Alice in Wonderland, 26 novembre 1865 / Vita cinematografica di una Finta Tartaruga
“Have you seen the Mock Turtle, yet?”. “No”, said Alice. “I don’t even know what a Mock Turtle is”. “It’s the thing Mock Turtle Soup is made from”, said the Queen.
Con queste parole, nel nono capitolo di Alice nel paese delle meraviglie, Lewis Carroll introduce la Mock Turtle, la Finta Tartaruga, uno dei personaggi più affascinanti ed enigmatici del libro.
Poche righe più avanti, Alice, scortata dal Grifone, viene condotta in spiaggia al cospetto della Finta Tartaruga, creatura sofferente e perennemente in lacrime, che promette di raccontarle la sua storia. “Una volta ero una vera tartaruga”, comincia, per poi rimanere immobile e silenziosa per interi minuti. Il racconto riprende con una cronaca nonsense della sua infanzia alla scuola del mare, dove si insegnano materie come annaspare e contorcersi, e le diverse operazioni dell’aritmetica: ambizione, distrazione, bruttificazione e derisione. Nel capitolo successivo, il decimo, la Finta Tartaruga e il Grifone si infervorano nel descrivere il loro gioco preferito, la quadriglia delle aragoste, un ballo in spiaggia che coinvolge foche, salmoni e tartarughe intenti a inseguire aragoste lanciate in mare.
Infine, tornata seria e nuovamente in lacrime, la Finta Tartaruga si congeda da Alice intonando la canzone Beautiful Soup (storpiatura della poesia Star of the Evening di James M. Sayles), incentrata sulla gioia di mangiare la zuppa.
Agli occhi del lettore contemporaneo il personaggio appare piuttosto astratto e fumoso. A cominciare dal nome, basato su un gioco di parole ormai datato, oltre che intraducibile. La “finta zuppa di tartaruga” (mock turtle soup) era infatti un celebre piatto dell’Età Vittoriana, una variante a base di frattaglie di vitello della ben più pregiata zuppa di tartaruga verde: Carroll gioca quindi sulla posizione dell’aggettivo mock (finto, falso), che può riferirsi tanto alla zuppa quanto alla tartaruga stessa. Il carattere del personaggio, invece, con la sua autoindulgenza masochista, lacrimosa e compiaciuta, rappresentava nelle intenzioni dell’autore i piagnistei degli accademici dell’epoca, sempre intenti a vantare i più astrusi titoli di studio e a glorificare nostalgicamente i vecchi tempi, in cui studiavano materie dall’utilità discutibile spacciandole per valori assoluti.
A rendere ulteriormente ostica la fruizione del personaggio è la particolare difficoltà dei suoi giochi di parole. Per esempio, raccontando della scuola del mare, la Finta Tartaruga narra che il suo maestro era una tartaruga, ma loro la chiamavano testuggine “perché insegnava”: nell’originale, Carroll giocava sui termini tortoise (testuggine) e taught us (“ci insegnava”), che in inglese si pronunciano quasi allo stesso modo.
I due capitoli in questione sospendono la trama principale del libro, che si avvia a conclusione con il processo di Alice, e possono anche essere visti come un momento di metanarrazione, in cui Carroll propone una lettura nascosta del testo e al contempo mette a nudo la sua tecnica di scrittura. Da un lato, attraverso la Finta Tartaruga, che ci viene presentata dalla Regina come la narratrice di una vicenda altamente drammatica e invece si perde in un’aneddotica senza scopo, l’autore gioca con le nostre aspettative di lettori; dall’altro ci ricorda che Alice è soprattutto un libro sul mondo degli adulti, con i loro vezzi, burocratismi, arroganze, bassezze, moralismi e ipocrisie, incomprensibili a una bambina. Come spiega il Grifone, gli atteggiamenti della regina e della Finta Tartaruga non sono che manie prive di sostanza: la Regina non ha mai realmente fatto giustiziare nessuno e la Finta Tartaruga si strugge in continuazione pur non avendo alcuna ragione credibile per soffrire.
Anche da questo punto di vista la Finta Tartaruga è ambivalente, poiché se da una parte, come tutti i personaggi del libro, tratta Alice con sufficienza e arroganza, mortificando le sue obiezioni dettate dal buonsenso, dall’altra dimostra un lato infantile e giocoso, mettendo da parte all’occorrenza il cipiglio lamentoso e lasciandosi andare alle danze insieme alla protagonista. Anzi, secondo alcuni studiosi, fra tutti i personaggi del libro la Tartaruga e il Grifone sono per la protagonista quanto di più vicino esista a degli amici.
Con i suoi tratti enigmatici e grotteschi, i silenzi improvvisi e i bruschi cambi d’umore, la Finta Tartaruga ha finito per ispirare nel tempo un improbabile culto sotterraneo. Pur rimanendo sconosciuta ai più, ha trasceso le intenzioni satiriche dell’autore per trasformarsi, agli occhi di molti, in una sorta di strana allegoria della condizione umana. La Finta Tartaruga siamo noi, ogni volta che ci lasciamo prendere da quell’eterno rimpianto verso ciò che siamo stati e che saremmo potuti diventare, da quell’autoindulgenza che ci spinge a rivangare continuamente il passato invece di pensare al futuro.
Ad aggiungere ulteriore complessità al personaggio c’è poi la questione dell’aspetto che avrebbe dovuto assumere. Da subito, infatti, Carroll concepì Alice come un romanzo illustrato che delegasse totalmente alle immagini la descrizione dei personaggi, tanto da corredare il manoscritto originale, intitolato Alice’s Adventures in Underground (1864), con alcuni bozzetti di suo pugno. In questi disegni troviamo una creatura simile a una talpa con l’armatura, molto lontana da quella che comparirà nella prima edizione del libro, uscita il 26 novembre 1865 con il titolo definitivo Alice's Adventures in Wonderland. Fu Carroll in persona a chiedere la collaborazione di uno dei più celebri illustratori dell’epoca, John Tenniel: il quale, messo davanti alla difficoltà di dare corpo a un personaggio che era di fatto un puro bisticcio linguistico, ebbe la geniale intuizione di attingere agli ingredienti della zuppa che non contiene carne di tartaruga ma parti di scarto del vitello fra cui la testa, la coda e le zampe.
Fu proprio l’illustrazione di Tenniel, che ritrae questo incredibile ibrido fra una tartaruga e un vitello ritto su due zampe su uno scoglio, con la testa volta verso il cielo, le pinne inerti a penzoloni e lo sguardo rigato di lacrime perso nell’infinito, a conferire alla creatura una statura nobile e drammatica, che mal si accorda allo sconclusionato racconto che fa di se stessa.
Carroll doveva probabilmente essere consapevole della tensione che veniva a crearsi fra testo e immagini: nelle sue intenzioni, il libro doveva parlare sia agli adulti, in grado di smascherare i personaggi, sia ai bambini, che li prendono alla lettera. D’altra parte, il principale equivoco su Alice in Wonderland risiede proprio nel fatto che sia universalmente conosciuto come ricchissimo di fantastiche suggestioni visive, laddove in realtà il testo è pressoché privo di descrizioni e incentrato principalmente sul linguaggio, tanto da far ragionevolmente pensare che la sua fama universale si debba a Tenniel non meno che a Carroll.
In effetti, l’iconografia stabilita da Tenniel si è imposta con tale forza nell’immaginario collettivo che pochissimi, tra i numerosi illustratori o registi che hanno avuto a che fare con Alice, hanno osato distaccarsene. Dall’Ottocento a oggi, delle centinaia di illustrazioni che ritraggono la Finta Tartaruga la maggior parte ne riprende la caratterizzazione visiva, l’approccio empatico e persino lo scoglio come scranno da cui pontificare.
Per ammorbidire il personaggio, decisamente troppo inquietante, qualcuno opta per dargli la testa di un vitellino appena nato, qualcun altro la ritrae mentre balla la quadriglia, mentre solo una manciata di loro, tra cui Salvador Dalí, la disegna come una semplice tartaruga.
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Tra le tante interpretazioni spicca quella del 1916 di Margaret Tarrant, che prende alla lettera Carroll rappresentando il personaggio come un vitello con pinne intrappolato in una pentola: curiosamente, la sua edizione illustrata è l’unica che mostri in copertina Alice in compagnia della Finta Tartaruga e del Grifone.
Di grande impatto è anche l’illustrazione in stile Liberty realizzata una quindicina d’anni prima (1899) da Blanche McManus, in cui per una volta è un geometrico Grifone a rubare la scena, anche se è notevole il dettaglio della Nostra con in mano una maschera da tartaruga.
Segnaliamo infine una bella illustrazione di Tove Jansson, celeberrima creatrice dei Moomin, che nel 1959 la ritrae con un collo da giraffa, e un’inattesa incursione nel mondo dei supereroi, all’interno della serie antologica Astro City di Kurt Busiek, Brent Eric Anderson e Alex Ross, che nel 1999 ospita un pittoresco supercriminale chiamato appunto Mock Turtle.
Il cinema scopre abbastanza presto l’esistenza della Finta Tartaruga, che compare per la prima volta nell’Alice in Wonderland del 1915, diretto da W.W. Young, mentre era assente negli adattamenti del 1903 e del 1910. Il film riproduce come un tableau vivant l’illustrazione di Tenniel, mettendo al centro dell’inquadratura la tartaruga, immobile sulla roccia, interpretata da un attore in costume e intenta simulare il canto agitando pigramente le pinne. Secondo una prassi oggi sconcertante ma del tutto consueta nel cinema delle origini, la Finta Tartaruga incomincia a gesticolare mentre Alice è ancora lontana e sta esplorando la spiaggia, con il risultato che l’infelice animale ci appare più solo e disperato che mai.
Nel 1931 la Finta Tartaruga parla per la prima volta nell’Alice in Wonderland di Bud Pollard, ma il risultato è disastroso: il film è statico, sciatto, mal recitato. Come in molte opere dei primi anni del cinema sonoro, gli attori si muovono appena per non ostacolare i microfoni. In uno dei più clamorosi esempi di miscasting e di character design sbagliato di sempre, è interpretata da un attore grassoccio e inespressivo, tale Gus Alexander, dotato di un costume approssimativo e di strane macchie sul volto, che invece di piangere emette dei versi e pronuncia le battute scandendole in maniera irritante. Il rapporto della Finta Tartaruga con il cinema inizia a incrinarsi.
Nel 1933 esce invece il kolossal della Paramount Alice in Wonderland, diretto senza troppi guizzi da Norman Z. McLeod, ma interpretato da un cast di grandi attori e caratteristi, tra cui Gary Cooper (il Cavaliere Bianco), W.C. Fields (Humpty Dumpty), Edward Everett Horton (il Cappellaio Matto), May Robson (la Regina Rossa) e Charlie Ruggles (la Lepre Marzolina), arricchito da grandi costumi e scenografie adeguate, seppur teatrali. A far la parte del leone è proprio la Finta Tartaruga, interpretata da un Cary Grant non ancora sulla cresta dell’onda, interamente nascosto da una magnifica corazza ma in grado di sbizzarrirsi in una memorabile performance vocale. E finalmente anche l’ultimo tassello della personalità della Finta Tartaruga va al suo posto: il tono di voce di Grant, tra il comico e il piagnucolante, con tanto di rochi vagiti per riprendere fiato, donano una nuova sfumatura al personaggio, una comicità grottesca che lo rende forse ancora più perturbante, anche perché l’istrionismo vocale si scontra con la fissità del mascherone dagli occhi strabuzzati che Grant è costretto ad indossare. Qualche anno dopo, ormai affermato, il divo ironizzerà sul suo personaggio più weird in La signora del venerdì (1940) di Howard Hawks, arringando un altro personaggio con un memorabile: “Get back in there, you Mock Turtle!”.
Verso la fine degli anni Quaranta, il geniale animatore e produttore britannico Lou Bunin progetta una sua Alice prodotta tra Francia e Inghilterra e girata con tecnica mista, con attori in carne ed ossa e pupazzi animati a passo uno, che nelle sue intenzioni deve essere anche una satira della famiglia reale britannica e dei politici a lui contemporanei. Purtroppo, a sua insaputa, la Disney sta già lavorando alla propria versione animata e tenta tramite gli avvocati di fermarne la lavorazione. Il film esce nel 1949, diretto da Dallas Bower, ma ha una circolazione limitata negli Stati Uniti proprio a causa del boicottaggio della Disney, mentre nel Regno Unito viene bloccato dal governo per via del trattamento poco rispettoso riservato a Sua Maestà. In pratica quasi nessuno l’ha visto, ed è un gran peccato perché, nonostante gli evidenti limiti tecnici, tra cui la scarsa interazione tra personaggi animati e attori e un montaggio un po’ legnoso, il film ha un grande character design, finalmente libero dalla pesante eredità di Tenniel, e un’ottima e morbida animazione.
Ancora una volta, è proprio la Finta Tartaruga a giganteggiare: guscio di tartaruga e testa di vitello, con una bizzarra lanugine da pecora in testa, labbra carnose e giganteschi occhi roteanti arrossati dal pianto, stavolta dotata anche di un gesticolare plateale e melodrammatico, terribilmente espressivo. Il personaggio non ha più niente di comico, tutti i giochi di parole vengono tagliati, resta solo il lato tragico e grottesco, memorabile. Per motivi sconosciuti (forse perché i tratti somatici della Finta Tartaruga possono ricordare quelli di un comico blackface, oggi inaccettabile), nella maggior parte delle versioni circolanti la scena risulta mancante mentre è presente in una versione di bassa qualità reperibile in rete.
Quando finalmente nel 1951 esce Alice in Wonderland della Disney, la Finta Tartaruga viene omessa, benché esista una grande quantità di bellissimi bozzetti di prova del personaggio ad opera dei più grandi artisti dello studio, tra cui Mary Blair, Bill Peet e David Hall.
La Disney utilizzerà comunque il personaggio, con due diversi character design ad altezza di bambino, in uno spot televisivo del 1956 che pubblicizza il dolce Jell-O e, una ventina d’anni più tardi, in un fumetto sulla rivista Disneyland Magazine. In quest’ultima avventura, la creatura trova una nuova ragione di vita innaffiando i fiori della Regina di Cuori con le sue lacrime, una volta tanto provvidenziali.
Espunta per sempre dall’immaginario collettivo dallo strapotere disneyano, com’era già accaduto a diversi personaggi di Pinocchio, la Finta Tartaruga continuerà tuttavia a fare diverse apparizioni negli anni successivi, spesso lasciando il segno.
Nel brechtiano Alice in Wonderland di Jonathan Miller (1966), che rinuncia a costumi, fantasmagorie e colori per riportare il testo al mood originario voluto da Carroll e basato sui dialoghi, il personaggio è interpretato da un controllatissimo John Gielgud, che lo colora di inedite sfumature camp, accentuandone lo snobismo alienato ma certo non la tragicità.
Ancora di produzione inglese è Alice's Adventures in Wonderland (1972) di William Sterling, dominato da Peter Sellers nel ruolo della Lepre Marzolina, in cui la tartaruga, interpretata da un ben truccato Michael Hordern, sfoggia un inedito look con baffetti e ritrova ancora una volta la sua natura saccente e scorbutica, prima di lasciarsi andare a un’interminabile scena di canto e danza.
Nel 1985, in una riduzione televisiva piuttosto pacchiana diretta da Harry Harris, la Finta Tartaruga è interpretata addirittura da uno spaesato Ringo Starr, che ne fa un’innocua macchietta canterina e danzante che diventa uno scult immediato.
Ma è sempre nel 1985 che la reietta creatura ibrida si prende un’indimenticabile quanto inattesa rivincita. In Dreamchild di Gavin Millar, originale benché non del tutto riuscito biopic sulla vecchiaia di Alice Liddell Hargreaves (1852-1934), la bambina su cui Carroll modellò Alice, sono proprio la Finta Tartaruga e il Grifone ad aprire il film, all’interno di una potente sequenza onirica in cui l’ormai anziana protagonista si trova nuovamente al loro cospetto. Gli animatronic dei due personaggi, realizzati dal Jim Henson del Muppet Show e di Labyrinth, hanno un aspetto quasi horror, più bestiali che mai; e la Finta Tartaruga, nonostante sia privata di quei contrasti di tono che avevano reso memorabili altre incarnazioni, è di notevole impatto visivo: spelacchiata, mezza guercia e sgraziata, dai movimenti stizziti e rancorosi.
Quattordici anni più tardi, nel 1999, il Jim Henson Creature Shop, ormai orfano del suo fondatore, torna sui due personaggi in occasione dell’Alice in Wonderland televisivo di Nick Willing. Stavolta, però, solo il Grifone è un animatronic: l’edulcorata e fin troppo gentile Finta Tartaruga è interpretata da un divertito Gene Wilder.
Già nel 1988, però, era uscito uno dei migliori film su Alice in assoluto: Neco z Alenky (distribuito in Italia come Alice, o, più letteralmente, Qualcosa di Alice), diretto dall’autarchico surrealista ceco Jan Švankmajer, che rilegge il personaggio secondo una sensibilità del tutto personale. Il suo film è un incubo visionario girato artigianalmente in tecnica mista, con azione dal vivo e animazione a passo uno: pochissimo parlato, ignora Tenniel e tradisce Carroll, creando un universo in cui il fantastico scaturisce da cassetti, calzini, bottoni e cadaveri di animali. Stavolta la Finta Tartaruga si intravede per pochi secondi, in mezzo a una squadra di scheletri di animali sguinzagliati contro la protagonista dal Coniglio Bianco, in una sequenza difficile da dimenticare.
Nel nuovo millennio la Finta Tartaruga dirada le apparizioni. Tuttavia, se nel deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton fa solo un cameo in un quadro appeso alla parete, trova un inatteso picco di popolarità in un videogioco della Electronic Arts, Alice Madness (2000) e nel suo seguito Alice Madness Returns (2011), in cui è uno dei personaggi secondari che affidano alla protagonista missioni da compiere. Mentre nel primo gioco il look segaligno del personaggio, simile a un minotauro col guscio, non è troppo convincente, undici anni dopo, grazie a un ottimo restyling, troviamo un’eccellente tartaruga, corpulenta e macrocefala, con tanto di occhi malinconici, pipa e feluca da ammiraglio.
Tirando un po’ le somme del nostro discorso, possiamo dire che la rappresentazione della Finta Tartaruga nella cultura pop sembra tutta già inscritta nel paradosso di base da cui scaturisce: creatura contraddittoria, dalle più anime inconciliabili, non ha mai trovato una sintesi definitiva che ne scolpisse i connotati fisici e psicologici nell’immaginario collettivo. Ma anche questo fa parte del suo fascino mitopoietico, il rinascere ogni volta incompleta, diversa e sorprendente, carrolliana o tennielliana o lontana da entrambi, un Giano Bifronte forse inafferrabile.
Che futuro possiamo quindi aspettarci per la nostra creatura, troppo spaventosa per i bambini, troppo sfaccettata per i blockbuster, perturbante per chiunque? Ci piace immaginare un’ipotetica Finta Tartaruga animata a passo uno da Henry Selick, una “interpretata” dalla mucca Clarabella in un cartoon tradizionale con il cast Disney al gran completo, una a fumetti in una grande avventura assieme ai grandi freak del fantastico, come l’asino di pezza di Winnie Pooh, il Tonno di Pinocchio, lo Spaventapasseri e le scimmie alate del Mago di Oz.
Le possibilità sono infinite. La Regina di cuori in fondo si sbagliava: la Finta Tartaruga non è solo “quella cosa con cui si fa la zuppa di finta tartaruga”. Come tutte le grandi invenzione fantastiche, è della materia – pardon, la zuppa – di cui sono fatti i sogni.