Speciale
15 tesi su un oggetto misterioso chiamato compassione
Provengo per nascita da una cultura nella quale l’apostrofare qualcuno con mischinu (povero, e per i bambini mischineddu, poveretto) si dà come segno di premura e di affetto. È difficile non avvertire un rifiuto tanto più energico quanto più immediato di fronte a espressioni di una simile solidarietà. C’è là qualcosa di una suadente prepotenza che schiaccia verso il basso chi venga avvolto nella loro rete. Una frase come mischinu, mi nd'est partu mali (poveraccio, mi ha fatto una brutta impressione) fa parte del corredo di frasi fatte a cui certi modi di vita appaiono indissolubilmente intrecciati. Vi si esprime un sordo senso di pretesa superiorità morale che parla nella migliore delle ipotesi di un disprezzo per gli altri. Forse è anche per questo motivo che mi interessa scoprire se la compassione non celi al suo interno qualcos’altro: qualcosa che non si ha, né si fa, ma neppure viene esercitato, come si trattasse di una capacità personale.
Inizierei proprio da qui: la compassione non la posso. Però a volte c’è. Non la posso, però a volte c’è. È là, senza che niente l’abbia chiamata, senza che una sensibilità più acuta del solito le abbia preparato la strada. Non è molto per cominciare, però è tutto quello che so su questo tema su cui doppiozero per voce di Anna mi sollecita.
È difficile cominciare, ci sono spesso cose così, vitali ma fragili. Siamo colti dal timore che cedano sotto il peso delle nostre parole. Difficile compito dell’equilibrio a cui siamo richiamati. Non troppo, né troppo poco.
La compassione stessa la immagino come una voce, anche quando niente o nessuno parli. Una voce che può essere fatta anche di solo silenzio, ma di un silenzio forte abbastanza da farsi sentire.
Com’è venuta, può anche eclissarsi. Così non ce n’è sempre, di compassione. Né si dà quando crediamo ci sarebbe potuta essere. Viene lungo una via tutta sua, fatta di intermittenze. In questo modo ci segnala lo sporgere delle nostre esistenze al di fuori di sé, nonostante tutte le difese e le certezze.
Eppure questa parola per certi versi così fuori moda – che ha avuto critici feroci e loschi difensori – sembra attendere (in buona compagnia di una nutrita schiera di sorelle) di essere pensata al di là da qualsiasi riferimento personale. Attende di essere colta cioè come tutt’altro che non la mia, tua o sua compassione. Mi sembra che sia il riferimento personale ad aver reso la parola ostentatamente edificante oppure semplice frutto dell’immaginazione di chi nella compassione cerchi la lode altrui per la propria conclamata capacità di compatire il mondo o quanto meno una discolpa morale per la propria inerzia.
Si potrebbe anche dire che la compassione, se c’è, non riguarda uno: uno che prova compassione o uno per cui si prova compassione. Se c’è identificazione, c’è commiserazione, cioè alla fine apprezzamento nella forma del disprezzo. Evidentemente qui qualcosa va perduto della compassione come domanda.
Andrei Tarkovs, Stalker
Riuscire a declinare la compassione come irriducibile alla mia o alla nostra compassione, così come a una compassione che sarebbe provata da qualcuno per qualcun altro, resta indubbiamente un percorso arduo. Se essa è la sporgenza che spesso confusamente avvertiamo come ciò che distende le nostre vite verso una radice comune non solo agli uomini, ma anche agli altri esseri viventi e anche ai morti, è perché nel movimento di questa esposizione sentiamo qualcosa che ci tocca da vicino. È compassione davanti a una sventura e, perché no?, davanti a un’avventura che tocca tutti i viventi.
Da qui provo a elencare alcuni punti che mi sembrano irrinunciabili per il proseguimento di una riflessione sulla compassione.
1. La compassione è immotivata, resta senza perché, cioè ingiustificata e, spesso, ingiustificabile. Anche per questo non la si comanda. Tutt’al più comanda. Da qui la sua crudeltà: la si prova in determinate situazioni e non in altre che l’avrebbero meritata altrettanto. Un esempio: guardando di recente i video delle esecuzioni degli ostaggi da parte dei boia del sedicente Stato Islamico, qualcosa colpiva di un bambino che si vede nel video nell’atto di assistere a una di tali esecuzioni. La compassione andava a lui, piuttosto che ai decapitati. Perché mai? Benché si possano addurre ottimi e ragionevoli motivi, vi resta al fondo qualcosa di immotivato. Il suo enigma riguarda la sua stessa mancanza di un’equa distribuzione.
2. Provare compassione ci pone dalla parte dei vinti, degli sconfitti, per cui non c’è pietà, ma al più durezza e disprezzo. Ci vuole un coraggio tutto particolare a non lasciar cadere quella briciola di compassione che ora si forma in noi. Non di rado la accompagna l’angoscia che il contatto con la disgrazia altrui generi in noi una diminuzione delle nostre vite. E noi siamo – non lo dimentichiamo – dell’epoca di quel presidente d’America che un giorno disse: se non abbiamo successo, rischiamo di fallire. Ma quello che a molti commentatori era sembrato un calembour involontario, mostra essere invece il sintomo di tutta una cultura, che anche quando perde vuole continuare a vincere.
3. Niente compassione senza almeno un po’ di crudeltà, altrimenti non è che un’edificante carità di qualcuno per qualcun altro.
4. La compassione riguarda un’arte della distanza. Farne il surrogato della prossimità significa cedere alla suggestione di poter manipolare sé o altri, in ossequio a una pulsione di potere. Se esprime un’esigenza di giustizia, non è mai senza che sia accompagnata dal senso della propria inadeguatezza. Eppure può dirsi forte unicamente chi non ne possa eludere la domanda.
5. Se non c’è partecipazione alle vicende altrui, è perché manca una misura comune: restiamo consegnati a una differenza dalla quale sola può nascere un ascolto di ciò che accade.
6. La compassione riguarda quella che chiameremo “la vita impossibile”: non un sentimento possibile, tra i molti che si possano avvertire, ma uno degli infiniti movimenti che attraversano le nostre vite senza fine e che sono altrettanti affetti senza nome. C’è del resto una profonda ambiguità del verbo italiano “provare” a cui abitualmente si associa la compassione. Esso non si riferisce mai a un’attività senza implicare al contempo un riferimento essenziale e inaggirabile alla passività.
Andrei Tarkovs, Stalker
In questo senso la compassione:
7. mantiene qualcosa di dispari al suo interno, non pretendendo mai di pareggiare i conti della storia;
8. è per lo più inapparente;
9. non va cercata perché si troverebbe tutt’al più il malinteso di un’intesa. Un’intesa malintesa. Se la cerco, è in realtà un’armonia o, più esattamente, come oggi si dice di frequente: è una sintonia, quella che cerco. (Da questo punto di vista, se una politica della compassione è possibile, lo è solo nel senso di ciò che all’interno della politica resta irriducibile al gioco delle intenzioni.)
10. Se può esserci una politica della compassione, questa avrà la forma di una cospirazione. Avrà il volto di una sovversione non sospetta che si distende lungo quei fili inapparenti che la compassione tira attraverso gli intervalli di spazio e di tempo che abitiamo. Sarà una politica fatta dei respiri e delle passioni che condividiamo, mettendole in comune.
11. La compassione non ha un gesto solo suo: la si vive spesso solo facendo dell’altro. In questo si esprime il suo essere mischiata al mondo.
12. Non la si può reclamare. Non è un diritto. Né un dovere. Ecco perché, in maniera oggi sorda e inavvertita, c’è in lei qualcosa di liberatorio dal do ut des della sfera del diritto che contamina l’ambito delle relazioni che un tempo si sono dette “umane”.
13. La compassione non vuole nulla, tanto meno il bene. È piuttosto un’attenzione chiamata da ciò che c’è, per come si dà a vedere o, più semplicemente, a vivere.
14. Non c’è compassione a mettersi nei panni dell'altro. Essa non è forse altro che la luminosità inafferrabile che interviene sorprendentemente a rischiarare il tempo del dolore. Una tregua, al più. Perché si possa ricominciare a respirare.
15. È una nave di piccole dimensioni, per affrontare tutto ciò che c’è da affrontare. Una barchetta piuttosto fragile. Una cifra in bilico sulle onde, che si piega sotto la loro spinta. Eppure non c’è altro amore a cui dobbiamo forse imparare a giungere un giorno.
E ora nessuna tesi più, solo una citazione: “Debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà” (da Andrej Tarkovskij, Stalker).