Alessandro Mendini: un drago in Triennale
Se la mostra che Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain dedicano ad Alessandro Mendini (1931 - 2019) non avesse già il titolo perfetto di Io sono un drago (desunto da un autoritratto del maestro), si potrebbe intitolare La joie de vivre, e non solamente per l'allegria che comunicano gli oggetti esposti, ma soprattutto per la festosità dell'allestimento, firmato da Pierre Charpin. Infatti, i colori sono autentiche “cartucce di dinamite” che esplodono nel grande spazio del ‘Cubo’, al primo piano del Palazzo dell’Arte, dove la rassegna è ospitata, complice la luce quasi zenitale che entra dalle grandi finestre progettate da Giovanni Muzio.
Ed è subito gioia.
Tuttavia, pur essendo una mostra festosa, fastosa e coloratissima, non è orfana della complessità che ha caratterizzato il pensiero dell’architetto milanese. Sicuramente a lui sarebbe piaciuta, a lui che sognava di disegnare come Walt Disney e pensava e scriveva come un filosofo esistenzialista. Così ha infatti dichiarato: “Cominciai scrivendo, e non disegnando, ad avere una mia coscienza del progetto”. Sarebbe piaciuta a lui che è stato capace di mettere in discussione tutte le regole del design e dell’architettura, intuendone, indicandone e professandone di nuove, dando il via alla paratassi di forme e colori governata dalla fantasia, dall’amore per la decorazione, dal kitsch e dal banale, insorta contro la rigida sintassi dei figli e dei figliastri del severo funzionalismo aniconico e dei sedicentisi tali. Un’architettura e un design, i suoi, nemici degli “stilisti […] carrozzieri dell’architettura fuori serie di linea italiana”; degli “utopisti-paternalisti”; dei “professionisti ad oltranza; e dei tecnocrati […] aridi agnostici burocrati di metodologie parascientifiche”, come ha dichiarato lui stesso, fin da quando, nel 1970, aveva assunto la direzione di Casabella. Da allora in poi il suo desiderio è sempre stato quello di creare “Oggetti, architetture e ambienti tesi ad oltrepassare i confini pratici, come fossero discreti sacerdoti dei movimenti e degli sguardi quotidiani”.
Dopo Dada, nulla nell’arte (e nel design) può più prescindere da Dada. E Mendini, colto, raffinato, al passo col suo tempo, lo sapeva molto bene e, nella creazione dei suoi oggetti, ha spesso fatto propria la tecnica del ready-made e quella duchampiana dei collages imprevedibili, senza rinunciare all’azzardo cromatico che ha caratterizzato l’ultimo Kandinskij, a cui ha tributato omaggio nel suo divano Kandissi (1978), e che l’allestimento della bella mostra milanese in alcuni punti acutamente riprende.
Il suo sottotitolo è La vera storia di Alessandro Mendini, e, come spiega il curatore, Fulvio Irace, essa affronta il tema della memoria tanto caro all’architetto milanese, che ha fatto di Proust il proprio mentore battezzando addirittura con il cognome dello scrittore francese la propria poltrona più famosa. E la Poltrona di Proust (1978), ‘sul crinale del kitsch al limite del sublime’ (leggi qui su Doppiozero), è la quintessenza di un repechage dada: una poltrona palesemente ‘finto rococò’, trasformata in oggetto unico da una livrea puntinista con toccature manufatte. Ma è dada anche l’esagerato accrescimento dei punti del Pointillisme (desunti da un quadro di Georges Seurat) che alla fine negano lo stesso assunto geometrico del punto e, quindi, del Pointillisme medesimo, avvicinandoli di più ai ‘pattern’ della Ragazza che corre sul balcone di Giacomo Balla.
Che la Poltrona di Proust sia il simulacro simbolico dello stesso Mendini è chiaro fin dai tempi di una sua dichiarazione: “L’oggetto che mi rappresenterà, nel bene o nel male, è la poltrona di Proust”, ha infatti affermato nel 2016, nel video Volevo essere Walt Disney.
Sono permeati dallo spirito di Dada anche gli Oggetti a uso spirituale degli anni settanta, esposti in mostra, quali la sedia Scivolavo (1973), con la seduta dal piano inclinato su cui non ci si può sedere; la Valigia per l’ultimo viaggio (1974), in marmo di Carrara, dinamicamente tombale; la Sedia di paglia (1974), lei per Gulliver, lillipuziani noi; la rivisitazione della sedia Zig Zag di Rietveld con croce apicale (1978); e altri progetti del periodo ‘radical’, in cui l’architetto-artista amava dar vita ad ‘oggetti banali’ (si ricorda qui il suo fondamentale testo del 1979 Per un’architettura banale.)
Nell’autoritratto datato 2006 che dà il titolo alla mostra, come scrive Irace in catalogo, “il disegno si può considerare una sintesi retrospettiva dell’acuta percezione di sé stesso, un accrochage di parti anatomiche corrispondenti a specifiche qualità: testa da designer, mani da artigiano, piedi da artista e gambe da grafico, coda da poeta, corpo da architetto, con l’ironica aggiunta di ‘petto da manager’ e ‘pancia da prete’. È un’immaginifica rappresentazione della sua molteplice attività creativa come sommatoria di parti secondo la logica dell’elenco che ritroviamo in tanti suoi scritti e in certe sue tipiche nenie vocali. Ma è anche la constatazione di come questa sommatoria si realizzi alla fine in una figura mitologica connotata tradizionalmente come selvaggia e malvagia.” Sebbene Mendini, ovviamente, non lo fosse. Tutt’al più avrebbe potuto essere affine al Drago Riluttante dell’amato Walt, con cui condivideva l’anima poetica.
Inoltre, nel definirsi io sono un drago, egli riprende una strofa della canzone di Gaber del 1961, La ballata del Cerutti: “Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago”. D’altra parte, anche il milanesissimo Gaber, così come il milanesissimo Mendini, non scherzava in fatto di anacoluti.
Come si legge nel comunicato stampa sulla mostra: “L'allestimento interpreta il concetto del ‘drago’ come accumulo di nuclei tematici che caratterizzano il ‘metodo Mendini’: un arcipelago di isole che rappresentano diversi momenti della storia e, allo stesso tempo, i fili del sottosuolo che permettono di dare una continuità sostanziale all'apparente diversità della sua incessante ricerca, fondata sulla propria esperienza umana.”
La vasta cultura artistica del ‘maestro dell’azzardo compositivo’ si è sviluppata fin da quand’era bambino, in quella casa di famiglia progettata dal Portaluppi, che è oggi la Casa-Museo Boschi Di Stefano, tra gli inestimabili capolavori dell’arte moderna, appartenenti alla collezione iniziata da suo nonno Francesco Di Stefano e continuata dai suoi zii, Marieda Di Stefano e Antonio Boschi, (se ne caldeggia una visita a chiunque, soprattutto a chi non la conosca). Il giovane Mendini è cresciuto in mezzo alle opere di Savinio, di De Chirico, di De Pisis, di Klimt, di Kokoschka, di Funi, di Sironi, di Casorati, di Arturo Martini, a quelle dei Futuristi e degli artisti di Corrente, a quelle dei Chiaristi e a quelle degli artisti della Scuola Romana; a quelle dei post cubisti, degli artisti Nucleari (fra strepitose ceramiche di Lucio Fontana) e degli artisti informali.
Così ne ha scritto lui stesso: "Sarà un pensiero di auto suggestione, ma ho il ricordo e la sensazione di essere nato in una Wunderkammer... Fu in quello spazio magico che vidi le prime cose."
E nella sua fervida, prorompente fantasia come non avrebbero potuto agire le suggestioni formali di cotali capolavori riuniti? Ecco, credo proprio che sia dall’averli percepiti come singoli sì (specialmente l’Annunciazione di Savinio che aveva nella camera in cui dormiva), ma soprattutto come ‘riuniti’ che siano nate quelle contaminazioni formali paratattiche che hanno connotato la sua opera come quella di nessun altro artista al mondo.
Ed anche in questo ha agito la memoria, proustianamente.
Araldo della rassegna allestita in Triennale è una gigantesca Poltrona di Proust, simulacro simbolico dello stesso Mendini, sovrastata dall’altrettanto gigantesca testa di Alessandro M., il cavatappi da lui progettato per Alessi, che dunque lo riproduce in effigie: e quale preludio avrebbe mai potuto essere più efficace di questo? Un Mendini al quadrato.
Chapeau, Charpin!
Alle volte un’immagine è più eloquente di mille parole.
Entrati nella mostra, ad accoglierci è un nucleo di sculture in formato fuori scala, rivestite da una preziosa livrea a mosaico con tessere in oro giallo 24K, tagliate e posate a mano. Si tratta di Giacca, Guanto, Scarpa, tutte create nel 1977 e facenti parte di una più ampia collezione dal titolo Mobili per uomo, realizzata in Limited Edition per Bisazza, “nate dalla riflessione dell’architetto secondo cui i pezzi rappresenterebbero simbolicamente quanto non può mancare in un essenziale guardaroba da uomo”, hanno scritto gli operatori di Bisazza. A quei pezzi storici, si aggiunge qui anche la scultura Stella del 2003.
Il loro gigantismo e il loro destino ‘intimo’, mi hanno richiamato subito alla mente l’opera di Magritte del 1952 Les valeurs personnelles. (Ah, i giochi della memoria, come ha ragione Mendini!) Qui, come nel quadro dell’artista belga la spropositata variazione di scala spaesa, disorienta, incuriosisce e affascina al contempo, introducendoci fin da subito nel fantastico universo mendiniano.
Fronteggia queste sculture la Petite Cathédrale, realizzata nel 2001 per la Fondation Cartier. Se si infila la testa nel vano del suo portale, come curiosità induce a fare, si scopre sulla parete di fondo della sua unica ‘navatella’ una testa realizzata a mosaico d’oro Bisazza e cristallo Swarovski (le Visage Arcaïque) che la occupa totalmente invadendola fino alla chiave di volta del tetto. Essa stabilisce un tête à tête segreto, ma esatto, con la Tête Géante (un poco picassiana, un poco alla De Stijl) situata all’altro capo del grande spazio in cui si dipana la mostra, alla quale somiglia per la comune forma ovale allungata, che tanto ricorda quella del volto del loro autore (come si evince guardando le immagini fotografiche di Mendini nell’istallazione che Philip Starck ha allestito nell’impluvium di Triennale, fino al 16 giugno 2024).
In mostra sono esposti moltissimi suoi disegni. D’altra parte, Mendini era un disegnatore infaticabile e, come ha dichiarato lui stesso in un'intervista, ha sempre amato sia il modo di disegnare di Saul Steinberg, che quello di Walt Disney:
“Il lavoro di Steinberg contiene il mio versante caustico, analitico e autoironico; riconoscevo nel suo disegno un’acutissima capacità critica, ma con l’abilità di un Picasso. Disney invece contiene il mio lato romantico, la mia immersione nel mondo della fantasia e la mia assoluta fascinazione per l’Espressionismo, dai due Goetheanum sui quali feci la mia tesi con Rogers, a Gaudí fino a Mendelsohn.”
Credo che un altro degli artisti cui Mendini ha fatto riferimento, soprattutto nei suoi disegni di interni, sia Raoul Dufy. Tanto per fare un esempio, si noti quale splendida sintonia cromatica e d’atmosfera intercorre tra il mendiniano Piccola stanza con scarabeo e una chiave caduta sul pavimento e Interno con finestra aperta di Dufy!
Visitare la mostra milanese può anche essere un bellissimo gioco alla caccia dei riferimenti artistici che frullavano nella testa del coltissimo (e pensoso) maestro.
E non è detto che si riesca a ‘beccarli’ tutti!
“La Piccola stanza con scarabeo” ha scritto poi Irace “è l'emblema del mistero della camera chiusa: la chiave caduta sul pavimento è la perduta via d’uscita da un universo concentrazionista, dove il decoro invade mobili, pavimento, soffitto e pareti senza soluzioni di continuità.”
In realtà, l’esposizione si snoda attorno a sei nuclei tematici: Identikit, La sindrome di Gulliver, Architetture; Fragilismi; Melanconia Radicale e Stanze.
Nella prima sono esposti gli autoritratti che Mendini ha realizzato nel tempo avvalendosi di tecniche diverse. La seconda presenta le sue creazioni fuori scala (di cui si è in parte già detto, con in più le miniaturizzazioni).
Nella sezione Architetture si possono invece ammirare dei suoi progetti, alcuni prodotti con il fratello Francesco, altri con Alchimia, tra i quali il Groninger Museum, il Mediazentrum Madsack di Hannover; le stazioni della Metropolitana di Napoli (Salvator Rosa e Materdei) e i suoi lavori più recenti in Corea del Sud, dallo Stadio Olimpico al quartiere Posco di Seul.
Come scrive Irace, nelle architetture “sulla progettazione prevale, letteralmente, la composizione, cioè la regia dell’assemblaggio di gruppo. Le architetture di ogni scala sono volumi froebeliani, accostati, sovrapposti, giustapposti e offerti infine alla sperimentazione degli artisti. Risultato di una comunità progettante, si sostengono sulla collaborazione tra personalità diverse, coniugata sia alla scala del design che a quella dell’edificio”.
In Fragilismi sono poi esposti i lavori di ricerca che hanno supportato la mostra Fragilisme, ideata da Mendini su invito della Fondation Cartier (2001) per evidenziare la fragilità della terra in questo nostro mondo dominato dalla violenza e sconvolto dalle guerre.
Nella sezione Melanconia Radicale sono raccolte le opere realizzate in quella stagione che ha caratterizzato l’iniziale ricerca artistica del maestro (e di cui si è in parte detto), quella dell’Architettura Radicale, della quale è stato il portavoce dalle pagine (e dalle famose copertine) della sua Casabella, prima e da Modo e Domus poi.
Seguono, quindi, le Stanze progettate da Mendini con oggetti della memoria: la Stanza del secolo, la Stanza banale, la Stanza filosofica, la Stanza da manuale, la Chambre à souvenir e Le mie prigioni.
“Con intenzioni diverse”, scrive Irace “a seconda della diversa temperie culturale, ogni stanza cerca di rappresentare i sedimenti dell’universo domestico: quasi un set fotografico, allestimenti che simulano un’inquietante still life. Dietro le vesti del paradosso, della sfrenatezza inventiva, della libertà dei segni e dei colori, si intuisce la malinconia e la rêverie congeniale alla breve durata dell’evento di cui solo la fotografia e il disegno conserveranno tracce.”
Quando Mendini progettava le sue tanto amate Stanze, nella testa gli frullavano e gli turbinavano ancora e ancora, come in un “mosaico di pezzi di vita”, le immagini delle stanze della sua infanzia, trascorsa nella casa di via Jan, 15, così sature di capolavori, ingombre di mobili e di oggetti (“dove non era mai entrato un architetto”, come ha dichiarato lui stesso), che sembrano ergersi ancora oggi a vessillo della rivincita dell’horror vacui sul less is more predicato dal razionalismo.
Una sala cinema ospita poi la proiezione di un video realizzato con materiali d'archivio inediti, tra cui il documentario di Muse Volevo essere Walt Disney (2016). La regia è di Francesca Molteni; il testo di Fulvio Irace; la voce narrante, invece, è quella di Sandro Lombardi di Magazzini Criminali, con cui Mendini ha collaborato.
Il catalogo edito da Electa, stampato in italiano e inglese, contiene saggi di Fulvio Irace, Beppe Finessi, Francesca Picchi, Loredana Parmesani, Damiano Gullì, Marco Sammicheli, Maria Teresa Feraboli, Steven Kolsteren, Yong Woo Lee, Nina Bassoli, oltre alla prefazione di Stefano Boeri, Presidente di Triennale e di Hervé Chandés, Direttore internazionale di Fondation Cartier pour l’art contemporain, insieme a diverse testimonianze e ad una conversazione tra lo stesso Hervé Chandés e Grazia Quaroni.
Il progetto grafico è dello studio Norm di Zurigo.
Sulla parete del mezzanino dello Scalone d'Onore di Triennale è presentata una riproduzione fuori scala del Mendinigrafo, quella specie di normografo che il maestro ha ideato nel 1985 (Alchimia) per creare un’infinità di forme, nel linguaggio grafico che gli è precipuo.
Nello spazio Cuore è poi esposta una selezione di pubblicazioni storiche di e su Alessandro Mendini provenienti dall’Archivio Alessandro Mendini, dal fondo delle Éditions Fondation Cartier pour l'art contemporain e dalla Biblioteca di Triennale Milano. Infine, nel giardino, si trova la bandiera realizzata da Mendini per il progetto Draw me a Flag, installazione di 81 bandiere su idea di Christian Boltanski realizzato nel 2018, che appartiene alla collezione di Fondation Cartier pour l’art contemporain.
La rassegna, prodotta da Triennale Milano e Fondation Cartier pour l'art contemporain, è stata realizzata in collaborazione con Archivio Alessandro Mendini, Elisa Mendini e Fulvia Mendini. Vi sono esposte oltre 400 opere, provenienti sia da collezioni private che pubbliche, quali l’Archivio Alessandro Mendini, la Fondation Cartier, la Triennale Milano, il Groninger Museum, il Vitra Design Museum, l’Abet Laminati Museum, Alessi e Bisazza.
Come testimonia Emilio Ambasz nel catalogo: “Le sue creazioni non erano sempre canonicamente belle, ma erano sempre incantevoli.”
E nella mostra milanese si è davvero ‘presi per incantamento’.