Speciale
Acqua Angelica
Ho 55 anni. Ho trascorso i primi quindici con l'incubo dell'acqua dei cassoni. Faccio fatica a spiegare alle mie figlie adolescenti questa mia esperienza perché ormai i cassoni non esistono più e neanche i locali che li contenevano e che oggi sono diventati superattici o roofloft o semplicemente monolocali abusivi. Invero non è questo il solo ricordo che non riesco a condividere con loro; mi sentii morire quando vidi gli occhi allibiti di mia figlia quando le dissi di tirare la catena. Ci vollero una ventina di minuti per spiegarle cosa intendevo.
Ero bambino e ricordo il dramma della mancanza dell'acqua; normalmente il solerte portiere, si chiamava Spartaco, esponeva un cartello all'inizio della tromba delle scale in cui si annunciava che per alcune ore l'erogazione dell'acqua non sarebbe stata garantita, nella maggior parte delle occasioni per “lavori urgenti” all'impianto zonale. A quel punto in casa scattava l'allarme rosso ed era tutto un precipitarsi a riempire qualsiasi cosa potesse contenere acqua: chiaramente la vasca, poi il bidè e vari secchi di plastica “moplen”. Ci si preparava alla grande arsura, che invero non durava mai più di qualche ora, e tutta quell'acqua precauzionalmente accumulata non veniva mai usata. Subito dopo era necessaria l'ispezione al proprio cassone per controllarne il riempimento. Ed ecco il dramma. Normalmente i cassoni si trovavano in locali semioscuri di difficile accesso e di scarsa igiene. Mio fratello maggiore si divertiva un mondo a portarmi in cima al palazzo e, per spaventarmi, magari mi lasciava solo in quei locali inquietanti. Quindi io odiavo i cassoni.
L'acqua dei cassoni non era potabile; in ogni casa il lavello della cucina aveva due rubinetti: uno, con un flusso notevole, era quello dell'acqua dei cassoni, l'altro, poco più di un gocciolatoio, era l'acqua “corrente”, cioè potabile. Se conoscevi qualcuno che lavorava all'azienda dell'acqua potevi sperare in una erogazione un po’ più generosa, ma sempre insufficiente. Quindi l'approvvigionamento dell'acqua da bere , normalmente, si effettuava dalle fontanelle pubbliche, e ogni famiglia ne aveva una preferita.
La nostra si trovava nell'antico rione Borgo, più precisamente a Piazza delle vaschette. Questa piazzetta era fantastica, la fontanella si trovava sotto il livello del manto stradale e per raggiungerla bisognava scendere alcuni gradini, per lo più scivolosi per l'umidità presente. Io e mio padre ci presentavamo lì con un paio di piccole damigiane che io iniziavo a riempire, finché il peso diventava insopportabile per le mie capacità; poi ci pensava lui. Il rito prevedeva comunque il preventivo assaggio e la conseguente estasi, soprattutto da parte di mio padre. In effetti l'acqua era veramente buona e sempre fresca. Peccato che al'epoca si usassero dei bicchierini di plastica che si ripiegavano su se stessi e se non si faceva molta attenzione ci si bagnava senza riuscire a bere. Oggi si definirebbero bicchierini telescopici, all'epoca erano un vero incubo. L'acqua che sgorgava da quell'antica fontana era chiamata “acqua angelica” e si contendeva il primato di bontà con altre acque altrettanto blasonate che rispondevano a nomi come “acqua marcia” o “acqua di Trevi” o ancora “acqua vergine”, solo per citarne alcune.
Mentre riempivamo i nostri contenitori lo sguardo mi veniva rapito da quella strana piazzetta nel centro di Roma la cui caratteristica era quella di fregiarsi di dignitosi alberelli , donatori di ombra, che spuntavano non da zolle erbose ma tra gli interstizi di comuni sampietrini di porfido, come quelli che lastricavano la maggior parte delle vie romane. Ora quella piazza ospita la sede di una nota università privata, e all'ombra di quegli alberelli siedono, su belle panchine di nuova collocazione, gli studenti in attesa degli esami.
E ancora oggi la fontanella dell'acqua angelica disseta e rinfresca chi passa di là.