Un secolo di Triennale Milano
Fondati da Giuseppe Pagano nel 1935 e attivi fino al 1990, dopo oltre trent’anni di chiusura, gli Archivi della Triennale, ribattezzati Cuore – Centro studi, Archivi, Ricerca, dallo scorso 14 febbraio sono di nuovo accessibili al pubblico.
Stefano Boeri, presidente della prestigiosa istituzione culturale milanese, ha mantenuto fede alla promessa che aveva fatto nel 2019, al tempo dell’apertura del Museo del Design Italiano. (Qui su Doppiozero).
E a me è sembrato di ritornare a casa. Infatti è proprio lì, in quegli archivi, allora ospitati al primo piano del Palazzo dell’Arte, che ho trascorso mesi di studio intensi e bellissimi, quando lavoravo alla ricerca per il libro Storia e cronaca della Triennale di Anty Pansera (e in parte anche mio). Correva l’anno 1977, mi ero da poco laureata e in quelle sale stracolme di documenti, di libri, di cataloghi, di riviste, di giornali, di materiali grafici, di fotografie, di disegni e di filmati, a consultarli c’ero solamente io.
D'ora in poi, per fortuna, quei materiali preziosissimi, non più relegati nella torre d’avorio, dove erano frequentati soltanto da sporadici addetti (i più ne ignoravano addirittura l'esistenza), abitano finalmente il piano terreno del Palazzo dell’Arte, di fronte al Museo del Design Italiano, di cui sono imprescindibile compendio per tutti coloro che vogliano approfondire la conoscenza di questa disciplina e la sua storia, perché contengono “un eccezionale patrimonio che ci aiuta a guardare il futuro del progetto con una costante attenzione al nostro passato”, come ha dichiarato Boeri.
Si tratta di uno spazio di 400 metri quadri, progettato e allestito da AR.CH.IT Luca Cipelletti, “pensato per accogliere i visitatori, la comunità scientifica, gli studiosi e i ricercatori, ma anche una rete che unisce università, soprintendenze, fondazioni pubbliche e private, aziende” come si legge nel comunicato stampa.
È proprio dagli Archivi della Triennale che sono stati tratti i documenti che hanno permesso ai loro autori di scrivere due libri da poco pubblicati per celebrarne i cento anni:
Anty Pansera, Maria Teresa Chirico, Athena. 1923-1940 Le presenze femminili alle Biennali/Triennali di Monza/Milano, Nomos Edizioni
Mario Piazza, Triennale. Cento anni di manifesti, Marsilio Arte
Già, perché la Triennale ha da poco compiuto cento anni. Era infatti il 1923 quando vide la luce la Prima Biennale di Arti Decorative e Industriali Moderne, che divenuta Triennale nel 1930, tre anni dopo si sarebbe spostata da quella che fu la sua culla, la Villa Reale di Monza, nella sua residenza definitiva, il Palazzo dell’Arte appositamente costruito a Milano da Giovanni Muzio per accoglierla e dove ancora oggi si continua a condurre un fondamentale lavoro di ricerca nel campo dell’architettura e del design inteso in tutte le sue declinazioni, con particolare attenzione alle “grandi tematiche e urgenze della contemporaneità, attingendo a una trasversalità di linguaggi e discipline.” (Boeri)
Al successo delle Biennali di Arte Decorativa, e poi a quello delle Triennali, insieme agli artisti, hanno contribuito anche le artiste, artiere prima e poi architettrici e designer. Lo documenta il libro di Pansera/Chirico dimostrando come la presenza femminile a queste manifestazioni espositive, sebbene magari più in sordina rispetto alla ribalta maschile, sia stata di gran lunga superiore a quanto si potrebbe pensare.
“In tutto sono elencati 463 nomi; 70 si riferiscono a scuole, ditte, istituzioni; 393 a persone; di questi 31 non compaiono nei cataloghi delle manifestazioni ma sono emersi da altre fonti” scrive Mariateresa Chirico.
Sebbene il clangore dei media al loro tempo non abbia tributato loro il meritato risalto, alcune protagoniste, certamente a colpi di bravura, ma anche con l’aiuto della loro tenacia e di un pizzico di buona sorte, riuscirono comunque ad acquistare una certa fama, inscrivendo il proprio nome nella storia. Ne ricordiamo alcune: Rosa Genoni (1867-1954, stilista, couturière e giornalista, socialista, femminista, rivoluzionaria, la prima a parlare del “Made in Italy”, Qui il bel libro su di lei); Carla Erba Visconti di Modrone (1879-1939, fondatrice di scuole femminili d’Arte Applicata e designer di tessuti); Margherita Grassini Sarfatti (curatrice e critica d’arte, 1880-1961); Elena Köning Scavini (1886-1974, co-fondatrice della LENCI, acronimo di Ludus Est Nobis Constanter Industria); Rosa Giolli Menni (1889-1975, designer di tessuti e giornalista); Alma Fidora Nebbia (designer tessile e del vetro, 1894-1980); Edina Altara Accornero (1898-1983, ceramista, stilista e giornalista); Luisa Lovarini Cicero (architettrice 1900-1980); Anna Gabrielli Luzzatto (architettrice, 1903-1980); (Bebe) Emilia Rosselli Kuster (1903-1958, giornalista di moda); Fede Cheti (1905-1978, designer di tessuti e imprenditrice); (Biki) Elvira Leonardi Bouyeure (stilista e cuturière, 1906–1999); Giulia Veronesi (1906-1970, curatrice e storica dell’architettura) e molte altre ancora.
Felice, poi, l’idea di intitolare il libro ad Athena, la dea greca della saggezza, dei mestieri femminili, come la filatura e la tessitura, ma anche dea della guerra (il suo epiteto Pallade, la definisce infatti lanciatrice d’asta, dal greco antico πάλλω, scagliare). Un libro, insomma, dedicato all’operosità e alla creatività femminili, a tutte quelle donne guerriere che hanno ‘combattuto’ per affermarsi in un mondo, quello del design e dell’architettura, di atavico predominio maschile.
Nelle prime due Biennali monzesi, l’approccio femminile fu timido, infatti, a parte rare eccezioni, le opere esposte rientravano in quelle categorie allora catalogate come “lavori donneschi”, quali il ricamo, ‘i pizzi, le trine e i merletti’ e la tessitura (per fortuna oggi sdoganati dalla sudditanza al ‘genere’, proprio anche grazie a queste coraggiose pioniere), ma pian piano, con l’evolversi della società e del costume, ecco le nostre protagoniste farsi sempre più strada anche in altre forme d’arte e persino nell’architettura. Così come è accaduto all’estero, pure da noi un ruolo fondamentale per l’emancipazione della donna lo hanno giocato le scuole, nel nostro caso le scuole d’arte, delle quali, nel libro, Anty Pansera traccia una puntuale storia, regione per regione. Allo stesso modo che per i contributi maschili alle Esposizioni, le riviste, specialmente quelle fondate da Gio Ponti, sono state una ribalta determinante per il loro successo, così è accaduto anche per i contributi femminili. Dalle pagine di Domus, infatti, ma soprattutto da quelle di Fili, Gio e sua figlia Lisa, sono stati instancabili divulgatori della buona novella, come ben documenta ancora la studiosa milanese di design, vincitrice di un Compasso d’Oro alla carriera.
“In senso lato” scrive infatti Pansera “gli articoli pubblicati sulle riviste di settore e – Domus è assolutamente da consultare – sono una fonte essenziale per l’identificazione delle donne artiere/designer/architette e del loro lavoro nonché per capire gli apprezzamenti che ricevevano.”
Tra le protagoniste più significative delle esposizioni fra le due guerre, c’è sicuramente Luisa Lovarini. Diplomatasi a Brera in pittura ed incisione xilografica, dopo un’iniziale carriera come incisore, che l’aveva portata a conoscere i caratteri delle varie essenze di legno, scelse di dedicarsi dapprima al progetto di mobili e all’architettura degli interni per approdare poi alla progettazione architettonica di edifici. Alla III Biennale di Monza del 1927 presentò, infatti, un salotto per signora, i cui mobili in acero sbiancato, rivestiti in seta lilla stampata con la tecnica xilografica a motivi su suo disegno, sono un piccolo gioiello di raffinata ebanisteria. In quella stessa Biennale vinse anche il primo premio in un concorso di arredamento. Da allora mieté successi in mostre e concorsi, al punto da indurre Gio Ponti ad invitarla a partecipare alla IV Esposizione di Monza del 1930, divenuta, da quella edizione, Triennale. Lovarini vi partecipò nella sezione di architetture esemplificative edificate nel parco, trovandosi a lavorare accanto a titani del calibro dello stesso Gio Ponti ed Emilio Lancia (prototipo di Casa per le vacanze) e del Gruppo 7, (prototipo di Casa elettrica, progettata da Luigi Figini e Gino Pollini con i contributi di Piero Bottoni, di Guido Frette e di Adalberto Libera per gli interni). Il suo progetto fu il prototipo della Casa del Dopolavorista, che, come si legge nel catalogo ufficiale della Esposizione, si poneva l’obiettivo “di dare a chi lavora una abitazione corrispondente al massimo conforto, ai più completi dettami igienici pur non disgiungendoli dal rispetto della condizione economica dei lavoratori.” Sebbene sia più legato alla tradizione, anziché all’imperante razionalismo, il progetto di questa casa mostrava, tutto sommato, una certa assonanza con le Prairie House di Frank Lloyd Wright, che Luisa conosceva attraverso le riviste e con le quali si sentiva più in sintonia.
Che dire poi della immensa Fede Cheti a cui tutto il moderno interior design deve moltissimo?
Per conoscerne gli esordi, così come quelli di molte altre pioniere dell’architettura e del design si consiglia la lettura di Athena.
Le due autrici del libro, poi, oltre a prendere in esame la presenza femminile alle manifestazioni espositive monzesi e milanesi, lo articolano in diverse sezioni ‘documentali’, preziose e molto utili anche per chi volesse condurre studi futuri nel campo.
Un preponderante predominio maschile connota invece la produzione di manifesti alle Biennali/Triennali: nei 100 anni di vita dell’istituzione, una sola donna, Anna Kulachek, è autrice di un manifesto, quello della XXII Triennale (2019).
Mario Piazza documenta la storia di questi manifesti nel suo volume, il cui progetto grafico è dello Studio Norm di Zurigo, dal 2019 curatore esclusivo della identità visiva della Triennale.
Anche questa di Piazza come già quella di Pansera-Chirico, è una Storia dell’Arte all’interno della più generale Storia dell’Arte, della quale i manifesti progettati per le varie rassegne rispecchiano i modi e le tendenze, costituendone, molto spesso, un esito ragguardevole e, assai più raramente, invece, il riflesso delle mode del tempo in cui sono stati prodotti, che vanno dagli anni del cartellonismo, costola d’Adamo della pittura, alle più recenti discipline autonome del graphic e del visual design.
Come scrive Piazza nel suo saggio introduttivo, a partire dai ventitré manifesti delle esposizioni, di cui sono icone ufficiali “è possibile delineare un racconto storico dell’evoluzione della progettazione grafica, del modificarsi del gusto, dell’introduzione di tecnologie che ammodernano i processi progettuali e realizzativi.”
Nelle note di commento che accompagnano i ventitré manifesti, l’autore non si limita ad una lettura iconografica di ciascuno di essi, bensì si addentra nei segreti della loro realizzazione tecnica fornendo al lettore informazioni, altrimenti introvabili, sui caratteri tipografici scelti dal singolo autore, sulla loro storia e sulle regole compositive che presiedono alla loro impaginazione, facendo di questo libro non soltanto un testo di storia dell’arte e del gusto, ma anche, e soprattutto, una sorta di manuale di storia del carattere tipografico, del lettering, e, più in generale, del linguaggio grafico.
Abbiamo così nozione di quel bel carattere, elegante nella sua classicità, usato da Aldo Scarzella nel 1923 per il manifesto della I Biennale monzese. Si tratta dell’inkunabola “un carattere riproposto nel 1911 dalla Società Augusta, una fonderia di Torino, reincidendo i punzoni dei tipi medievali usati da Johannes Müller von Königsberg detto Regiomontano, per la stampa Venezia del 1476 del calendario astronomico e astrologico.”
Che dire, poi, della Architettura Tipografica di Fortunato Depero? Si tratta del Padiglione del libro Treves e Bestetti Tuminelli, un’architettura pubblicitaria da lui realizzata nel Parco di Monza in occasione della III Biennale (1927), in cui l’artista futurista ha “inventato’ un alfabeto tridimensionale che da logo si faceva totem e le cui lettere diventavano addirittura complementi d’arredo.
A proposito del manifesto di Michele Cascella e Marcello Nizzoli per la IV Biennale del 1930, Piazza ci racconta che “La parte dedicata ai testi è festosa senza rompere l’eleganza formale del manifesto. Il ritmo è dato dalla scelta dei caratteri tipografici (molto probabilmente in legno) geometrici di gusto déco, composti in maiuscolo. Decorativi nel loro disegno, dove molte lettere sono tutte piene, senza gli abituali vuoti, sono come tessere sagomate. […] E, molto ingigantito, l’arco sembra essere un’anticipazione della facciata di ingresso del Palazzo dell’Arte che verrà inaugurato a Milano” tre anni dopo.
“In occasione dell’inaugurazione del Palazzo dell’Arte il tipografo e critico Guido Modiano disegna un nuovo carattere che chiama Triennale per la fonderia Reggiani di Milano. Il 1933 si conferma un anno speciale per il dibattito sulla grafica, oltre alla nascita della rivista Campo grafico, Antonio Boggeri fonda a Milano il primo studio di comunicazione aderendo alle nuove sintonie del progetto, ma introducendo anche una visione moderna del lavoro: un collettivo aperto e stimolante una regia artistica e l’adeguata capacità di colloquiare con l’industria”, ci ricorda Piazza.
Inoltre, nel corso della V Triennale, il dibattito sulla grafica si accende di nuova e intensa vivacità, non solamente per i due manifesti disegnati da Mario Sironi, utilizzando caratteri tipografici moderni, come il Futura e lo Zeus, ma anche per la Mostra dell’Arte Grafica (curata da Giulio Barella, Mario Sironi, Raffaello Bertieri, Attilio Rossi, Marcello Nizzoli), allestita nel Padiglione della Stampa, progettato da Luciano Baldessari e costruito nel Parco Sempione. Fondamentale è stata anche la presenza di Paul Renner, incaricato della curatela della sezione della Germania, organizzata dal Deutscher Werkbund di Berlino e dedicata interamente alla grafica. Renner, infatti, tra gli altri suoi meriti, era l’autore del carattere Futura che, come spiega Piazza, è uno dei caratteri tipografici “che ha rappresentato l’idea di modernità nella composizione tipografica. Futura (1927) riprende i contenuti di purezza formale e geometrica ricercati ed espressi dal Bauhaus con la sapienza delle regole tipografiche.”
E poi lo studio dell’architetto milanese prosegue analizzando i manifesti di tutte le edizioni della Triennale, che sono spesso degli autentici capolavori, caposaldi dell’evoluzione del linguaggio grafico, opera di grandi maestri, quali Eugenio Carmi, Pierluigi Cerri, Giulio Confalonieri, Michel Folon, Max Huber, Italo Lupi, Alberto Marangoni, Bob Noorda, Roberto Sambonet, Ettore Sottsass, Albe Steiner, Massimo Vignelli, Heinz Waibl e molti altri. Anche se sarebbe interessante, non c’è spazio qui per commentarli tutti. Sarà la consultazione del libro, che l’autore ha dedicato a Pierluigi Cerri e ad Italo Lupi recentemente scomparsi, a soddisfare tutte le curiosità del lettore arricchendone le conoscenze in materia di design grafico.
Lo completa la raccolta dei manifesti realizzati dalla Triennale per le esposizioni tematiche interne alle edizioni periodiche, a partire dalla sedicesima.
Così Piazza nel capitolo intitolato Un giacimento di manifesti: “Nell’archivio di Triennale sono presenti centinaia di opere di progettisti ormai studiati nella storia della grafica e delle nuove leve di una disciplina che è un servizio (rende visibili e leggibili i messaggi e i dati) ma è anche un indubbio sensore per tradurre e registrare la ricerca estetica.”
In questo ‘giacimento’ che sono gli Archivi della Triennale si trovano documenti che hanno ancora mille storie da raccontare. Ora che la loro consultazione è più accessibile, dopo quella delle protagoniste femminili delle rassegne e quella dei loro manifesti, quale sarà la prossima storia che aiuteranno a narrare? Sarà forse quella delle architetture effimere costruite nel parco di Monza prima e nel Parco Sempione poi nelle varie edizioni della manifestazione periodica? Oppure quella degli allestimenti delle mostre che esse hanno ospitato? Magari quella dei capolavori di design che hanno tenuto a battesimo, molti dei quali sono visibili nel contiguo museo?
O quale altra storia ancora?
Storie tutte che sono e saranno comunque e sempre indissolubilmente connesse alla cultura del progetto, assunto fondante della Triennale che, con l’apertura al pubblico dei suoi archivi non dimostra solamente la sua generosa lungimiranza ma anche e soprattutto la sua giovinezza, a dispetto dei suoi 100 anni.