Virginia Woolf e Bloomsbury a Palazzo Altemps
A Palazzo Altemps ci sono arrivata di corsa, in una di quelle domeniche d’ottobre romane che fa caldo come a luglio. Per una somma di ragioni il mio tempo per vedere e raccontare la mostra si era ristretto a una manciata di giorni, dopo avrei avuto un lungo periodo di altro. Quindi era la mia ultima occasione.
In ritardo rispetto all’ultimo orario di entrata col fiatone, quasi spinta dentro, le braccia lungo i fianchi, una borsa in una mano una giacca nell’altra mi sono trovata subito davanti a lei.
Lei come tutti la conosciamo creata nel nostro immaginario da sempre. Lei, nella foto vintage, col viso fine, il capo leggermente chino il volto a tre quarti, i capelli raccolti, il naso diritto, la bocca perfetta con gli angoli che scendono verso il basso e quell’abito bianco di pizzo antico che immediatamente tira il filo fino a Ofelia nell’acqua.
Virginia come tutto il mondo dopo di lei l’ha conosciuta.
Tutta l’immagine della Woolf racchiusa in un ritrattino 10 x 15 scattato da Charles Beresford.
Tanto misura quella foto in cui la gigantessa sta tutta dentro.
E quella foto subito lì, all’entrata della mostra, scende Virginia dal mito e la porta nella Stanza.
Nessun posto sarebbe stato più adatto delle grandi camere del piano nobile, dove un tempo vivevano i coniugi Altemps per srotolare in cinque tappe la mostra dedicata a Virginia Woolf e Bloomsbury. Un periodo ristretto della vita della scrittrice. Pochi anni, forse il suo periodo più felice, quello dove è sempre sabato leopardiano, quello prima del successo, dell’angoscia per il successo, del ritorno della depressione, delle morti ravvicinante di molti amici, delle due guerre.
Bloomsbury è il nome di un quartiere, una zona di Londra che agli inizi del novecento non è particolarmente ricercata ed elegante. Il contrario di Kensington dove Vanessa, Virginia, Adrian e Thoby, i quattro giovani fratelli Stephen, hanno vissuto fino a poco prima. Ma rimasti orfani anche del padre, sir Leslie Stephen, la casa di Kensington non serve più.
Nel 1904 i quattro Stephens traslocano al 46 di Gordon Square in una casa che è tutto il contrario di quella dove sono cresciuti. Quartiere popolare, finestre altissime, che si affacciano sulla piazza, luce, molta luce, vita che passa sotto di loro, ma soprattutto stanze, tantissime stanze.
È vicina a King’s Cross che collega Londra a Cambridge dove studiano i fratelli Adrian e Thoby ma soprattutto equidistante e vicina alla British Library, al British Museum e alla Slade School of Fine Arts.
Per i giovani Stephen il centro del mondo.
La scelta la fa Vanessa, la maggiore dei quattro, tra le due sorelle la più pragmatica anche se la meno talentuosa, ma àncora di peso per Virginia per tutta la sua vita: Vanessa “sorella e vice-madre, Vanessa sempre la maggiore, Vanessa a cui tutti facevano sempre capo, soprattutto Virginia” come racconta Nadia Fusini, curatrice della mostra, nello splendido catalogo Electa, consigliatissimo, da leggere come un libro e poi conservare tra i cataloghi d’arte.
Vanessa e Virginia non avevano una stanza singola nella casa paterna. Non studiavano a Cambridge, erano donne.
È quella per Virginia la prima stanza of one’s own. La stanza tutta per sé. E la prima copertina del saggio più famoso della Woolf, A room of one’s own, pubblicato nel 1929, sta proprio lì accanto a lei, nella prima tappa/stanza del palazzo. L’illustrazione di cui Virginia era entusiasta è di Vanessa: sullo sfondo grigio rosa, tre cubi e un orologio in alto, con due lancette che segnano le 11.05. Non un’ora qualunque, un’ora che si scrive V. V di Virginia, V di Vanessa.
È in questo piccolo libro, tratto da una conferenza a Cambridge in cui, già famosa, le chiedono di parlare delle donne e il romanzo: (“Cercherò di riprodurre davanti a voi, nella maniera più completa e più libera possibile, il processo mentale che mi ha condotto a un simile risultato.”) si pone la domanda perché sono così poche le donne scrittrici? Perché gli scrittori sono quasi tutti uomini? E ci fornisce la risposta. Una sentenza dura da cui si srotolerà il pensiero femminista della Woolf: “Perché una donna per scrivere deve avere del denaro e una stanza tutta per sé”.
A Bloomsbury ci sono stanze per tutti.
Nella sua, Virginia ha la sua scrivania, una specie di leggio davanti al quale scriveva in piedi, come Vanessa nella sua in piedi dipingeva. Virginia frequenta un corso sui miti greci al Morley College, Vanessa l’Accademia.
Una casa dove ognuna poteva dedicarsi alla sua arte, dove si beveva caffè e non solo tè, dove le sorelle avevano la libertà di andare a vedere concerti, mostre, rappresentazioni e dove a un certo punto cominciano ad arrivare gli amici dei fratelli da Cambridge.
L’appuntamento è per il giovedì sera. E la casa di Bloomsbury diventa il centro di una comunità che in una manciata di mesi stravolge ogni tradizione dell’epoca vittoriana.
Uomini e donne insieme nel grande salone del primo piano, bicchieri di whisky lasciati in giro, anelli di fumo. Una festa di menti prima che di corpi che suscita l’orrore nei parenti, che sentono da lontano l’eco del grido di libertà.
Un luogo che in pochi mesi diventa il centro della nuova Londra anti-Vittoriana dove si ritrovano le menti più brillanti.
C’è Clive Bell futuro critico d’arte e futuro marito (infelice) di Vanessa, che introduce al gruppo Roger Fry storico dell’arte, colui che portò a Londra per la prima volta Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Picasso, Manet, Matisse, Derain accolti da una folla inferocita che si sentiva oltraggiata da una pittura infantile o folle. Eppure le tele resistettero anche agli sputi e furono il primo shock post-impressionista per i vittoriani britannici.
E con Fry a Bloomsbury compaiono pittori, letterati, la quintessenza di Cambridge e il poeta Yeats.
E poi c’è Leonard Woolf, atipico ebreo londinese, scrittore, che con Virginia condividerà tutta la vita, il cognome, l’amore, i libri.
Li descrive bene, tutti questi personaggi centrali o tangenti a Bloomsbury, la seconda stanza, che prende il nome da un verso shakespeariano di Le pene di amor perduto “Society is the happiness of Life, stare insieme è la felicità”. La comunità che protegge, che non lascia mai soli, con cui condividere quello che fuori pare bizzarro, e irriverente.
A Bloomsbury viene spazzato via ogni conformismo sociale ed egoismo borghese. Ci si ritrova per il gusto di stare insieme, piacersi, amarsi, parlare di tutto, dell’anima, della bellezza, del sesso, scrivere, dipingere, fare l’amore.
Ritratti e autoritratti riempiono la seconda stanza. Roger Fry ritratto da Vanessa, Clive Bell da Fry, Fry da se stesso.
La terza stanza ricostruisce la storia della Hogarth Press la casa editrice che Virginia e Leonard decidono di fondare insieme nel 1917, dopo aver visto una macchina da stampa in vendita in un negozio. Fermi entrambi davanti alla vetrina, “come due bambini davanti a una pasticceria” scrive Fusini, con la stessa idea che li attraversa contemporaneamente. Ora, oltre che scrittori sono anche editori, artigiani della pubblicazione, stampano, impacchettano, spediscono.
La quarta e la quinta stanza sono dedicate a Roger Fry che ha fatto scoprire al suo paese la grande pittura francese moderna, e al suo atelier Omega Workshops, che per sei anni sotto la direzione di Vanessa Bell e Duncan Grant porta nella moda e nel design tutte le suggestioni della pittura post-impressionista francese.
Ma intanto la guerra ha già disperso i Bloomsburies, “come la nebbia al sole” scrive Virginia. Chi ucciso, chi emigrato, chi a lavorare nei ministeri.
Leonard viene esonerato dal servizio militare per un tremore alle mani, e per la moglie malata, perché Virginia entra ed esce dalla depressione.
Il mondo nuovo affacciato su Gordon Square non esiste più. Al suo posto dopo la guerra si ricostruiranno intrecci e relazioni ma non più come society.
Virginia e Leonard risiedono tra Londra e il Sussex. Virginia, vive, scrive, ama. Tutto instancabilmente. È del 1922 l’incontro con Vita Sackville-West. Tra il 1922 e il 1932 pubblica tutte le sue più grandi opere: La stanza di Jacob, (di nuovo una stanza), Mrs Dalloway, Gita al Faro, Orlando, Una stanza tutta per sé, Le onde. Senza contare la costante stesura del Diario.
Ma tutto parte da Bloomsbury. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza Society is the happiness of life. Senza gli incontri, senza Fry, senza i post impressionisti francesi. Se è vero, come riassume bene Nadia Fusini, che se Virginia Woolf scrive quello che scrive è perché vede Cezanne, e vede Cezanne grazie a Roger Fry.
Quasi quarant’anni dopo è disfatta da un lavoro continuo e incessante che si chiama vita, di cui la scrittura è il fulcro, che la strema a disfarle i nervi.
Fino alla mattina del 28 marzo 1941, quando non ce la fa più, quando teme che la depressione torni a prendersela, quando sente di “aver perso ogni controllo delle parole” e allora si alza, prende il suo bastone e cammina fino alle acque dell’Ouse.
E a pensarla da sola di fronte alla corrente diritta non si può smettere di chiedersi se le cose sarebbero andate diversamente se attorno a lei ancora ci fosse stato Bloomsbury.
Virginia Woolf e Bloombury. Inventing life. A Palazzo Altemps fino al 12 febbraio. Un progetto del Museo Nazionale Romano e della casa editrice Electa, in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra.
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Nell'immagine di copertina, Paul Nash, Musical Group (Madge Lee (nubile Pemberton), John Nash, Rupert Lee, Margaret Nash (nubile Odeh), Paul Nash), 1913 ca, acquarello e matita su carta, 44,8 x 51,4 cm, National Portrait Gallery, Londra, dono del Paul Nash Trust, 1982 © National Portrait Gallery, London.