Universalismi
Una decina di giorni fa mi sono ritrovato al DigiTrok! l’evento organizzato da Trok! e Digicult presso la Cascina Autogestita Torchiera a Milano. Una giornata costellata di banchetti, laboratori e concerti, con la presenza, e qui mi riferisco essenzialmente alla parte musicale, di artisti come Daniela Cattivelli, Nicola Ratti, Teatrino Elettrico, Echran, Otolab e altri ancora; molti di loro con un sound che spesso sfociava in un noise elettronico di ascendenza industriale, quando non direttamente nell’assordante devastazione del rumore bianco.
A gran parte del pubblico (tra cui includo me stesso) questa musica da percepire quasi più con il corpo che con la mente è piaciuta o almeno è sembrata molto interessante, a giudicare dall’attenzione e concentrazione con cui venivano seguiti gli artisti.
Mi è capitato però di incontrare qualcuno, meno uso alla violenza e alla totale mancanza di armonia o melodia di queste espressioni sonore, che si poneva il problema se esse fossero musica oppure rumore e che indicava nel fatto che il grande pubblico rifugge da questi ascolti la prova che queste sonorità “noise” erano più una sorta di perversione che una vera e propria espressione artistica.
Colgo l’occasione fornitami dalle questioni di cui sopra e cioè dal tema del rapporto tra musica, comunicazione e rumore per inaugurare questa nuova rubrica di doppiozero dedicata alla discussione di quanto ruota intorno all’ascolto, musicale e non, alla produzione di suoni e musiche e in definitiva all’immaginario acustico del mondo in cui viviamo.
In genere chi vuole distinguere cosa è musica e cosa non lo è, senza preoccuparsi dei contesti, lo fa partendo da un assunto, anzi da un mito della cultura di massa secondo cui “la musica è un linguaggio universale” e quindi esiste un criterio “universale” per distinguere cosa è musica da cosa non lo è, cioè dal cosiddetto “rumore” (tornerò un’altra volta sul senso della parola “rumore” in questo contesto).
Anche sorvolando sul problema complesso della natura linguistica della musica, sappiamo bene che non in tutte le culture esiste una parola che possa essere tradotta come l’equivalente della nostra “musica”. In alcuni casi, penso ad esempio agli Yanomami, cultura tribale del Brasile, non solo non troviamo la parola, ma neppure le espressioni di quello che noi chiamiamo musica.
Insomma, sembra proprio che non sia possibile tracciare una linea tra quanto riteniamo sia la musica e quanto riteniamo non lo sia senza tagliare fuori una fetta, ancorché piccola, di umanità.
Ma anche quando troviamo espressioni che possiamo definire musicali, queste sono in una tale varietà che le allontana inesorabilmente da quanto siamo abituati a considerare “musica”. Non parlo dunque della cosiddetta “world music” che è tipicamente costituita da “localizzazioni” di espressioni musicali di massa o comunque tipiche della musica “occidentale”. Parlo piuttosto di esiti autoctoni e relativamente incontaminati dal contatto con la cultura di matrice occidentale, con la sua pervasività quasi virulenta. Parlo ad esempio dei giochi vocali degli Inuit, del Kecak indonesiano, dell’antico Gagaku giapponese e della musica per voce e digeriddoo degli aborigeni australiani.
Se melodia e ritmo, nel senso di una pulsazione regolare, sono presenti in modalità ed entità estremamente variabili nelle culture di tutti i tempi e di tutti i luoghi, l’armonia, nel complesso sistema con cui è sviluppata nella musica europea a partire dal periodo Barocco, è addirittura una caratteristica assolutamente tipica della nostra cultura. Una cultura che abbiamo ormai esportato a livello planetario.
Ecco quindi che quando leggo l’affermazione di un direttore d’orchestra, dunque plausibilmente un “esperto di musica”, come Zubin Mehta secondo cui la “musica è universale” mi viene da pensare che qualcuno potrebbe anche dire (cosa che in fondo è la lezione nascosta del linguista Noam Chomsky) che l’inglese è la “lingua universale”.
Insomma non solo l’idea di musica non è univoca, ma anche gli strumenti, gli stili e le pratiche musicali sono da sempre e ovunque estremamente varie. Al punto che un “fan” di un genere musicale può anche non riconoscere la presenza di “musica” in altre espressioni culturalmente lontane.
Non c’è però da stupirsi se lo sviluppo globale di una cultura musicale di massa, con la conseguente cancellazione di culture genuinamente locali, abbia dato origine a sua volta a una vastità di stili e generi, di sottoculture musicali, che spesso non riconoscono ad altre nicchie sonore il titolo di “musica” a tutti gli effetti.
Mi è capitato molte volte, ad esempio, di sentire musicisti di formazione classica accusare la dance, come la techno e la house, di non essere vera musica perché ripetitiva e noiosa e allo stesso tempo di sentire produttori di musica dance o sperimentale accusare la musica classica di essere “ripetitiva e noiosa”! Anche quando questo confronto è condotto da luminari nei rispettivi campi, come Karlheinz Stockhausen e Aphex Twin (come si può leggere sulla rivista “The Wire” del novembre 1995) sembra curiosamente di assistere a un vero e proprio dialogo tra... sordi!
In definitiva, l’idea secondo cui la musica è un “linguaggio universale” è quindi oggi, a più di 50 anni dalla nascita della moderna etnomusicologia, l’espressione ingenua di un orecchio culturalmente condizionato o, nel peggiore dei casi, un claim ideologico nelle mani di un’industria musicale di massa che cerca di diffondere (cioè di vendere) l’insieme di stili che essa promuove come un pensiero unico globale.
Non esiste la “Musica”, ma “LE musiche”. Questo non significa che non si possa, una volta che sono inquadrate nel loro contesto, mettere a contatto pratiche musicali diverse tra loro. Non per dare giudizi di qualità assoluta, ma per identificare quelle qualità e quelle differenze che le rendono apprezzabili dalle proprie comunità d’ascolto e magari trovare punti comuni per un possibile dialogo.
Oppure possiamo rassegnarci all’orgogliosa ottusità della barista a cui i fratelli Blues si rivolgono per sapere quale tipo di musica si suona normalmente nel Bob’s Country Bunker, sentendosi rispondere: “Di tutti e due i tipi: il Country e il Western”.