Venezia 81/1. Spettri in laguna
Di che si può parlare a Venezia quando il sistema di prenotazione dei biglietti funziona senza intoppi, i divi sono tornati sul red carpet e la nuova presidenza della Biennale in quota meloniana ha confermato per altri due anni la direzione artistica ormai “storica” (in tutti i sensi: è il mandato più lungo di sempre) di Alberto Barbera? Non sarebbe la situazione ideale per parlare finalmente dei film?
E invece sono proprio i film a mancare, in questi primi giorni di Mostra. Salvo occasionali eccezioni di cui si dirà e in attesa dei titoli sulla carta più forti (fra gli altri, Joker: Folie à Deux di Todd Phillips, sequel del film premiato con il massimo riconoscimento nel 2019; Queer di Luca Guadagnino; The Room Next Door di Pedro Almodóvar, al primo lungometraggio in lingua inglese; Youth (Homecoming) di Wang Bing, che tiene alta la quota “cinema del reale”), il concorso è finora scivolato via piuttosto piattamente, tra gradevolezze (la ronde vagamente rohmeriano-alleniana di Emmanuel Mouret con il suo Trois amies) ed efferatezze (Babygirl, di Halina Reijn, tentativo abbastanza cafone di resuscitare l’erotic thriller anni Ottanta, forte di una produzione “cool” come quella di A24 e di una Nicole Kidman da oltre un decennio in cerca di un ritorno ai fasti di fine anni Novanta).
Sarà vero che – come sembrano insinuare voci udite qua e là dentro e fuori le sale – l’annata non è stata generosa, con pochi film prodotti e conseguente scarso raccolto festivaliero? Potrebbe essere questa la ragione che ha spinto la Mostra a inaugurare la sottosezione Fuori Concorso – Series: quattro serie televisive complete – M, il figlio del secolo di Joe Wright, The New Years di Rodrigo Sorogoyen, Families Like Ours di Thomas Vinterberg e Disclaimer di Alfonso Cuarón, già Leone d’oro nel 2018 con Roma – con durate che oltrepassano ampiamente le cinque ore, spalmate lungo più giornate. La sottosezione, che Barbera definisce “un esperimento”, ripropone il vetusto e un po’ noioso quesito: serie TV o film lunghi? Qui alla Mostra sembrano propendere per la seconda definizione, fidando ovviamente sull’“effetto firma” dei registi coinvolti. Cuarón, il primo a fare la sua comparsa al Lido, ha rivendicato la continuità fra la serie (prodotta da Apple e prevista per i prossimi ottobre-novembre) e il proprio modo di fare cinema, portandosi dietro il fidato Emmanuel Lubetzki per la fotografia (qui affiancato da Bruno Delbonnel) e ingaggiando un cast di tutto rispetto: Cate Blanchett, Sacha Baron Cohen, Kevin Kline. Peccato che il risultato finale, con i suoi 329 minuti complessivi, malgrado i richiami all’attualità (il rapporto fra pubblico e privato, i pregiudizi antifemminili, il rapporto fra verità e finzione), appaia davvero troppo debitore ai più usurati espedienti del mélo: più che un film lungo, un lungo feuilleton a puntate, e nemmeno dei più freschi.
In questo panorama un po’ spettrale, il film del concorso che ha polarizzato le opinioni di critici e cinefili presenti al lido è Maria di Pedro Larraín, ormai ospite fisso della kermesse veneziana, che chiude – per stessa ammissione del regista – la trilogia di film dedicata alle figure femminili iconiche del XX secolo, iniziata proprio al Lido nel 2016 con Jackie, forse l’episodio migliore del polittico. Sceneggiato come il precedente Spencer (2021) da Steven Knight, Maria mette in scena un’altra storia di fantasmi, stavolta ambientata negli ultimi sette giorni di vita della “Divina” Callas. E fantasmatica è a tutti gli effetti la Callas di Angelina Jolie, che, in spregio a ogni somiglianza fisica, sembra mettersi totalmente al servizio della Diva per antonomasia, non solo con il proprio volto e il proprio corpo, ma anche e soprattutto con tutta la dolorosa consapevolezza di che cosa significa essere una star venerata in tutto il pianeta.
Sopravvissuta a se stessa e al proprio mito, reclusa per sua volontà in una casa-museo che è anche una casa-mausoleo, Callas/Jolie è un’apparizione impossibile da afferrare. Filtrata attraverso mille immagini, tra autentici filmati di repertorio e falsi reperti d’epoca, come al solito ricreati con fanatica precisione da Larraín grazie all’apporto del sempre straordinario Ed Lachman, rimane a tutti gli effetti un’icona (sacra, come dimostra l’Ave Maria verdiana nell’ouverture del film) che resiste a qualsiasi oltraggio, irraggiungibile e irreplicabile (“Non potevo replicare me stessa”, spiega, quasi a giustificare la mancata maternità). Un’apparizione in un mondo di spettri: perché tale è la realtà in cui si muove la protagonista, la mente ottenebrata dai farmaci che assume in grande quantità. “Ciò che è reale e ciò che non lo è, è affar mio”, dichiara a un certo punto in una intervista (immaginaria, manco a dirlo); e ancora: “Il palco è nella mia testa”, dice, immaginandosi ancora una volta davanti alle luci della ribalta, mentre il Trocadero e il vestibolo dell’Opera di Parigi si trasformano istantaneamente nei set di un musical dei tempi d’oro, sulle arie di Verdi (Trovatore) e Puccini (Madama Butterfly). La dimensione operistica e la divisione in atti trasformano l’anti-biopic di Maria in una sorta di anomalo film-opera, esattamente come Jackie era (anche) un melodramma politico con inserti da documentario televisivo e tocchi musicali à la Broadway, e Spencer un racconto gotico dagli echi kubrickiani (Shining). In questo senso, uno dei momenti chiave del film è il confronto (a distanza) con Marilyn, altra diva consumata e distrutta da un pubblico sempre famelico d’icone, oltreché rivale di quella Jackie Kennedy che di lì a poco sottrarrà alla protagonista l’adorato Onassis: se al compleanno di JFK si esibisce il corpo senza voce di Marilyn, Callas è ormai una voce senza più corpo.
Maria ha in sé il meglio e il peggio di Larrain. Oppure, giusto per andar di paradossi: il peggio al suo meglio (dialoghi sentenziosi e aforistici, estetizzazione vintage del passato, la mescolanza di sublime e triviale) e il meglio al suo peggio (la direzione degli interpreti: se Jolie, con tutta la buona volontà, riesce solo in parte a restituire la carica magnetica della “Divina” Maria, va anche peggio con le figure di secondo piano, affidate ai nostri attori più esportati, Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher).
Di fantasmi (fantasmi della Storia e del nostro passato recente) parla anche, in certa misura, Gianni Amelio, primo italiano del concorso e altro habitué della Mostra (il suo Signore delle formiche ha debuttato proprio qui al Lido due anni fa). Campo di battaglia, in uscita nei prossimi giorni (5 settembre) e ambientato durante l'ultimo anno della Grande guerra, è un film bellico dove la guerra incombe ovunque ma non si vede mai, in gran parte girato nelle retrovie, al chiuso, fra le stanze di un ospedale da campo prima e quelle ancor più anguste di un sanatorio poi. Un film su ciò che non si vede, insomma: come del resto non si vedono i bacilli patogeni responsabili dell'influenza spagnola che ammazza più di quanto già non faccia l'assurda smania omicida dei molti ufficiali imbevuti del patriottismo più fanatico e ottuso.
Uno di questi è Giulio (Gabriel Montesi), medico militare che si è fatto un punto d'onore di scovare e consegnare al plotone d'esecuzione tutti quei soldati che, nel tentativo di evitare la prima linea, si procurano da sé lesioni tali da ottenere il ricovero e l'esonero dai combattimenti. Gli si contrappone Stefano (Alessandro Borghi), microbiologo dotato ma imbelle, una sorta di Cristo laico o di idiota dostoevskijano, che segretamente fa in modo di aggravare le ferite dei soldati in modo da evitargli la morte sicura in trincea. Un personaggio che, a voler parafrasare Goethe, continuamente vuole il bene, ma che continuamente è costretto ad operare il male, accecando o amputando: perché così è la guerra, il tempo della morte, dal quale non può venire fuori altro che il male.
Dietro la veste del romanzo storico, Amelio gioca come si vede la carta della parabola (con una punta di romance attraverso la presenza di Federica Rosellini/Anna, medica estremamente dotata ma costretta dal pregiudizio maschile a lavorare come infermiera, contesa fra i due protagonisti), utilizzando il passato remoto per parlare del passato recente (l'influenza spagnola allude in modo trasparente alla pandemia da COVID-19) e del presente (i numerosi fronti di guerra tutt'ora aperti un po' ovunque nel mondo). Lo stile, come negli ultimi film, è improntato a un quieto rigore formale a metà fra il Rossellini televisivo e il cinema dei Taviani degli anni Ottanta, nel tentativo di riacchiappare un certo tipo di racconto nazionalpopolare d'antan, con passaggi narrativi sempre sull'orlo del didascalismo e personaggi fortemente caratterizzati.
Malgrado l'incrollabile fede pacifista, nutrita di un umanitarismo di stampo cristiano, ciò che manca ad Amelio è forse una maggiore incisività, il coraggio di proporre una propria, radicale visione del film di guerra, appoggiandosi talvolta troppo allo stereotipo (le caratterizzazioni dei soldati, l'utilizzo immancabile del dialetto) o all'oleografico (le scene in esterni, gli interni borghesi), e confidando eccessivamente nei propri interpreti, tutti bravi (a cominciare da un Borghi sorprendente malgrado l'improbabile cadenza veneta), ma non al punto tale da prendere saldamente in mano il film, che infatti rimane un po' lì, sospeso fra la rievocazione e la denuncia.
Volendo chiudere nel segno della spettralità, merita d’essere segnalato, nelle Giornate degli autori, The Sanatorium Under the Sign of the Hourglass dei pluripremiati gemelli britannici Stephen e Timothy Quay, che tornano alla misura del lungometraggio dopo quasi vent’anni di lavori brevi, con un’opera tratta dal grande Bruno Schulz (1892-1942), del quale avevano già rielaborato, con molta libertà, il racconto La via dei coccodrilli con il cortometraggio Street of Crocodiles (1986). Stavolta il testo di partenza è fornito da Il sanatorio all’insegna della clessidra (1937), una delle opere più celebri dello scrittore e disegnatore ebreo polacco, già portata sul grande schermo nel 1973 da Wojciech J. Has, uno dei maestri del cinema fantastico, in un lungometraggio live action.
Nei titoli di testa, i Quay tengono a precisare di essersi serviti del libro di Schulz per alcuni “motivi e temi”, traendo nel contempo ispirazione da altri testi e disegni (nel film trova spazio l’immaginario grottescamente feticista delle incisioni raccolte nel Libro idolatrico). Il film è comunque una creazione del tutto autonoma, che mescola animazione in stop-motion e attori in carne e ossa. Come tutti i film della coppia, Sanatorium evoca più che raccontare, suggerisce più che spiegare: nelle prime scene del film, un imbonitore di strada si impossessa di una sorta di Mondo Niovo, leggendaria macchina pre-cinematografica, in cui però è curiosamente incastonata la retina di un occhio umano che proietta nell’apparecchio (secondo una nota credenza pseudoscientifica del XVIII secolo) gli ultimi sette momenti vissuti dal proprietario dell’occhio appena prima di morire. Inizia così il viaggio in una sorta di oltretomba perennemente al buio, abitato da larve in sonno e demoni dispettosi; un aldilà che ricorda molto una sala cinematografica, in cui si sogna tutti insieme (“Qui dormono tutti”, dice uno dei personaggi, “d’altronde è sempre notte qui”), oppure si spia un po’ ovunque, attraverso gli oculi del Mondo Niovo come per il buco della serratura. Fantasmi che guardano altri fantasmi di nascosto: il cinema, sembrano dire i due gemelli registi, forse è tutto qui.