Una musica diversa: Gloria!
Uno dei racconti più belli del Novecento italiano si intitola Lavinia fuggita. L’ha scritto Anna Banti, nel 1950. È ambientato a Venezia, nel Settecento, e narra la storia di un’orfana che vive all’Istituto della Pietà di Venezia e assieme alle sue compagne trovatelle (Orsola e Zanetta) impara a suonare e cantare, sottraendosi così ai lavori più faticosi e diventando, di nascosto, compositrice. È tale il suo bisogno di creare musica, che Lavinia, con l’aiuto della portiera sordomuta Zelinda, sostituirà gli spartiti di Antonio Vivaldi che doveva ricopiare infilando tra le carte un suo “oratorio” Ester. Scoperta e punita, Lavinia scappa, mentre il quaderno con le sue composizioni si disperde tra le nebbie: quelle sospese sulla laguna come pure le nebbie di un tempo storico rischiarato da una scrittura capace di inventare, attraverso il linguaggio, il sentimento arioso e volatile di talenti e destini femminili che hanno attraversato la storia passando come fantasmi.
Lavinia fuggita torna in mente guardando molte scene del bel film Gloria!, di Margherita Vicario, e si ripensa anche a Stabat Mater (2008), il romanzo di Tiziano Scarpa. Non solo per l’ambientazione veneta, in un istituto di orfane, non solo perché si tratta di un gruppo di ragazze che, inventandosi l’audacia di comporre musica insieme, si aiutano reciprocamente a non soccombere, in un mondo che da subito le ha estromesse, abbandonate, lasciate ai margini. Teresa, Lucia, Bettina, Marietta (che si chiama come la pittrice figlia di Tiepolo) e Prudenza sono ragazze irrequiete, coraggiose – direbbe Banti.
La forza del film, la sua qualità speciale, consiste nella capacità di usare la musica come codice universale e vitale; come occasione, anche drammaturgica, di far risuonare un coro di voci dentro secoli di patriarcato, con il ritmo e la leggerezza pop di un videoclip. È una sorellanza senza troppe contraddizioni quella di Gloria!, ma anche per questo arriva e spiazza. La musica dunque, per smettere di tacere, anche a sé stesse, e per trovare, insieme, non solo una voce ma nuove orecchie. Margherita Vicario, la regista, è anche una cantautrice, un’attrice, una musicista, e il suo sguardo cinematografico vive di questa compresenza di talenti.
Gloria!, anche nelle sue parti più facili, fa suonare una musica diversa, che funziona come inno di libertà e, in senso tecnico, di contaminazione ariosa. Tra le interpreti incontriamo anche Veronica Lucchesi (La Rappresentante di Lista), ma complessivamente Gloria! non è un musical, né un film con inserti musicali: è proprio una cosa differente, è cinema pop che trasforma in immagine movimento uno spartito musicale di quasi tre secoli fa lanciato da una finestra.
Si comincia con uno scenario di genere, che potrebbe essere uscito da un quadro di Giacomo Ceruti. Nel cortile del convento, tra contadine che lavorano, lavano i panni, ecco però Teresa (Galatea Bellugi), una serva muta, che mentre sgobba trova lo slancio di spostare la traiettoria del suo e nostro sguardo, buttando gli occhi in alto, verso il cielo, e così cominciare a sorridere, intercettando ritmo e musicalità tra i rumori dell’ambiente circostante (sbattere di panni, attrezzi contadini o domestici, movimenti di corpi al lavoro). Ci troviamo dentro un fatiscente istituto, nel 1800, una delle istituzioni che saranno chiuse, pochi anni più tardi, da Napoleone.
Da subito, e come su un magico tappeto sonoro, la visione del film procura un effetto continuo di sdoppiamento tra un’esistenza raccontata molto realisticamente (dai costumi, dalle scenografie, con una fotografia che a tratti ricorda il Ritratto della giovane in fiamme, di Sciamma, 2019) e un mondo parallelo, notturno, una stanza stregata tutta per sé, abitata dalle creazioni di Teresa e con lei dalle altre quattro educande che, aiutate dalla scoperta di un oggetto magico (uno strumento sconosciuto: un pianoforte) dapprima con alterne riluttanze, e progressivamente con sempre più libertà e convinzione, cominciano anche loro a sperimentare nuove forme di espressione poetica e composizione musicale per archi, proprio come farebbero delle cantautrici rock.
La parola del titolo, infatti, può valere, oltre che per l’inno liturgico più famoso cantato dai cori degli istituti religiosi, anche per intendere la fama che si ottiene grazie al proprio valore e al riconoscimento dei propri meriti: di tutto quello, insomma, che, quando si trattava di talento femminile, la storia ha per lo più scoraggiato, svalutato, silenziato, non riconosciuto, reso anonimo: quando, per esempio, Lucia (Carlotta Gamba) offre la musica da lei composta al precettore Perlina (Paolo Rossi), che non è ancora riuscito a preparare un nuovo concerto per l’imminente arrivo del Papa Pio VII, la ragazza si rivolge al precettore sussurrando che quella musica potrà essere usata «senza il mio nome, ovviamente» – scatenando una reazione di scandalo per l’oltraggio commesso.
Gloria! è un’opera originale nella realizzazione. Anzitutto, come già si è osservato, perché usa la musica come protagonista e come struttura portante. Così facendo, sperimenta nuove possibilità anche di sguardo, con accostamenti stranianti in chiave pop che già avevamo apprezzato, come modo nuovo di rivisitare la storia dal punto di vista delle ragazze indisciplinate, in Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola, per esempio, o nel Corsetto dell'imperatrice (2022) di Marie Kreutzer; ma in questi ultimi due film le protagoniste erano ricche principesse annoiate, mentre in questo caso Teresa e le altre appartengono a un mondo subalterno. Inoltre, l’uso della musica contemporanea non ha soltanto una funzione straniante, perché agisce anche come dispositivo visionario, come generatore di immagini nuove, e come codice di coralità. Per tutta la durata del film, respiriamo aria (questo è anche il titolo di una canzone), aria di libertà ascoltando voci di donne che stanno cantando insieme e che grazie alla forza sprigionata dal loro agire collettivo e plurale sconcertano ogni disciplina e ogni trama. In un crescendo di suoni e di voci sempre più intonate. Potrebbe forse sembrare una trama po’ troppo facile – se non fosse così seriamente divertente: un coro di donne in abito settecentesco che canta parole di liberazione, come faranno centocinquant’anni più tardi le mondine quando cantano Bella Ciao. Come se ogni giorno potesse portarci la gioia e la festa del 25 aprile.