Requiem per le rock band
Di recente, ospite di un podcast, lo scrittore inglese Richard Osman ha parlato della scomparsa delle band musicali dalle classifiche di vendita nel Regno Unito. Dati alla mano, saremmo prossimi all’estinzione. Nella prima metà degli anni ’80 (1980/1984), la vetta delle chart inglesi è stata appannaggio di gruppi musicali (Pretenders, Blondie, The Police, Roxy Music, Culture Club, Duran Duran, eccetera) per un totale di 146 settimane (ovvero il 56.15% rispetto al totale). Nella prima metà degli anni ’90 (1990/1994), il primo posto delle chart inglesi è stato occupato da gruppi musicali (Steve Miller Band, Iron Maiden, Queen, The Clash, U2, Wet Wet Wet, Take That, eccetera) per un totale di 141 settimane (il 54.23% rispetto al totale). Nella prima metà di questo decennio (2020/2024), il primo posto delle chart inglesi è stato occupato da gruppi musicali per 3 settimane soltanto. Tre settimane su duecentosessanta (l’1.15% rispetto al totale). Per una settimana dai Radio One Lounge Stars, una collaborazione fra artisti solisti, per una settimana dai Beatles (!), grazie a Now and Then, primo singolo dei quattro a raggiungere la vetta dal 1969 (dai tempi cioè di The Ballad of John and Yoko), e per una settimana dalle Little Mix, una girl band, l’unico vero gruppo in grado di conquistare la vetta delle chart inglesi negli ultimi cinque anni. Tutti gli altri number one sono stati appannaggio di singoli artisti o di collaborazioni fra singoli artisti.
L’uscita di Osman non è passata inosservata e l’americano Rick Beato, lo Youtuber musicale oggi forse più seguito in rete (quattro milioni e mezzo di sottoscrizioni, un miliardo di visualizzazioni), ha ripreso la notizia corroborandola di un ulteriore dato statistico, riferito stavolta all’ascolto in modalità streaming sulla piattaforma Spotify. Beato ha cercato i nomi dei 400 artisti più ascoltati sulla piattaforma nell’arco dell’ultimo mese, verificando chi, fra questi, fosse un gruppo formatosi nell’ultimo decennio. Il risultato è non meno sorprendente: tre gruppi soltanto. Nella classifica dei 400 artisti più ascoltati su Spotify ci sono soltanto tre band formate negli ultimi dieci anni: al numero 135 i mexico-tejani Grupo Frontera (formatisi nel 2022), al numero 248 gli italiani Måneskin (formatisi nel 2016), e infine, dal Colorado, al numero 328, Richy Mitch & the Coal Miners (formatisi nel 2017). Tre gruppi nuovi su quattrocento artisti. Lo 0.75%.
Da par mio ho consultato il sito Hitparadeitalia.it, un sito non ufficiale che riporta le classifiche dei dischi più venduti in Italia negli ultimi decenni. Premesso che sito e chi scrive non hanno pretese di attendibilità statistica, e premesso che la scena italiana è una realtà dove la figura del cantautore ha a lungo determinato il mercato discografico proprio negli anni in cui le band inglesi facevano furore, ho verificato quale fosse la percentuale dei gruppi presenti nella classifica Top 50 dei dischi più venduti in Italia sull’arco di un anno. È risultato che nella prima metà degli anni ’80 (1980/1984) i gruppi presenti nella Top 50 in Italia erano 53 (il 23.6% del totale; parliamo di gruppi come Pink Floyd, Police, Pooh, New Trolls, Matia Bazar, eccetera), nella prima metà degli anni ’90 erano 61 (il 24.4.% del totale; Bee Gees, Pooh, Supertramp, Depeche Mode, eccetera), mentre per il periodo compreso fra 2019 e il 2023 ho rilevato due dati: 32 gruppi (il 12.8%) se consideriamo nella statistica anche dischi di band come i Pink Floyd (The Dark Side of the Moon, sempre in classifica), i Queen (all’epoca del bio-pic su Freddie Mercury), gli Iron Maiden e i Nirvana, tutti dischi pubblicati decenni fa; o altrimenti, esclusi questi nomi e compresi soltanto i dischi nuovi, i gruppi nella Top 50 sull’arco di cinque anni erano 19 (il 7.6% del totale; Pinguini Tattici Nucleari, Måneskin, Psicologi – un duo – Dark Polo Gang e pochissimi altri). Per curiosità ho pure verificato la prima metà degli anni ’70. In questo caso i gruppi presenti nella Top 50 annuale dal 1970 al 1974 erano 93, ovvero il 37.2% sul totale (Beatles, Led Zeppelin, Creedence Clearwater Revival, Rolling Stones, Chicago ma anche Le Orme, Formula 3, il Banco del Mutuo Soccorso, eccetera). Percentuali che vanno lette con cautela perché raccolte un po’ di corsa, certo meno eclatanti rispetto alle statistiche britanniche o quelle relative a Spotify, ma che parrebbero confermare quanto meno una tendenza: dal 37.2% dei primi anni ’70 al 23/24% dei due decenni successivi, fino al 7% odierno (o, se si preferisce, il 12%).
La risposta alla domanda perché questo succede? chiederebbe un’analisi approfondita, capace di considerare aspetti diversi (a cominciare da: come vengono rilevati questi dati?, passando da: fino a che punto le classifiche di vendita – pilotate? gonfiate? – sono ancora un metro per valutare il reale grado di popolarità di un dato artista o di un dato gruppo?), ma in parte anche difficili da quantificare. A caso: il personal computer che ha sostituito il locale prove (al dinamismo dello stare assieme e alla creatività che ne scaturiva la produzione digitale privilegia ormai il fai-da-te se non proprio lo stai-da-solo); l’educazione musicale che viaggia e prospera su Youtube, riducendo le occasioni di formazione e di scambio diretto fra musicisti; il profondo cambiamento in corso nell’industria musicale, con relativa contrazione dei guadagni per chi compone e suona musica (le briciole dei diritti d’autore racimolate su Spotify non garantiscono bastante sussistenza al singolo artista, figuriamoci al gruppo di quattro o cinque elementi); la prevalenza di compositori, produttori e musicisti scritturati direttamente dalle case discografiche per contenere i costi (meglio il batterista di fiducia che ti fa il lavoro in mezza giornata piuttosto che il batterista autodidatta che occupa quella mezza giornata in studio ad accordare il rullante); il prevalere della collaborazione estemporanea fra singoli artisti rispetto alla cooperazione “chiusa” di una band (i famigerati featuring molto diffusi nel mondo del rap e nell’hip-hop; sull’arco degli ultimi 10 anni, fra il 2014 e il 2023, sono stati ben 5 i singoli numero uno più venduti in Italia sull’arco di un anno scaturiti da queste collaborazioni (ovvero la metà, 5 su 10): 2014, Enrique Iglesias feat. Descemer Bueno & Gente de Zona & Sean Paul; 2017, Luis Fonsi feat. Daddy Yankee; 2019, Fred De Palma feat. Ana Mena; 2020, Rocco Hunt e Ana Mena; 2021, Blanco & Sfera Ebbasta; nel 2024, per ora, il singolo più venduto sull’arco dell’anno risulta essere di Rose Villain feat. Guè); la stagnazione del gusto e (insieme) la staticità di un’industria musicale che non è più alla ricerca incessante del nome nuovo da lanciare ma del vecchio nome da riciclare (si pensi alle acquisizioni milionarie dei cataloghi dei grandi gruppi del passato da parte dei colossi dell’intrattenimento, o al mito persistente della reunion, la resurrezione della band, quella dei Cure o quella annunciata degli Oasis le più recenti); o ancora il fenomeno invasivo dei talent: debuttanti (singoli) allo sbaraglio. Sono solo alcuni dei motivi che potremmo proiettare sullo sfondo di un eco-sistema musicale fattosi vieppiù fragile e frammentato.
Va anche rilevato che se le band nate di recente sono sparite dalle classifiche di vendita questo ancora non significa che siano scomparse dai palchi o dai cataloghi delle etichette indipendenti. Esistono ancora, ma in posizione sempre più defilata rispetto al mercato mainstream, senza l’ambizione di detronizzare Taylor Swift, Billie Eilish o Ghali dal podio delle classifiche di vendita, ma senza neppure la speranza, nella maggior parte dei casi, di sviare l’attenzione dei media dall’atomizzazione che sta determinando il pop di questi anni. Dove sono finiti gli Oasis, i Red Hot Chili Peppers e i Radiohead di qualche decennio fa? Nella sezione “best new music” di una rivista storica e di riferimento del rock indipendente come l’americana Pitchfork non troviamo, mentre scrivo, nessun disco di un gruppo formato dopo il 2006 segnalato fra i 40 migliori dischi in circolazione. Su 40, 26 sono di artisti solisti, 4 sono collaborazioni fra artisti solisti, e 10 sono di gruppi formatisi fra il 1967 (i giapponesi Les Rallizes Dénudés) e il 2006 (i gallesi Los Campesinos! e gli americani Emeralds). Nessun disco di un gruppo formato negli ultimi 18 anni è segnalato fra i 40 più interessanti sul mercato. Bisognerebbe beninteso analizzare un campione più vasto, ma non sarebbe stato male, su una testata del genere, trovare segno inverso fin dal primo riscontro. Riflettessimo su questi dati non ancora probanti, se ne potrebbe dedurre che la prevalenza del singolo sul gruppo si estende, oltre che alle classifiche di vendita e alle classifiche di merito, anche alle scelte editoriali di una testata indipendente che gode di una certa autorevolezza e che si presenta con un claim un po’ bombastico: the most trusted voice in music (la voce più affidabile nella musica). Per cercarne ulteriore conferma si potrebbe anche dare un’occhiata alle copertine di Rolling Stone degli ultimi anni.
Agli albori, metà degli anni ’50, i gruppi di rock si presentavano alla stregua di una band di supporto del singolo artista. Fra i più famosi: Bill Haley & the Comets e Buddy Holly & the Crickets, una formula che arrivava direttamente dalle jump band o delle band di rhythm’n’blues del decennio precedente: Louis Jordan & His Tympany Five piuttosto che Jimmy Preston and His Prestonians. La band che prescinde dal singolo leader è qualcosa che nasce e si sviluppa soltanto negli anni ’60. Paul Revere & the Raiders, un gruppo formato nel 1958 ma esploso nel decennio successivo, pur operando come band a tutti gli effetti si richiamava ancora alla formula di una tipica band di supporto degli anni ’50. Bisognerà attendere i primi anni ’60 per veder nascere dei gruppi rock che non privilegiavano uno dei suoi membri a scapito degli altri, meglio ancora se con l’articolo The che li determinava in quanto insieme di individui equivalenti: The Beach Boys, The Byrds, The Beatles, The Animals, The Who, The Doors, The Rolling Stones, The Kinks, The Band, un’idea di branding forse un po’ rigida ma a suo modo efficace, qualcosa che verrà progressivamente a cadere dalla seconda metà degli anni ’60, accentuando l’idea di una compattezza meno protocollare, degli organismi a sé stanti che si volevano un passo oltre i singoli individui che li componevano: Pink Floyd, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, Fleetwood Mac, Cream, Grateful Dead. Oggi sta anche capitando qualcosa di peculiare, e cioè che i singoli artisti si presentano sovente sotto pseudonimo o con un nome che fino a qualche anno fa avremmo piuttosto attribuito a un gruppo. Restando alla scena musicale italiana, per il non addetto ai lavori potrebbe essere difficile distinguere un gruppo da un solista nella hit-parade: Geolier, Lazza, Shiva, Tananai, Ernia, Thasup, Marracash, Tedua, Rkomi, Guè (già Guè Pequeno), Blanco, Sfera Ebbasta, Bad Bunny, Irama, Drillionaire, Bresh, Paky, tutti pseudonimi di artisti solisti in mezzo ai quali, come un fiore anomalo, sbuca d’un tratto un nome e cognome, quasi l’unico: Marco Mengoni. Il singolo si presenta ormai sotto mentite spoglie o con uno pseudonimo, com’è tradizione del rap e dei suoi più importanti esponenti: Eminem, Jay-Z, The Notorius B.I.G., Tupac Shakur, 50 Cent, Ice Cube, Dr. Dre, André 3000, ma anche Jovanotti (con le dovute eccezioni: Kendrick Lamar).
Pare insomma che le band giovani non entrino più in classifica, non vendano dischi e non facciano ascolti su Spotify. Gli investimenti musicali redditizi stanno nell’acquisizione dei cataloghi di artisti e di band del passato, nelle reunion di band disciolte (quella degli Oasis ci è già stata presentata come l’evento rock del prossimo anno e ha subito innescato voci circa un’auspicata ma improbabilissima ricostituzione degli Smiths), nelle interminabili tournée mondiali, posto che tu sia Taylor Swift, Bruce Springsteen, i Rolling Stones, Bob Dylan o Billie Eilish, o nelle residenze dove non è più la band o l’artista a girare il mondo ma i fan (la residence degli U2 allo Sphere di Las Vegas o il Billy Joel al Madison Square Garden di New York). Gruppo sì gruppo no in fondo che cosa cambia? Forse poco, ma è certo che i gruppi musicali hanno avuto un ruolo importante nel democratizzare e rendere meno individuale ed elitario il fatto musicale, forse anche a porlo in una posizione di maggiore forza rispetto alle regole del mercato e del business (i Rolling Stones e i Pink Floyd hanno pur sempre avuto dei modelli d’automobili intitolati a loro nome). Un gruppo di amici che si lancia nel mondo condividendo un’avventura che presuppone un patto di fedeltà, di fiducia reciproca, di sottoscrizione di un interesse comune rispetto all’ambizione personale. C’era questo e c’era che il rock si è rivelato particolarmente dirompente quando stava nelle mani di un gruppo di ragazzi che garantiva trazione e creatività grazie al credo quanto mai desueto che “l’unione fa la forza”. Dai mecenati dell’arte d’un tempo s’è passati ai produttori e agli editori illuminati (Nanni Ricordi, per dirne uno), interessati certo a realizzare un profitto ma anche a valorizzare e promuovere degnamente colei, colui o coloro che offrivano la materia prima dell’arte. Oggi il Re Mida della musica si chiama Daniel Ek, è il CEO di Spotify, il quale, con un capitale di 4.9 miliardi di dollari accumulato grazie alla creatività altrui, nel giro di pochi anni è diventato più ricco di ogni altro musicista nella storia della musica, più di Taylor Swift (la quale, da sola, rappresenta per dischi venduti e ascolti in modalità streaming l’1.72% dell’intero mercato musicale mondiale: se la Swift fosse un genere musicale, sarebbe posizionata appena dietro il gospel e davanti al jazz, a tutto il jazz).
Per chiudere segnalo la nascita di un nuovo gruppo che dal nome pare uscito direttamente dagli anni ’60. Si chiama BEAT e in poche settimane ha allestito un tour della durata di quattro mesi negli Stati Uniti, da settembre a dicembre, in alcune nelle sale da concerto più prestigiose del paese. Qualcosa che farebbe ben sperare, non fosse che la neonata band non è composta da musicisti imberbi ma da vecchi leoni delle scene: Adrian Belew (74 anni, già con Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads, King Crimson, Laurie Anderson, Paul Simon), Steve Vai (64 anni, a sua volta con Frank Zappa, poi con David Lee Roth e Whitesnake), Tony Levin (78 anni, storico bassista di Peter Gabriel, poi con i King Crimson, Yes, e una miriade di dischi da session man) e infine Danny Carey (63 anni, Carole King, Green Jellÿ, Tool). I quattro ripropongono il materiale inciso dai King Crimson di Robert Fripp su tre dischi storici dei primi anni ’80 come Discipline, Beat e Three of a perfect pair, a giudizio di scrive forse la miglior edizione dei Crimson e una delle più grandi band di rock di sempre (anche allora si presentava sotto forma di quartetto, composto da Fripp, Belew, Levin e il batterista Bill Bruford). Inutile dire che la tournée, per ora soltanto americana, sta andando a gonfie vele. Da quanto sappiamo i BEAT non hanno intenzione di registrare nel nuovo materiale. Neppure è lecito assimilarli al fenomeno delle reunion, proprio perché non si presentano come riedizione dei King Crimson (nel gruppo manca il leader, Robert Fripp). Potremmo inquadrarli come una sorta di cover band all’ennesima potenza o forse come l’ennesima operazione di revival rock, un’operazione che punta tutto su qualcosa che, complice lo stato comatoso dell’industria discografica e del rimbalzo aggregativo del dopo pandemia, sta vivendo una stagione particolarmente felice: il concerto dal vivo. La speranza è che sia proprio questo, la formula del concerto a ridare slancio, se non ai gruppi rock del bel tempo che fu, quanto meno a un nuovo modo di stare insieme per creare della nuova musica.
King Crimson, dicembre 1981: Thela Hun Ginjeet