiosa, addolorata umana nell’Area X, “The Shimmer” (proprio per non rifare The Shining), sulle coste di un oceano, intorno a un faro, dove da tre anni stanno accadendo cose molto, molto strane, e dove già undici missioni di “ghostbusters” sono stati inghiottiti da quella specie di persistente alba boreale che è calata sulla natura terrestre a partire da un enigmatico e inquietante faro, disegnata dal production designer Mark Digby sul set dell’inglesissima foresta di Windsor!
Alex Garland nelle sue conversazioni promozionali per Annihilation, in particolare in quelle con lo scrittore Jeff VanderMeer, dice che il libro – propostogli da un amico producer – lo ha meravigliato perché una volta tanto non era meta-fantascienza, non era meta-qualcosa, ma cristallinamente originale nella concezione. Così originale era anche Storie della tua vita di Ted Chiang, che escogitava due idee suggestive (alieni miti scendono sulla terra per dialogare con noi e proporci un salto in avanti nella nostra concezione temporale; una donna può dopo quell’incontro leggere come una memoria il futuro di madre che la attende).
L’originalità di VanderMeer (una narrazione misteriosa più che un rovello concettuale) nel film di Garland fiorisce in una incantevole, psichedelica, pullulante scena di mutazioni genetiche del creato in quell’area: piante che crescono in forma di umani, daini con corna fiorite, alligatori di palude con denti di squalo, orsi agghiaccianti che sibilano per impasto genetico istantaneo le urla di «Aiuto! Aiuto!» dell’ultima umana sbranata e hanno mascelle e sniffate chiaramente evocatrici di Alien e di un’altra donna molto cazzuta, quella interpretata da Sigourney Weaver nel 1979. Nel faro e intorno al faro tutto sta cambiando: le cellule si clonano e germinano sosia, «echi» come argutamente suggerisce Natalie Portman in una intervista. L’intento ecologista di VanderMeer, la colpa di aver stuprato il pianeta sino a renderlo un mostro genetico, in Garland diventa un trip psichedelico nelle nostre cellule: come Lena, sentiamo ogni singola cellula vivere nel nostro corpo, e speriamo che se qualcuna ha già deciso di farsi cancerogena presto potremmo batterla sul suo stesso terreno di coltura, il nostro enigmatico DNA, così complesso che forse è stato concepito da qualche Grande Psiche Aliena mille e mille anni fa…
Se la trilogia è originalissima, il film quindi rievoca tanti topoi del cinema fantascientifico: dal vortice accelerante e psichedelico di 2001: a space odissey ad Alien, Avatar, in certe notti nell’Area X a Jurassic Park. Di fronte all’Alieno si perde chiaramente il senno, o si diventa superumani, o si muta il DNA della nostra mente.
Anche qui c’è il Potere che si mobilita per sfidare gli extraterrestri invasori, ma forse in un’aera pre-Trump o post-Trump si affida a una agenzia, la Southern Reach, dove contano più gli psicologi, gli antropologi e i topografi che i militari.
In Annihilation le sequenze di azione in alcune circostanze sono violentissimo fantahorror, ma quel che conta è il lento risucchiarci in questa ipnosi che addormenta la stupida ragionevolezza diurna; poco a poco consideriamo come una nuova Natura l’accelerazione dell’evoluzione genetica, e vediamo proliferare i nostri doppioni, che sono vergini e ci imitano, cercano di apprendere.
Nelle pagine di VanderMeer sono rare le righe meditative, più angoscianti che poetiche: «Ma la cosa piú inquietante era un lamento profondo, potente, all’imbrunire. Il vento dal mare e la strana immobilità dell’entroterra offuscavano la nostra capacità di calcolare la direzione, e quel rumore sembrava permeare l’acqua nera che bagnava i cipressi. L’acqua era cosí scura che rimandava l’immagine dei nostri volti, e non si increspava mai, inerte come vetro, mentre rifletteva le barbe di muschio grigio che soffocavano i cipressi. Guardando da quella parte, verso l’oceano, si vedeva solo l’acqua nera, il grigio dei tronchi, e la pioggia di muschio che scendeva costante, immobile. Udivi solo quel lamento profondo. È impossibile capire che effetto facesse senza essere lí. È impossibile anche comprenderne la bellezza, e quando vedi la bellezza nella desolazione qualcosa dentro di te cambia. La desolazione cerca di piantare radici nel tuo intimo».
Nel film non c’è l’enigma apocalittico che un misterioso Scriba predica in forma di licheni multicolore e semoventi sulle pareti, come un Bansky venuto da Orione: «… nell’acqua nera col sole che splende a mezzanotte, quei frutti giungeranno a maturazione e nelle tenebre di ciò che è aureo si schiuderanno per mostrare la rivelazione della fatale morbidezza nella terra… … le ombre dell’abisso sono come petali di un fiore mostruoso che sboccerà all’interno del cranio e allargherà la mente dell’uomo oltre ogni limite sopportabile… ».
In Annihilation non è particolarmente insistito il puzzo di morte e decomposizione: si insiste maggiormente sull’impulso autodistruttivo di ogni umano, che al cospetto del vortice della piccola-stella-buco-nero è sedotto dallo scintillio purificante del fuoco finale.
Echi, quindi di una autodistruzione che al capolinea porta al commissariamento cosmico. Nella colonna sonora si prende la scena un pezzo elettronico allucinato dei Moderat (progetto che a Berlino associa dal 2002 Apparat e i Modeselektor) e nella storia l’amore si incarna nei corpi nudi di Lena e del marito che sta per andare a morire; dopo che lo ha atteso troppo a lungo, la solitudine la porta a letto con il collega di università, ma dopo il sesso le sale la nausea dello squallore. Si presenta volontaria, vuole andare a cercarlo nell’Area X, il suo uomo, e soprattutto vuole andare a riprendersi il rimescolare con lui cellule e empatia, prima che si autogenerino doppelgänger dai due DNA.
Alla fine riecco quelle dita sfocate dietro il bicchiere di cristallo, la parte scultorea e perfetta di un tutto corrompibile e marcescibile. Intorno alla pupilla, nell’iride iridescente di un arcobaleno di meraviglie genetiche, una donna è la nuova Eva che ha capito cosa voleva la Luce schiantatasi dal Cielo sul faro: «Trasformare, creare qualcosa di nuovo».