Otto domande (2) / Università: cosa significa insegnare?
Franco Nasi
La pandemia è stata affrontata facendo ricorso alle piattaforme digitali. Questo ha reso il tema della cosiddetta “fatica digitale” (digital fatigue) più che mai attuale. Il ritorno alla normalità eliminerà il problema o ne cambierà solo i termini? Come pensate che occorrerà affrontarlo?
È stato certo faticoso imparare in poco tempo ad usare bene le piattaforme digitali nella didattica “attiva”, cioè non solo come archivio per i materiali da dare agli studenti. Il loro utilizzo forzato ha costretto a riorganizzare abbastanza radicalmente le lezioni. Sarebbe un peccato non trarre vantaggio dalle esperienze fatte. La didattica in presenza è essenziale, ma un uso più efficiente delle piattaforme digitali porterebbe vantaggi certi alla didattica.
Uno degli aspetti meno considerati della didattica a distanza è la scarsa cura del modo in cui i docenti si presentano davanti allo schermo (inquadratura dal sotto in su, sgradevoli contrasti di luce, sfondi casuali). Ritenete che sarà necessario intervenire, o la fine dell’emergenza renderà tutto questo superfluo?
Un insegnante è anche un po’ un attore. Deve comunicare, coinvolgere, motivare. Questo sia in presenza sia online. Sarebbe opportuno che tutti gli insegnanti fossero consapevoli di questo aspetto del nostro lavoro anche quando si fanno lezioni in presenza. Detto questo, è ovvio che sapere come usare il mezzo in modo efficace è una risorsa in più. Ma non credo che la luce dal basso o dall’alto o un vestito o una acconciatura siano determinanti se un insegnante si limita a informare e a passare conoscenze in modo asettico, soprattutto se parliamo di una serie di lezioni, di un corso di molte ore, cioè di un “percorso” che dovrebbe condurre a qualche approdo significativo, possibilmente memorabile (cioè che si ricorda anche dopo aver passato l’esame). A volte si ascoltano lezioni fatte da luminari che si limitano a leggere le didascalie del loro power point, ossessionati dai tempi di lettura per ogni slide, come se dovessero fare un compito loro stessi. Se non c’è capacità o voglia di comunicare, se non c’è attenzione e interesse nei confronti di chi assiste alla lezione, le tecniche servono, ma non credo che siano determinanti. Perché non parlare del tono della voce? Della gestualità?
Nel rapporto con gli studenti e studentesse come avete scelto di procedere con le telecamere: lasciando libertà di accenderla oppure no? Avete riscontrato una differenza nel modo in cui la “classe” ha partecipato e c’è stata una differenza tra la partecipazione degli studenti e quella delle studentesse?
Tutto è dipeso dal tipo di piattaforma utilizzata. In un caso, quella indicata dall’ateneo nella prima fase del lockdown, non c’era scelta: le telecamere degli studenti erano spente, e si accendevano solo quando intervenivano. Nel secondo lockdown abbiamo potuto usare altre piattaforme: avere la possibilità di vedere gli studenti ha reso il dialogo meno occasionale. Non direi che c’è stata differenza fra studenti e studentesse per quanto riguarda la partecipazione e gli interventi. Di certo gli interventi andavano stimolati, a volte forzati. Ma le risposte sono state sempre positive. Era come se avessero bisogno di essere chiamati direttamente in causa per “sbloccarsi”. La “presa di turno” funziona in modo diverso. In presenza tante cose succedono con uno sguardo o con un gesto della mano rivolto direttamente a uno studente o a una studentessa che si sentono così direttamente chiamati in causa o, meglio, chiamati a una relazione attiva con il docente e con il gruppo.
Quali vantaggi, se ci sono stati, avete riscontrato con studenti cosiddetti non-frequentanti? C’è stata una maggior presenza di studenti o studentesse lavoratrici?
Il fatto di poter lasciare le lezioni online per tutto il semestre e per i mesi del primo appello ha favorito molto gli studenti che non potevano frequentare. Anche i risultati agli esami sono stati decisamente migliori per questi studenti rispetto agli anni precedenti.
La funzione didattica è, a vostro parere, solamente trasmissione vocale e immagine, oppure entrano in gioco altri fattori sensoriali e percettivi legati alla presenza fisica?
Come ho detto, l’insegnamento ha molto a che fare con il teatro. E nel teatro c’è un corpo in scena. L’essere in un luogo, insieme, può creare un gruppo. Imparare a lavorare insieme, a collaborare nell’apprendimento e nella ricerca è un obiettivo fondamentale di ogni istituzione educativa, dalle elementari all’università. Tra l’altro è una delle cose che richiede anche il mercato del lavoro, e le università dovrebbero attrezzarsi per questo.
Diversi atenei incoraggiano una didattica mista, ossia in presenza e insieme in ‘live-streaming’. I vantaggi sono il numero in aumento degli iscritti, quali sono secondo voi gli svantaggi?
I primi esperimenti fatti nell’ultima parte del lockdown, con alcuni studenti in aula e altri a distanza mi sono sembrati negativi. Di fronte a una situazione di emergenza si fa quel che si può. Ma in una situazione normale la lezione in presenza dovrebbe seguire le proprie modalità; così come quella a distanza. Sono due grammatiche diverse di comunicazione. Come fare cinema e fare teatro. Vero è che si possono mescolare. Ma una cosa è vedere uno spettacolo teatrale in cui si usano dei video, una cosa è vedere uno spettacolo teatrale ripreso e poi mandato in onda; un’altra cosa ancora fare uno spettacolo teatrale rivolgendosi al pubblico in sala e a quello davanti alla tele. Bisogna essere dei veri professionisti. Mi viene in mente Vajont di Paolini messo in scena più di vent’anni fa davanti alla diga e trasmesso in diretta sulla RAI con duemila spettatori in presenza e milioni di telespettatori catturati davanti allo schermo. Non molti attori professionisti ci riescono. E credo che non molti docenti, con tutta la loro buona volontà, ci riuscirebbero.
In generale: l’esperienza della didattica a distanza vi ha insegnato qualcosa di cui tener conto anche in futuro?
Di sicuro che si possono usare molto meglio le piattaforme per i materiali da mettere a disposizione, per brevi interventi registrati (pillole), per coinvolgere gli studenti in presentazioni di libri, con la possibilità di invitare colleghi senza dover preoccuparsi del rimborso spese, alberghi ecc. cioè della terribile burocrazia amministrativa delle università che riesce a trasformare cose semplici in pratiche estenuanti e complicati. Si possono organizzare ricevimenti a distanza facendo risparmiare tempo a studenti e docenti, evitando inutili spostamenti ecc. Così come si possono organizzare momenti di lavoro con i colleghi per parlare di programmazioni e attività interdisciplinari. Anche queste cose fanno parte della didattica e sono fondamentali.
Dopo questa esperienza che cos’è, secondo voi, oggi una lezione?
Più strumenti ci sono a disposizione meglio è, ma non cambia il senso della lezione, che dovrebbe essere un momento di formazione motivante e di scambio dialogico, non certo e non solo una puntata di un programma televisivo di divulgazione.
Francesca Rigotti
Due premesse: in primo luogo insegno in una università straniera dove l’insegnamento a distanza è stato proposto in forme plurime; in secondo luogo, non uso Microsoft ma preferisco programmi open format; per questo il non servirmi di Microsoft Teams rappresenta per me un grosso problema, e questo ha determinato nel mio caso l’adozione delle forme alternative di insegnamento a distanza tra quelle che ci venivano proposte. Aggiungo infine che nel tenere le lezioni non in presenza mi è sembrato di tradire il mandato di insegnamento universitario, e se l’ho fatto è perché sono stata sottoposta al ricatto che tutti ben conosciamo.
La pandemia è stata affrontata facendo ricorso alle piattaforme digitali. Questo ha reso il tema della cosiddetta “fatica digitale” (digital fatigue) più che mai attuale. Il ritorno alla normalità eliminerà il problema o ne cambierà solo i termini? Come pensate che occorrerà affrontarlo?
Per il momento (giugno 2021) non vedo «ritorni alla normalità»; vedo qualche allentamento nella riduzione dei diritti civili che dominano le strategie antipandemiche ma non mi faccio grandi illusioni per quanto riguarda la continuazione dell’esercizio del potere di controllo e di limitazioni della libertà da parte dei governanti, e del corrispondente atteggiamento, da parte dei governati, di gioiosa sottomissione e obbedienza: il che mi fa molta più paura della pandemia stessa. Della fatica digitale vedo all’opera l’alienazione – in senso molto marxiano –, nonché l’approfittarsi della situazione per risparmiare denari da parte delle organizzazioni di eventi culturali, presentazioni di libri, convegni etc., bellamente sostituiti dai loro sostituti a distanza; vedo proposte di forme «miste», di cui non dubito che finiranno per prevalere, di cui è difficile valutare la portata finché si rimane costretti a farlo.
Uno degli aspetti meno considerati della didattica a distanza è la scarsa cura del modo in cui i docenti si presentano davanti allo schermo (inquadratura dal sotto in su, sgradevoli contrasti di luce, sfondi casuali). Ritenete che sarà necessario intervenire, o la fine dell’emergenza renderà tutto questo superfluo?
A questo avevo pensato, devo dire, perché da anni mi interrogo su come presentarmi agli studenti, considerando che sono una donna, non ho una potente ed efficace voce da basso etc. E poi ho sempre presenti le parole di Machiavelli quando racconta che per conversare con i classici si mette «panni reali e curiali». Si parva licet, ho sempre cercato a lezione di presentarmi in maniera degna del ruolo di docente, di libera docente quale sono. Dunque ho scelto, anche per questo motivo, l’offerta dell’università di registrare le lezioni in una delle aule attrezzate per questo scopo, da inserire nella piattaforma accessibile agli studenti; ho registrato dunque senza studenti e davanti ai banchi vuoti, ma in aula, dalla cattedra, parlando in piedi come ho sempre fatto. L’ho fatto a pacchetti, per non dover sopportare controlli ogni volta che mi recavo in Svizzera, dalla Germania o dall’Italia. Il vantaggio era la qualità tecnica altissima della lezione, con le slides che mi scorrevano alle spalle, quando le usavo, e altrimenti la mia, spero dignitosa, presenza. Ho potuto notare che spesso nell’esame (che ho svolto anche questo, come sempre, in forma scritta e, come da prescrizioni/imposizioni antipandemia e procopiatura, online) studenti e studentesse hanno spesso scritto: «come abbiamo visto in aula», o «come abbiamo detto a lezione» come se lì in quei banchi vuoti fossero seduti di persona. Mi è sembrato un buon segno.
Nel rapporto con gli studenti e studentesse come avete scelto di procedere con le telecamere: lasciando libertà di accenderla oppure no? Avete riscontrato una differenza nel modo in cui la “classe” ha partecipato e c’è stata una differenza tra la partecipazione degli studenti e quella delle studentesse?
A questa domanda non posso rispondere.
Quali vantaggi, se ci sono stati, avete riscontrato con studenti cosiddetti non-frequentanti? C’è stata una maggior presenza di studenti o studentesse lavoratrici?
Nelle università svizzere o tedesche non è prevista questa divisione; gli studenti devono essere frequentanti, non è ammesso presentarsi solo agli esami. Chi non può frequentare per motivi di lavoro, di salute o altro non ha uno statuto diverso da chi frequenta. L’esame è uguale per tutti e ogni studente è tenuto a conoscere quanto è stato spiegato a lezione, che fosse o no presente. Deve giusto trovare qualche sistema per riuscire a partecipare a quei corsi o parti di corso, seminari, atelier o altro che sono, per scelta del docente, obbligatori.
La funzione didattica è, a vostro parere, solamente trasmissione vocale e immagine, oppure entrano in gioco altri fattori sensoriali e percettivi legati alla presenza fisica?
La risposta mi pare talmente scontata...Non insegniamo e apprendiamo certo soltanto tramite vista e udito ma con tutto il corpo: con l’odorato, anche con il tatto e il gusto. In-segniamo e veniamo in-segnati sia con i sensi cosiddetti bassi e minori sia con i sensi cosiddetti alti e maggiori. E poi nell’aula si producono infinite interazioni tra le persone presenti e anche con gli eventi esterni che agiscono sulla memoria. Da noi ci sono grandi finestre che danno sul cortile interno e sui prati esterni, e assicuro che anche all’università quel che accade fuori dalla finestra, se piove o c’è il sole, o una signora porta a spasso quattro cagnolini al guinzaglio, suscita grande attrazione.
Diversi atenei incoraggiano una didattica mista, ossia in presenza e insieme in ‘live-streaming’. I vantaggi sono il numero in aumento degli iscritti, quali sono secondo voi gli svantaggi?
Citerei un altro vantaggio, per chi studia, quello di poter saltare una lezione senza grandi problemi, sapendo di poterla recuperare in seguito; o addirittura di non venire mai e non pagare per es. una camera da studente o i biglietti dei viaggi. Ma è un vantaggio? O non vuol dire che si spegne la vita universitaria, che non sarà il campus americano perché non lo è, ma è pur sempre quel periodo unico della vita in cui si esce dalla tutela genitoriale e si vive a contatto con i pari, molto più che nella scuola, perché si è maggiorenni e responsabili? Non vuol dire che ci si rattrappisce davanti allo schermo, non si fanno battute, non si soffre insieme, non ci si diverte insieme, non si conoscono ragazzi e ragazze con cui far l’amore... Ma che tristezza, che squallore.
In generale: l’esperienza della didattica a distanza vi ha insegnato qualcosa di cui tener conto anche in futuro?
A me ha insegnato che l’obbedienza incondizionata non porta lontano. Che dobbiamo rivedere in quanto docenti le condizioni di insegnamento e non farci imporre modalità che snaturano il senso dell’insegnare. Che avremmo dovuto dire subito che non siamo stati assunti per questo lavoro ma per avere il corpo studente davanti a noi in quanto corpo, cui presentare il nostro corpo di insegnante.
Dopo questa esperienza che cos’è, secondo voi, oggi una lezione?
Forse quel che scrivo suonerà patetico, se non ridicolo. Ma io ho in grande considerazione la lezione quale nucleo centrale dell’insegnamento. Forse perché raggiungere la libera docenza, in un paese straniero, la Germania, in una lingua appresa tardi, il tedesco, con quattro bambini, è stato un lavoro considerevole, e ciò che ci fa soffrire lo si ama di più. Così che quando giurai nelle mani del Rettore della Georgia-Augusta, l’Università di Göttingen, di dedicare la mia vita lavorativa alla Forschung und Lehre, alla ricerca e all’insegnamento, si trattò per me di un impegno solenne che ho sempre cercato di mantenere. Per questo vorrei che la lezione continui a essere il nucleo della didattica, e che si mantenga la dignità e l’impegno della lezione stessa, preparata e offerta nel modo migliore di cui si sia capaci. Una lezione vera e non virtuale, anche se integrata, come io faccio da decenni, con slides, links, collegamenti di colleghi e esperti all’estero (abbiamo comunicato da remoto con un esponente della primavera di Tunisi, con una deputata del Parlamento europeo e con molti altri) persino musica. Perché no: già che abbiamo questa meravigliosa possibilità, usiamola, ma in dignità e libertà.
Maria Pia Pozzato
La pandemia è stata affrontata facendo ricorso alle piattaforme digitali. Questo ha reso il tema della cosiddetta “fatica digitale” (digital fatigue) più che mai attuale. Il ritorno alla normalità eliminerà il problema o ne cambierà solo i termini? Come pensate che occorrerà affrontarlo?
Sono andata in pensione a fine maggio quindi non affronterò il prossimo anno accademico ma mi sono fatta l’dea che non si tornerà indietro del tutto perché molti studenti hanno seguito i miei corsi a distanza, a volte dalle più remote regioni (Russia, Africa...) e questa è stata per loro una grande opportunità. Quindi ho ragione di credere che d’ora in avanti la didattica sarà per sempre “mista”, con la possibilità cioè di seguire le lezioni anche da remoto, cosa che facilita gli studenti fuori regione, gli studenti lavoratori e chi semplicemente un determinato giorno preferisce seguire da casa per i più vari motivi.
Uno degli aspetti meno considerati della didattica a distanza è la scarsa cura del modo in cui i docenti si presentano davanti allo schermo (inquadratura dal sotto in su, sgradevoli contrasti di luce, sfondi casuali). Ritenete che sarà necessario intervenire, o la fine dell’emergenza renderà tutto questo superfluo?
Francamente l’aspetto estetico mi sembra secondario mentre invece vanno assolutamente potenziate le possibilità di interazione. Quando si hanno piccoli gruppi, si lavora molto bene; quando invece si hanno classi numerose, il rischio della passivizzazione totale dell’uditorio è molto alto.
Nel rapporto con gli studenti e studentesse come avete scelto di procedere con le telecamere: lasciando libertà di accenderla oppure no? Avete riscontrato una differenza nel modo in cui la “classe” ha partecipato e c’è stata una differenza tra la partecipazione degli studenti e quella delle studentesse?
Non ho riscontrato differenze di genere. Non so cosa direbbero gli studenti, ma per me l’esperienza della DAD è stata complessivamente positiva. Le telecamere dovevano rimanere spente altrimenti il sistema (Teams) non reggeva. Ho scelto di dare fiducia agli studenti, all’Università devono capire che si sta fornendo loro un servizio (che pagano) e quindi, se fanno finta di collegarsi alla lezione e fanno altro, hanno pagato per qualcosa che non hanno avuto. Credo che questo punto, che è una questione di maturità, vada costantemente chiarito con gli studenti, all’inizio di ogni corso.
Quali vantaggi, se ci sono stati, avete riscontrato con studenti cosiddetti non-frequentanti? C’è stata una maggior presenza di studenti o studentesse lavoratrici?
La situazione pandemica falsava questa situazione, molti studenti lavoratori lavoravano da casa, quindi non si può prevedere cosa succederà una volta ritornati alla normalità. Comunque sì, molti sono stati contenti di non dover pagare un costoso appartamento in città, o di non dover chiedere permessi per seguire la didattica. La didattica in presenza, questa è solo una mia opinione, temo diventerà un plus piuttosto elitario.
La funzione didattica è, a vostro parere, solamente trasmissione vocale e immagine, oppure entrano in gioco altri fattori sensoriali e percettivi legati alla presenza fisica?
Sicuramente la compresenza fra persone è molto importante, ma il nostro stile di vita è ormai talmente smaterializzato, così tante delle nostre relazioni sociali viaggiano su dispositivi, che anche l’insegnamento a distanza diventa solo uno dei tanti casi in cui ci si sente/vede solo su uno schermo. Solo pochi anni fa la cosa sarebbe stata drammatica, oggi meno.
Diversi atenei incoraggiano una didattica mista, ossia in presenza e insieme in ‘live-streaming’. I vantaggi sono il numero in aumento degli iscritti, quali sono secondo voi gli svantaggi?
Nessuno, penso che non si tolga nulla a chi è in aula e si dia la possibilità a chi non può frequentare di seguire lezioni che altrimenti perderebbe. C’è da dire che le poche lezioni che ho tenuto in modalità mista hanno molto penalizzato quelli che seguivano da casa ma credo che si possa migliorare questo aspetto livello tecnico.
In generale: l’esperienza della didattica a distanza vi ha insegnato qualcosa di cui tener conto anche in futuro?
Come ho detto all’inizio, non farò didattica negli anni a venire ma credo che ci siano meccanismi adattativi per cui il/la bravo/a docente, con l’esperienza, corso dopo corso, impara a interagire a distanza. Rispetto ai primi corsi nel 2020, nel 2021 ho riscontrato un maggior agio, mio e degli studenti: abbiamo fatto addirittura un laboratorio sulla gestualità in cui una trainer di teatro ci faceva interagire e improvvisare movimenti a coppie. Bellissimo, e forse con meno inibizioni che se fossimo stati in presenza. Tutto si può fare, sempre che ci sia l’interesse e la capacità di suscitarlo.
Dopo questa esperienza che cos’è, secondo voi, oggi una lezione?
Un incontro, esattamente come prima. Ed esattamente come prima, l’incontro avviene se c’è la volontà reciproca di realizzarlo.
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