Uomini in armi. I dannati di Roberto Minervini
In un non-luogo dell’Ovest americano, dalle parti del Montana, anno 1862, in piena guerra di Secessione, un drappello di volontari arruolatisi nell’esercito degli Stati Uniti va verso Occidente in ricognizione. Perlustrano, vigilano, presidiano una porzione di quel paesaggio edenico e al contempo selvaggio. Siamo in presenza della materializzazione visiva del Destino manifesto su cui si fonda la costruzione dell’Impero americano, la missione di espandersi, di far propria la terra altrui, portando con sé libertà, democrazia, emancipazione. Un paradosso!
I trenta minuti iniziali del nuovo film di Roberto Minervini, presentato nella sezione Un Certain Regard dell'ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la miglior regia, stabiliscono un tempo, uno sguardo e un ascolto, un ritmo. Un incipit quieto, domestico, rassicurante, preceduto da un altrettanto quieto pasto dei lupi, affratellati dalla fame e dalla legge della sopravvivenza.
Quel primo arco narrativo, apparentemente senza eventi, statico e molto silenzioso, brulica tuttavia di azioni, gesti, preannunci. Come se l’autore si prendesse e ci desse il tempo di avvicinarci ai suoi uomini attraverso i loro silenzi, il loro modo di stare nello spazio, di entrare in contatto gli uni con gli altri, con i loro cavalli, le cose, la natura, il clima, il vivente e l’inerte, il cielo, l’erba, il vento, le armi, il cibo, il fuoco, la luce, il buio, le ombre, i suoni e i versi notturni degli animali, i fantasmi che ad essi si accompagnano non appena l’incendio del sole cede il passo alle tenebre. È un universo misteriosamente intimo, materno, che molto ha a che vedere con la materialità dei corpi e la loro cura. Un mestiere da uomini, quello della guerra, virato con tenerezza verso il campo semantico dell’accudimento, della reciprocità, dell’attenzione. Il tempo è scandito dall’orologio delle piccole necessità, delle incombenze quotidiane: montare la tenda, cacciare, accendere il fuoco, cucinare, apparecchiare, preparare il caffè, fumare, attendere, guardare, giocare a carte, fare due tiri di boxe, pescare, lasciar correre il pensiero, immaginare, fantasticare, sperare, dominare la paura, aspettare…
Siamo en plein air, in uno scenario sontuoso fotografato con straordinari effetti di luce e una sorta di magica tridimensionalità. L’atmosfera tuttavia non è quella eroica, mitica e avventurosa dei vecchi western o dei film di guerra. In scena, qui, c’è la mite capacità di essere al proprio posto in una società di uguali diversi, di pari. Il setting è quello della vulnerabilità: questi uomini, soli insieme, sanno che il patto che li lega è quello della mutua dipendenza. Si dipende dai compagni d’armi, dal proprio animale, dalla clemenza del clima, dalla distrazione del nemico, dalla propria familiarità con le armi. Ecco perché lo spettatore è invitato con quieta fermezza a puntare lo sguardo sulle nuvole che si muovono alte nel cielo non meno che sui mulinelli che l’acqua crea nei ruscelli. E, soprattutto, sui gesti delle mani attorno alle armi, oggetto feticcio da pulire, montare, smontare, quasi accarezzare – non perché daranno la morte, ma perché salveranno la vita.
Al mestiere delle armi questi soldati sono arrivati per vie diverse, per fede, per amore di patria, per convinzione, perché ‘l’esercito ha bisogno di uomini e gli uomini hanno bisogno di un salario per vivere’. Sotto indagine, tuttavia, c’è molto di più. Innanzitutto quei loro corpi così estranei al territorio che attraversano, così evidentemente venuti da altrove, bianchi, biondi, rossi, lentigginosi, diversamente idonei ad adattarsi a una terra che offre, promette e toglie. L’autore li guarda, spesso di spalle come se li seguisse, poi da molto vicino, in primi piani ravvicinatissimi, mai indiscreti, amorosi. Li guarda, invitando noi a guardare insieme a lui quegli uomini che per l’intero film avranno come compito diegetico proprio quello di scrutare, di guardare meglio, più lontano, più in alto, e infine più dentro di sé. Per capire, non solo per afferrare con lo sguardo.
Poi, al trentesimo minuto, I dannati si spacca in due. Per una sequenza che dura esattamente dieci minuti gli uomini cui abbiamo imparato a dare un volto e un accenno di storia personale e sociale, a riconoscere un’anima e un movente profondo, sono catapultati in quella che sarebbe improprio definire una battaglia o un’imboscata. In una dilatazione temporale fortissima dell’azione, il film inscena il disorientamento, non il coraggio o la volitività, bensì il caos, il non sapere dove si celi il pericolo, come difendersene, alla lettera dove mirare. È come un’esplosione, stilizzatissima, astratta, virata al grigio e all’azzurro, i colori del cielo, non al rosso sangue. E i corpi degli uomini, spaesati, fuori da qualsiasi gerarchia militare, ma tra loro tolstoianamente coesi, cercano riparo tra gli alberi di una foresta-fondale, negli incavi della terra, come se a essa volessero tornare. Sparano senza puntare, corrono, sparano ancora. Il respiro del film si altera, prende a sbattere come una vela in preda a un vento che aggroviglia, tende, spezza.
Quindi tutto si acquieta e si torna alla stasi, all’attesa. Il film rientra nell’alveo della quest, dell’andare in cerca, il tempo mite e incostante del dubitare, dell’interrogare, del fare ipotesi che contengono la propria negazione. Il drappello di uomini riprende ad avanzare dimidiandosi sempre più, gemmando gruppi sempre più piccoli destinati a fare strada agli altri, ad andare in avanscoperta nel silenzio altissimo dell’inverno. Il battito cardiaco del film – il montaggio sensibile di Marie-Hélène Dozo, la musica-pulsazione di Carlos Alfonso Corral, anche direttore della fotografia – torna a una specie di equilibrio. Da qui in avanti, fino alla chiusa del film, saremo in compagnia di un canto ostinato.
A essere in discussione, oltre al teorema muscolare della guerra cui Hollywood ci ha educate/i e alla nozione di maschilità che a esso si accompagna, è proprio l’idea di uomo, di maschio della specie umana. C’è, verso la conclusione del film, un dialogo tra due soldati, un quarantenne e un sedicenne, rimasti soli ad attendere in un campo intermedio. “Come si fa a diventare uomini?” chiede il più giovane. E l’altro, fasciandogli le dita assiderate dei piedi con una delicatezza che rende desueto ogni binarismo di genere: “Quando ti si scioglie il cuore e perdoni te stesso e gli altri”. Una faccenda del corpo e del cuore, una questione di affetti. Il potere non c’entra. Se lo dicono al buio, sotto una tenda, in una caverna di oscurità illuminata dalla fiamma vacillante del fuoco, quasi sussurrando. Quei loro pensieri e le parole che li esprimono nascono da un lavoro profondo tra Roberto Minervini e i suoi attori. Il ‘copione’ non nasce da fuori, ma dal dentro di una relazione. In questo film è l’autorialità stessa a essere interrogata. Da dove nascono quei pensieri emozionati che sul piano stilistico si traducono in poesia? Di chi è la parola che sana? Come ci si lascia raggiungere dalla pace se non interrogandosi su ciò che confligge dentro ognuna/o di noi? E se il nemico non fosse una presenza reale, bensì una proiezione fantasmatica delle nostre paure, la nostra indelebile ombra?
In un panorama mediatico saturo di immagini che parlano ossessivamente del dolore degli altri e della nostra imperturbabile cecità, Roberto Minervini e la sua squadra ci ricordano che per vedere bisogna andare abbastanza vicino da riuscire a guardare non solo con gli occhi. C’entra lo spazio – il tra che unisce che mette in relazione – e c’entra il tempo, elemento scardinante se lo si restituisce alla sua commossa circolarità. L’uno e l’altro, insieme, creano una camera d’ascolto, una modalità transitiva. La meraviglia assoluta di un film che non ti strappa ai tuoi pensieri e alle tue percezioni, che non ti incalza, che non ti impone il ritmo prepotente di un dispositivo che detta i termini della ricezione. I dannati è un’opera che si pone dalla parte della realtà – non del documentario o della fiction – proprio della realtà: mai lineare, mai conclusa, sempre aperta, in attesa, in divenire, specifica ma non locale. Raccontarla non può che essere un fatto collettivo, un’impresa di gruppo che prevede una tensione politica fortissima e l’ammissione che la storia non si ripete, ma non ha capolinea.