Alina Marazzi. Tutto parla di te

Certo che la maternità è anche questo. E’ anche l’identità di madre che traligna, che ostruisce il corso naturale delle cose e che infine defluisce nella tragedia di donne schiacciate da un altro destino. Donne travolte dal fatto di aver da poco partorito e che non vanno lasciate sole con tutti i problemi che sorgono, tra i quali il principale è l'essere espropriate del proprio tempo e delle proprie usuali attività, magari creative e gratificanti come quella di Emma, brava e riconosciuta danzatrice. Può insorgere infatti, con l'arrivo dell'esserino urlante e completamente dipendente da chi lo accudisce, la cosiddetta sindrome post-partum, coi suoi sintomi di tristezza, fatica, insonnia, inappetenza, ansia, depressione e irritabilità.

 

Tutto parla di te, il quarto lungometraggio di Alina Marazzi, coproduzione italo-svizzera, concentra l’attenzione sulla nascita: di un figlio e, sottolineato, delle difficoltà (il dramma è stato messo giusto un passo più in là) che possono arrivare. Non soltanto: il film trasmette un messaggio preciso: non lasciamo sole le madri, noi che le amiamo perché siamo i loro compagni, genitori, amici; o noi che di loro ci occupiamo professionalmente perché lavoriamo in un consultorio familiare o simili. Non lasciamole sole in questa fase delicata di trasformazione della loro vita e del loro corpo, perché in alcuni casi le conseguenze possono essere terribili.

 

 

Come le conseguenze cui si accenna in Tutto parla di te, protagoniste due donne: Pauline (la splendida Charlotte Rampling, intensa ma mai melodrammatica, che da sola solleva il lavoro di Marazzi), la quale assiste e segue e sostiene nei momenti di ansia e depressione la giovane Emma (Elena Radonicich), neomamma frustrata dalla maternità e confrontata con l’evoluzione, o la trasformazione, da donna (aggravante: ballerina, mica contadina) a genitrice. Il selciato su cui cammina Pauline è un Golgota individuale svelato sul finale (sua madre che uccide il fratellino per poi lasciarsi a sua volta morire); la strada di Emma sembra avere come unica uscita l’incapacità di affrontare le responsabilità a cui è chiamata. L’incontro e l’avvicinamento tra le due donne fanno il gioco filmico, che tuttavia – se ci è consentito – rimane monco, poco capace di restituire emotività, piacere intellettuale, tensione psichica.

 

Sullo sfondo, una Torino appena suggerita, dove Pauline/Rampling torna dopo molti anni riprendendo contatto con Angela (la brava Maria Grazia Mandruzzato) che dirige un centro per la maternità. La costruzione della relazione tra Pauline e Emma è tenuta insieme da interviste (vere) a madri (vere) in difficoltà (vere), compresa la testimonianza (vera) di chi ha compiuto il gesto estremo dell’infanticidio. Realtà e finzione; testimonianze, video e fotografie; frequenti flash-back in bianco e nero che illuminano momenti dell'infanzia di Pauline, mentre la scena madre (di nuovo: madre) è affidata all’animazione, a quattro pupazzetti d'antan, fatti di fil di ferro e rivestiti di stoffa, che recitano il dramma, lo mettono in scena: pare di stare in una costellazione familiare, dove si rivive la situazione problematica per (tentare di) risolverla. Una ricca variatio di strumenti narrativi dunque, che nonostante le migliori intenzioni non riesce tuttavia a delectare, anzi lascia un senso di malcontento nello spettatore.

 

 

E allora, più che un film sulla maternità, questo Tutto parla di te, che si presenta come un lavoro di grandi pretese, portatore di un messaggio nobile e condivisibile, è un film su una delle facce possibili della maternità. La più imbarazzante, probabilmente, e paurosa e incompresa. Là dove sorgono i dubbi. Con Goliarda Sapienza (applausi alla citazione dell'Arte della gioia, voluta da Marazzi) vien da dire: “come una malinconia nuova mi prese e mi tiene da quando 'sta parola dubbio ho incontrato”. Certo che la maternità è anche questo, ma non è questo soltanto, verrebbe da dire alle giovani madri per non scoraggiarle dall'affrontare quell'esperienza travolgente di emozioni che la maternità stessa è.

In ogni caso, e per concludere, un indubbio merito il film di Alina Marazzi ce l'ha: quello di cercare di costruire un momento artistico nel quale anche l'esperienza femminile possa diventare universale, privilegio che l'esperienza maschile possiede da sempre. E' infatti palese che l'opera letteraria, artistica, filosofica scritta da mano maschile con protagonisti maschi e che si occupa di faccende virili (la lotta, la politica, la guerra) – quale, per fare un recente esempio filmico, Cesare deve morire dei fratelli Taviani –, viene proposta (e accettata) come «per tutti», maschi e femmine indifferentemente. Invece l'opera composta da mano femminile con protagoniste donne che si occupa di faccende femminili (e quale cosa più femminile della maternità?), fatica ad essere accettata come universale, rimanendo confinata nel ghetto delle donne. Un esempio vero per tutti: il coro femminile di Bologna, la Cappella Artemisia diretta da Candace Smith, che esegue strumentalmente e coralmente musiche composte da donne viene invitata quasi esclusivamente a cantare, con suo grande disappunto, in manifestazioni e luoghi femminili; sarebbe come se il coro della SAT, composto e diretto da uomini e che canta musiche scritte da uomini venisse chiamato a esibirsi soltanto in luoghi e manifestazioni maschili, dell'esercito o della chiesa.
Insomma il film di Alina Marazzi e' un tentativo di rompere il terribile schema che dice: alle cose da uomini vanno riconoscimento e portata universale, alle cose da donne, solo l'attenzione della metà del cielo. Come se mettere al mondo un figlio, occuparsene, allevarlo, soffrire per la perdita di libertà che esso comporta, fosse e avesse da rimanere, una faccenda di sole donne.

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