Alla ricerca della lingua del tempo

6 Maggio 2015

Il 7 maggio, alla sala Fontana di Milano, la rivista online di teatro ragazzi “Eolo” consegnerà un premio “alla gratitudine”, non alla carriera, a Giuliano Scabia, uno dei padri fondatori del nuovo teatro italiano, maestro profondo e appartato di varie generazioni, incantatore. Le motivazioni spiegano a chi non lo conosce qualcosa di questo artista sperimentatore, poeta, drammaturgo, regista, attore, costruttore di fantastici oggetti di cartapesta, pittore dal tratto leggero e sognante, narratore, pellegrino dell’immaginazione, tessitore di relazioni.

 

Si legge: «Eolo Awards 2015 alla gratitudine a Giuliano Scabia per aver imbevuto della sua poetica e del suo modo di rivivere l'arte teatrale tutto il teatro ragazzi italiano. È infatti lui che ci ha insegnato a sperimentare sempre e comunque nuovi confini e forme, è lui che ci ha insegnato a essere sempre fuori dall'ordinario, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi e, soprattutto, di nuovi pubblici, convinto che ‘coloro insieme ai quali canti, modificano il tuo canto’ e ben lo sappiamo noi che viviamo a contatto sempre con i cuccioli d'uomo. Ecco dunque le azioni teatrali di decentramento nei quartieri di Torino, quelle in Emilia-Romagna e per tutta la pianura padana con Il Gorilla Quadrumàno, l'avventura di Marco Cavallo presso l’Ospedale Psichiatrico di Trieste, ecco il teatro come narrazione prima che noi narrassimo, le azioni di lunga durata, la scrittura collettiva, il teatro nelle case, il Teatro Vagante e l'ascolto degli animali al limite del bosco. Per tutto questo gli siamo grati».

 

Scabia in luglio compirà 80 anni. doppiozero gli dedica uno speciale, che vedrà la pubblicazione del suo ultimo poema e di vari interventi che provano a tratteggiarne la mobile figura. Iniziamo con questa intervista, realizzata in marzo nel suo studio a Firenze, dove si accumulano scaffali e scaffali di documenti, testimonianze, materiali, copioni, disegni, libri, libri, libri, con un intero pavimento ricoperto dei suoi “Quaderni di drammaturgia”, realizzati nei lunghi anni di insegnamento al Dams di Bologna e non solo, e poi in un garage-laboratorio-caverna, dove forgia e custodisce le sue creazioni di cartapesta, il Teatro Vagante, l’Albero dei poeti rari , cornucopie, maschere, il cavallo con cui attraversa boschi, colline, paesi per raccontare, e altre seduzioni irresistibili.

 

Giuliano Scabia

 

Come si potrebbe raccontare Giuliano Scabia? Come un uomo di teatro?

 

Il teatro mi si è presentato varie volte e in diverse forme, un po’ per caso, un po’ per destino. Uno in fondo se lo sceglie il sentiero, segue le chiamate più consone. Ho fatto alcune imprese disperate, come quei lavori primissimi, un tentativo a Sesto San Giovanni, nel 1968, in un capannone, con l’arrivo dei vigili…

 

Lo racconti in un vecchio libro, molto bello, Teatro negli spazi degli scontri (Bulzoni 1973), con azioni di strada o di decentramento create tra il 1968 e il 1972. Mostravano, inventavano un teatro dilatato, costruito con i bambini, con gli operai, con i cittadini, con gli insegnanti, in cerca di una lingua aperta, del tempo…

 

In quel caso volevo che la comunità di Sesto si mettesse in scena, con i propri sogni, le lotte, la vita quotidiana. Sesto allora aveva una classe operaia forte, con il Pci al 70 per cento. Cercavo dentro le lingue, dentro gli incroci dell’immigrazione…

 

Però tu inizi, agli albori degli anni sessanta, come poeta, con Diario italiano per Luigi Nono…

 

Cercavo di capire come si fanno le poesie. Ho incontrato Nono nel 1961 sui gradini della Fenice, a Venezia, dopo Intolleranza. Lui era insoddisfatto del lavoro al testo del pur grande Angelo Maria Ripellino, che non era il librettista adatto. Nono andava a interrogare le persone. Abbiamo iniziato a parlare della forma del teatro con musica. Avevo sentito Il canto sospeso e mi era piaciuto tantissimo, con i suoi filamenti musicali... Pensavo che la poesia dovesse andare in quella direzione. Facevo tantissimi esercizi metrici, osservando anche il lavoro di amici che poi saranno il Gruppo 63, il lavoro di Porta, di Pagliarani, alla ricerca di una metrica del tempo. Guardavo le forme del puntillismo della nuova musica, per vedere come potevano essere fatti i versi, spostando, incastrando, il collage, i primi lavori con il computer… Però sentivo anche la prigionia di questo iperrarefatto fare metrica. Lui, Nono, aveva preso alcune mie poesie uscite su “Nuova Corrente”, pubblicate da Pagliarani, e mi aveva chiesto di usarle per questa composizione, Diario italiano (1963-1964). L’idea del diario mi era piaciuta tantissimo, perché consentiva di essere nel presente. Le forme in musica sono mitiche, atemporali, e qui si trattava di misurarsi con il nostro tempo. Lui mi ha passato materiali sulla Fiat, montaggi di interviste, e io gli ho fatto le sei situazioni per Diario italiano. Il termine “situazione” veniva da Sartre, ma lui lo usava anche in modo diverso. Stava per “situare in un luogo”, estrarre da un sito il suo problema. Quando c’è stata la catastrofe del Vajont, stavamo già lavorando all’opera; allora era ancora possibile che la Scala ce la facesse rappresentare, e Gigi ha subito detto: una situazione deve essere il Vajont. Io gli ho preparato tutte le tavole fonetiche e i materiali che hanno costituito quella scena, e lui ha scritto il coro, che però è andato perso.

 

Resta poco, se non sbaglio, di quel progetto che voleva narrare con parole spezzate, suoni, musica, le trasformazioni e i conflitti dell’Italia dei primi anni sessanta…

 

La prima scena sulla Fiat di Palermo è stata eseguita sei anni fa a Stoccarda. Sembra il Prometeo. C’è scritto “testi di Giuliano Scabia”, in realtà è un montaggio di frasi, Palermo-Fiat, un coro che dura nove minuti e non si capisce una sola parola, con una musica sublime però. Allora grazie a Intolleranza ho incontrato anche Josef Svoboda, la Lanterna Magica di Praga, Emilio Vedova, che ha fatto la scena, Bruno Maderna: erano le figure più avanzate del panorama artistico, con la migliore tecnologia in teatro.

 

Giuliano Scabia

 

 

 

Facciamo un salto, poco dopo: parliamo di Zip (Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam, 1965), che è considerato uno dei primi testi dell’avanguardia teatrale anni sessanta, nato in relazione con il regista Carlo Quartucci e poi con un bel gruppo di attori, tra i quali i giovani Rino Sudano, Leo de Berardinis, Cosimo Cinieri, Giampiero Fortebraccio, Claudio Remondi, Maria Grazia Grassini.

 

Ci arrivo tramite la mostra Genova Porto. Vengo in contatto con la fotografa Lisetta Carmi, una che aveva lasciato il pianoforte per il reportage fotografico. Mi cerca, perché a Genova era stata eseguita da qualche parte La fabbrica illuminata. Lei aveva fotografato i portuali e mi chiede se scrivo le didascalie per la mostra. Le abbiamo fatte insieme con i portuali. A Genova c’era Quartucci, che aveva messo in scena Beckett come Teatro Studio dello Stabile. Lisetta mi dice: lo devi conoscere. Quartucci aveva sentito La fabbrica illuminata, se ne era innamorato, e mi cercava... Io avevo letto dei suoi Beckett... Un giorno sono andato a vedere uno spettacolo con la regia di Squarzina, in cui alla fine compariva Quartucci. Ci incontriamo nei camerini e iniziamo a parlare: è stato un dialogo che è durato tutta la notte, fino alle nove di mattina. Sono andato a casa e ho scritto All’improvviso, che è una poesia però, un poema per oggetti, abbastanza strano.

 

Compare nell’edizione Einaudi che comprende Zip (1967). L’avete messo in scena?

 

No, solo raccontato qualche volta. L’ho fatto a Torino con tre attori, in una rassegna, tiravo palle da tennis contro il pubblico. Siamo verso il ‘67… Poi, parla, parla, Carlo aveva in mente di fare qualcosa… aveva in mente Beckett e il circo. Io pensavo ad altre cose, a un altro tipo di scrittura. Abbiamo discusso. Aveva in mente un’opera per dieci personaggi che si chiamassero in una maniera strana, Zip, Lap, Lip…. Parla che ti parla, sono andato a casa e ho provato a mettere giù. E c’è la prima versione di Zip, abbastanza diversa da quella andata in scena. Così è nato quel testo, da un continuo discutere. Chiedevo: questo Leo lo sa fare? Questo Rino lo sa fare? E lui rispondeva: sì, sì!

 

Tu partecipavi alle prove?

 

Ora mi riferisco al periodo che precede l’inizio delle prove. Quando ho scritto il testo, mi sono basato sui racconti di Quartucci sulle caratteristiche degli attori. Lui le descriveva e io cercavo di mettere dietro i personaggi quello che mi diceva di ognuno degli interpreti. Gli chiedevo: saprebbero calarsi con le corde, fare salti mortali all’indietro? Lui rispondeva sempre di sì, ma in realtà non sapevano fare quasi nulla di quelle cose. Era bravissimi, ma erano ancora a Beckett. Rino e Leo rifiutavano di farsi fare le proiezioni addosso. Quando abbiamo iniziato le prove, io ho letto il testo alla compagnia. La mia lettura è stata disastrosa. Questi attori mi guardavano e dicevano: ma questo che vuole? Ecco l’autore! Per questo, piano piano, mi sono messo a recitare. Carlo mi fa: ora ci vuole un mese a convincerli che è un buon testo. Però mi era piaciuto molto scrivere addosso a loro. Mi ero fatto dare un po’ di autobiografia durante le prove. L’ideologia, la vita di ognuno, e nei personaggi avevo cercato di mettere questo campo di presenze, invece di farne figurette astratte come nella prima stesura. Lip e Lap li avevo abbastanza chiari. Zip anche. Però piano piano gli attori ci hanno messo la loro umanità. Leo era disperato, per esempio: non riusciva a trovare il gesto. Un giorno, gli ho detto: io farei così. Ho provato, lui mi è venuto dietro e mi ha detto: ho trovato, grazie. Ho capito che con il mio corpo gli avevo trasmesso ciò che sulla carta non c’era, e ho capito tantissimo, lì.

 

Come è finita?

 

Avevamo in progetto un Don Chisciotte con Carlo e non ce lo hanno fatto fare. E anche Zip è stato abbastanza avversato: è stato richiesto, ma non lo hanno fatto portare in tournée. Dopo il debutto alla Biennale di Venezia, è finito a Genova.

 

Per qualche anno, poi, hai fatto lo scrittore di teatro.

 

Sempre sperimentando. Raffaele Maiello, allievo di Strehler, era interessatissimo alle cose che scrivevo, aveva letto Zip e mi fa: voglio un testo da te. Mi sembrava un po’ di tradire andare subito al Piccolo Teatro, dopo tanti discorsi che avevamo fatto contro l’ingessatura degli stabili (per esempio al Convegno di Ivrea, una chiamata a raccolta del Nuovo Teatro, nel 1967, ndr). Non avevo neanche idea. Ero tutto preso dalle lotte del 1968, da discorsi politici… L’esperienza di Zip era stata bellissima, ma forse c’era ancora troppa clownerie dentro, si poteva fare un balzo in avanti. Mi è stato data da rivedere per il Piccolo Teatro una commedia bellissima di Bulgakov, L’isola purpurea. E lì ho avuto la buona o malaugurata idea, con Interventi per la visita alla prova de L’isola purpurea di Michail Bulgakov (1968) di spaccare il testo. Me ne hanno dette di tutti i colori… Ho adattato. Interpolato. Qualche battuta era una frase di Paolo Grassi, il direttore del Piccolo, qualche battuta era di Strehler, di quell’anno, che è un anno di profonda crisi di tutto. Si stava rompendo la storia del novecento. Era in atto una crisi palese, globale, del mondo socialista. C’erano stati da due mesi, tre, i carri armati contro la Primavera di Praga. Era evidente che non stava più in piedi niente. Bisognava aspettare la Bolognina per capirlo? Io l’ho detta questa roba, negli Interventi. Ed è scoppiata la rivolta. Una parte degli attori non voleva andare in scena, perché riteneva che lo spettacolo fosse anticomunista. Una parte no. Un giovane regista mi fa: una carognata, avete fatto! Ma io dicevo la verità. Lo spettacolo era bellissimo, con le scene di Ezio Frigerio, da urlo. I giovani attori bravissimi. Buttavano volantini. Era riscritto lo spazio del Piccolo con le parole di Lenin, eravamo ancora nell’illusione utopica del comunismo. Sergio Liberovici aveva composto musiche molto belle, eseguite da un complesso cecoslovacco jazz. Mi sono ritrovato per strada, non mi facevano neppure più entrare nei camerini, al Piccolo.

 

Non hai perso il vizio, perché quelli sono gli anni del Teatro nello spazio degli scontri, dell’esperienza di teatro a partecipazione nei quartieri periferici di Torino dopo la battaglia di Corso Traiano a Torino nell’autunno caldo del 1969, poi dei lavori con i bambini a Sissa, nel parmense, e di altri lavori che dilatavano il teatro usuale.

 

Ero rimasto senza lavoro. Vengono Giuseppe Bartolucci, Edoardo Fadini e Renzo Morteo e mi propongono di fare teatro nei quartieri di Torino. Per fortuna avevo visto Loredana Perissinotto al lavoro con Giovanni Poli, a Venezia: ci voleva qualcuno che mi guidasse nei quartieri, e lei aveva questo senso politico di stare nella società, faceva teatro con i ragazzi a Torino. Nuccio Messina, direttore dello Stabile, ci diede come autista Pierantonio Barbieri. Stefano Casi è andato a trovarlo per il bel libro che ha scritto su questa esperienza (600.000 e altre azioni teatrali per Giuliano Scabia, Ets, Pisa 2012), e lui ha confessato di essere stato incaricato di fare la spia. Io gli voglio bene, però. Si è ricreduto, nel corso del lavoro; ha detto: fanno cose così belle, forti, coraggiose, ed è diventato più collaborativo. Le foto terribili che avevo raccolto sulle battaglie di Corso Traiano sono sparite, sono arrivato senza immagini. Ne erano rimaste 30 su 120. Abbiamo ricostruito i fatti con il racconto e le poche immagini rimaste. Grande aiuto me l’ha dato Diego Novelli, che era assessore, e aveva tutti materiali.

 

Scabia a Bologna nel 1977

 

Là è nata la tua idea del teatro a partecipazione?

 

Nasce col progetto di Sesto, estate 1968. Il germe però è il dialogo con i portuali del 64, perché ho visto che, ascoltandoli, mi davano più precisione nel narrare, nel fare le didascalie, per il testo della mostra. E poi ho sempre proseguito in quella maniera, perché il libro sul lavoro all’Ospedale Psichiatrico di Trieste del 1973, Marco Cavallo (Einaudi 1976, e poi riedizione a cura di Elisa Frisaldi, alpha beta Verlag 2011) è stato composto così. Sono andato a chiedere dove potevo: ti ricordi, hai fatto questo, hai fatto quello? Il sentiero è sempre quello, delle parole, della scrittura.

 

In che senso?

 

Nel senso che io lavoravo per il linguaggio. Progettavo quelli che chiamavo “schemi vuoti”, canovacci, possibilità di azioni da compiere, come a Sissa con i bambini, per quattordici giorni; come in Abruzzo per Forse un drago nascerà, un intervento in cui arrivavamo con il Teatro Vagante in diverse località e con i ragazzi costruivamo ogni volta diverse città-teatro. Ogni progetto nasceva da un lungo lavorio: andavo a vedere, prendevo informazioni, facevo il canovaccio possibile, che è quasi come una poesia, sempre, fino a quello schematico e però densissimo per Marco Cavallo. E in quegli anni, tra la fine dei ‘60 e i primi ‘70, scrivo anche testi teatrali, Scontri generali, Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, Fantastica visione, dove confluiscono oggetti e immagini delle azioni a partecipazione. Il carro dei contadini di Sissa (maggio 1971), con cui portavo in giro i ragazzi e con cui incontro Franco Basaglia quando andiamo nella fattoria protetta dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno, mi suggerisce l’immagine del Teatro Vagante, che poi compare nella Commedia armoniosa, ed è già carro, grotta, culla, barca, veliero, teatro, e più tardi diventa albero, albero azzurro, che ha anche ispirato la trasmissione televisiva per ragazzi. Il Teatro Vagante poi diventa anche gerla e corda tra l’angelo e il diavolo, nelle azioni de Il Diavolo e il suo Angelo (iniziate nel 1979): prende tante forme.

 

Marco Cavallo, 1973

 

È giusto dire che queste esperienze di teatro aperto, diffuso, a partecipazione, ti portano a sondare la lingua che entra nei tuoi testi teatrali, ma anche che la tua creazione teatrale entra a provocare questi canovacci aperti?

 

Io mi sentivo legnoso, molto avanguardistico e mentale, e cercavo un po’ più di corpo. C’è un modo mentale e c’è uno per cui le parole sono cose. A volte ero abbastanza astratto, e anche certi testi per la radiofonia, per esempio Fuga inseguimento e grande giardino, sono nella tradizione avanguardistica del Novecento, diciamo. E io cercavo la lingua di oggi, la lingua del presente. Sentivo un’inadeguatezza. C’era tanto ideologismo in me. Mi mancava un po’ questo esser intonato con la lingua di Marmoreto (paese sull’alto Appennino Reggiano, dove Scabia va con il Gorilla Quadrumàno e dove in seguito intesse un lungo rapporto con alcuni abitanti, ndr), che è venuto dopo. Mi ricordavo quando giocavo con gli amici, a Padova, da ragazzo, c’era un’intonazione uguale… Poi la scuola ti rovina, ti dà questa ipercultura, e parli come un libro stampato. Una volta sono andato dal mio amico cavallaro, boscaiolo. Ho detto: sono stato in Grecia, c’era il tempio di Zeus… Mi risponde: chi è ‘sto Zeus? Il riferimento culturale è un disastro, ci parliamo tra noi. C’è un altro mio amico, che fa ciclista; mi dice: non sempre ti capisco. Poi mi ha chiesto: come si fa a fare poesia? C’è una domanda di metrica. Queste domande per me sono molto belle. Questa gente qui Nane Oca (romanzo pubblicato da Einaudi nel 1992) l’ha capito. Con il primo Nane Oca (il romanzo ha due seguiti, Le foreste sorelle, 2005, e Nane Oca rivelato, 2009) mi è sembrato, dopo un lungo viaggiare, di arrivare a una lingua, che è quella che cercavo.

 

Ci sono state varie tappe in questo percorso. C’è stata quella di Torino, molto nelle lotte del 1968-69, molto ideologica, attenta ai linguaggi e alla comunicazione della fabbrica in rivolta, dei quartieri della metropoli. A un certo punto, però, sembri deviare verso altri orizzonti, marginali se vuoi, perché la lingua dell’Appennino Reggiano - dove nel 1974 porti una commedia che si recitava nelle stalle della Bassa alla fine dell’Ottocento, la favola comica del Gorilla Quadrumàno - era un lingua, una cultura di sopravvivenza di una montagna in via di abbandono. Almeno apparentemente.

 

 

Il Gorilla Quadrumàno, 1974

 

Non era di sopravvivenza, perché loro parlano sia il dialetto, sia l’italiano. Se io inizio a fare le citazioni dotte, mi fermano. Quando vado a leggere testi troppo colti, vedo che gli si sbarrano gli occhi, che sono uscito dal binario. Ora non so, con WhatsApp e con la velocità del globale, dov’è la lingua, ma quella che cercavo io era di una chiarezza profonda, che non fosse un gergo. Mi aveva molto colpito Meneghello, mi aveva molto colpito Comisso. Già Andrea Zanzotto era molto complesso, però nei Mistieroi e nel Filò c’è questo scavare nel substrato, quella che io chiamo la stralingua. Io me ne accorgo della stralingua nella Fantastica visione. Là comincia il viaggio di scavo. La stralingua, che io vedo sotto tutta la pianura padana, e dopo diventa la stralingua del pavano antico di Nane Oca. È il substrato, cioè la presenza di strati precedenti, che è poi la ricchezza del presente.

 

Quando inizi questa ricerca. Con Marco Cavallo e con il Gorilla?

 

Quando ero in Abruzzo, poco prima, con Forse un drago nascerà. Un giorno che non è arrivato il Teatro Vagante, ho riunito la gente ad Avezzano nel centro di servizi culturali. Lì ho avuto una rivelazione. C’erano anziani, gente di 40, di 70, 80 anni, ragazzi, e sento che si mettono chi a raccontare fiabe, chi a dire filastrocche, formule magiche, canti. Era un mondo che mi si svelava. Era il ‘72. Mi sono detto: se io riempio tutto con il mio schema vuoto, che pure è vuoto, questa naturalità dove va a finire? Allora eravamo ancora in piena fase preglobale e c’era ancora la presenza di questo materiale, che poi abbiamo trovato dappertutto. Allora la scrittura dove la acchiappavo? Nel racconto del teatro, nel fare un resoconto veritiero – la “vera storia” – di ciò che era avvenuto, la commedia riempita con quello che era avvenuto. Questo rapporto con i materiali, i sassi, i fiori, il ruscello, questi materiali che raccoglievo per strada, l’erba, le foglie, la corteccia, per poi fare le improvvisazioni. Col Teatro Vagante ci si fermava per i campi, si andava nei boschi, per raccogliere cose. Che bello era il teatro, ma che aria bella è il mondo! Alle fine tenevo diari e da quelli scrivevo il racconto del teatro che era successo, che è una forma. Ho fatto anche dieci trasmissioni alla radio.

 

 

Dall'alto Corteo del Gorilla e Gorilla nelle strade di Fermo, anni '70, ph. Enrico Scuro

 

Intanto hai scritto anche commedie che in pochi ti hanno messo in scena, o che ti hanno allestito facendole a pezzi, come Massimo Castri con Fantastica visione.

 

Alessandro Marinuzzi ne ha fatte quattro, una me l’hanno anche commissionata, Gloria del teatro immaginario.

 

Avviene un po’ dopo…

 

Perché io avevo chiuso con il teatro. Perché stavo lavorando sul racconto, non ne volevo più sapere dei testi teatrali. È venuto Marinuzzi e dice: vorrei fare un suo testo, la Fantastica visione. A me sono piaciuti i suoi occhi, aveva uno sguardo elettrico. Gli dissi: gli dia un’occhiata, io non ne voglio sapere, arrangiatevi. Però lavoravo molto con gli studenti, cosa di cui Gianni Celati mi ha rimproverato. Un giorno a Guastalla è venuto a vedere la Farce de Maître Pathelin, e mi fa: Giuliano, sei un cretino. Perché? Perché perdi il tuo talento a fare queste cose con gli studenti. Forse aveva ragione lui, forse no.

 

E perché perdevi il tuo tempo?

 

Perché dovevo farlo coi grandi teatri, secondo lui. Ma io ero stato cacciato dai grandi teatri, Zip era stato boicottato.

 

Erano passati anni, perché non hai più provato?

 

Mi ero stufato.

 

E perché ti piaceva lavorare con gli studenti, in quel laboratorio che hai tenuto presso il Dams di Bologna dal 1973 al 2005, attraversando anche gli scontri del 1977?

 

Intanto per la giovinezza. Ce n’erano di così bravi che erano dei maestri. E poi perché potevo sperimentare quello che volevo, per lungo tempo. I rapporti con gli attori già formati sono ottimi, ma a volte sono anche pessimi, perché arrivano persone che hanno già una loro caratteristica, troppo segnata. Non mi piaceva quasi nulla del modo di recitare degli attori italiani. Cercavo un’aderenza alla verità, al presente. Li trovavo spesso falsi, retorici, specialmente quando leggevano le poesie. Non mi prendevano, ecco. Erano modi vecchi. Ho pensato allora: va bè, mi arrangerò. Ho pensato anche io di fare il racconto dei miei testi. Con gli studenti facevo un modello e potevo sperimentare se funzionava. E poi erano diversi di anno in anno. Erano la temperatura del tempo. C’era un trasmettersi dello sperimentare. Io ero sempre nella scrittura. Durante il periodo dell’università ho fatto tanti spettacoli anche fuori, per esempio il Teatro Vagante a Mira, nel 1975, sempre tutto con due lire, con quattro studenti cui ho dato lavoro: mi piaceva farli misurare con il mercato. Mi sono chiesto, quando mi hanno chiamato a Bologna: accetto, non accetto? Mi chiederanno di fare lezioni di storia del teatro, che non è il campo che mi sono scelto. E allora ho pensato: per qualche anno provo; anche perché Marzullo, il fondatore del Dams, per strada mi ha detto: vieni qui, a fare le stesse cose che fai fuori. E io l’ho preso in parola. Abbiamo fatto le stesse cose… quante volte sono andato in tournée con gli studenti… con il Gorilla, con il Pathelin, con Il teatrino delle meraviglie… È stato per me un lungo cammino per capire come il teatro, la poesia e il racconto si legavano insieme. E qual è la forma del dramma oggi.

 

E cosa hai capito?

 

Nei corsi portavo quello che cercavo fuori. Se trovavo una cosa, subito la buttavo lì.

 

Sei arrivato a una conclusione? Qual è la forma della poesia, del teatro, del racconto, oggi?

 

Ho capito a un certo punto qualcosa sui due nomi maschera della poesia e del teatro, cioè Orfeo e Dioniso. Dietro a Orfeo c’è l’incanto della parola, dove però incanto vuol dire tutte le tecniche di ammaestramento degli animali, le tecniche agricole, di potatura degli alberi, le tecniche edilizie, dell’uso delle pietre. Si dice che Orfeo incantava gli animali, che faceva muovere le piante e le pietre: se lo interpreti alla lettera è una coglionata. È l’addomesticamento, il passaggio dall’età della raccolta a quella agricola. Il poeta non è il poetino che parla all’innamorata, è uno che accompagna col suono, col canto incantatore, accompagna lo sforzo degli uomini per sopravvivere, per capire i semi, gli innesti. Questo è Orfeo. E Dioniso è la stessa cosa, trasferita nei corpi che hanno il compito di aiutare la natura ad andare avanti.

 

Giuliano Scabia e le oche, ph. Maurizio Conca

 

In che modo?

 

Il carnevalismo menadico delle baccanti, degli invasati, è legato a rituali che hanno il compito di tenere vivo il ritorno della fioritura, dei fiori, dei semi. E allora Dioniso, che ha tutti quei nomi di vegetali e di animali, e Orfeo, che li incanta, sono due aspetti dello stesso modo di rapportarsi. La poesia non è un atto mentale, è un atto pratico, in quel caso. La poesia, la musica e la danza non sono distinti: i danzatori si invasano per farsi possedere da quel dio che gli darà il vino, sé stesso, il sangue direbbe Gesù. Euripide questa cosa l’ha capita.

 

Come sei passato al racconto e al romanzo, a un certo punto?

 

Avevo scritto Lettere al lupo e non sapevo dove metterle: sono poesie? È un racconto? Era troppo breve per ricavarne un libro. Le ho mandate ad Antonio Porta, che le ha pubblicate su “Alfabeta”. Dopo mi è venuto di raccogliere altri testi, che in un dialogo con Ernesto Ferrero e Roberto Cerati di Einaudi è diventato Teatro con bosco e animali (Einaudi, 1987). Al centro c’è Teatro notturno. Cos’è? Un monologo? Un racconto? Un testo teatrale? Che cos’è? Che cos’è? La tempesta è quella del Re Lear, tradotta per bene, ma è quella. Poi continuo con la tempesta raccontata da me. Non avevo ancora trovato nel mio cervello il modo per mettere in relazione l’immaginazione che sgorga naturale con lo scrivere. Però quel racconto è cardinale. Da lì comincia che poi scrivo venti pagine parecchio autobiografiche, Le due anime. Le mando a Natalia Ginzburg (le ho scritte che ero in ospedale). Poi la vado a trovare. Facciamo una passeggiata per Roma. Mi dice: “quello che mi hai mandato…”, e mi fa una smorfia, come a significare: non va bene. In quel momento ho capito tutto, come non dovevo fare. Non dovevo raccontare così, dovevo fare un’altra cosa. Quelle venti pagine le ho buttate, ma Le due anime sono all’origine di In capo al mondo (romanzo pubblicato da Einaudi nel 1990).

 

Che cosa non dovevi fare?

 

Le minuterie, confondere l’autobiografia col racconto. Il racconto doveva volare per suo conto. Non c’era lo scatto. È venuto dopo, nella casa sopra Firenze, a Colle Ramole, ho sentito che partiva, la musica. Avevo trovato il filo della mia musica narratrice, incubato per tutti quegli anni di teatro per strada, dappertutto, di cadute, di resurrezioni, di laboratori. Sono tutti anni di formazione per me. E anche i dialoghi con studenti ed ex studenti mi sono serviti moltissimo. Anche avere un più giovane fratello musicista come Aldo Sisillo per molti anni, l’Angelo di Il Diavolo e il suo Angelo. Si partiva dalla musica che andavamo scovando qua e là, arrivavano Debussy, Ravel, e però portavamo tutto vicino al cantare possibile. Con Il Diavolo e l’Angelo ho voluto provare nel mio corpo l’essere attore di parole. La lunga preparazione del testo, ancora astratto, si è misurata con quello che avevo imparato dalle narrazioni, dal danzare, dal raccontare con la musica, dall’improvvisare, il vero corpo del teatro. È stata una lunghissima prova, molto faticosa e meravigliosa, e forse mi ha dato l’entratura verso le Lettere a Dorothea (la casa Usher, 1982), che sono racconti sul teatro, però in forma narrativa, la riflessione fantastica e amorosa sul Teatro Vagante, su quel carro di contadini portato in giro a Sissa. Là miracolosamente ho trovato la chiave per entrare nel mondo dei matti, l’incontro casuale con Basaglia, sono cose che ti cambiano un po’ la vita, dopo. E questo filo del narrare mi ha proprio preso, tanto che mi sono quasi chiuso. Anche se quando è uscito Teatro con bosco e animali è venuto Paolo Pierazzini e mi ha chiesto di raccontarlo in un percorso. E così è nato il primo trekking teatrale, nell’88. Narrare i propri testi. Avevo sperimentato, perché ero andato tanto a ascoltare i narratori di favole, che ancora c’erano sull’Amiata, in Sicilia, poi avevo questo amico cui è dedicato Nane Oca, Cristiano Contri, che avevo conosciuto alla Discoteca di stato, e sono andato a Fonza a casa sua… E l’ho registrato. Lui, quando raccontava, per me era come Omero, stavo a bocca aperta e due o tre delle sue favole le ho inserita nel Diavolo e il suo Angelo. Il Diavolo e il suo Angelo raccoglie tante ricerche, anche certe intuizioni che mi si sono chiarite, come quelle su sant’Antonio abate, che ha il bastone di ferula, che è lo stesso di Prometeo. Lo pianta nella brace e raccoglie il fuoco, porta via il fuoco dall’inferno col porco… Avevo scritto testi teatrali, La commedia di Roncisvalle con bestie, La commedia del poeta d’oro, sempre cercando una forma che fosse teatrale ma anche lirica. Quante volte ho recitato le mie commedie, per esempio Fantastica visione, Scontri generali, All’improvviso… All’Accademia di arte drammatica a Roma ho narrato anche alcune scene di Zip; dopo gli allievi hanno recitato il finale di Scontri generali.

 

E poi sei andato in giro a rileggere i racconti, i poemi, i romanzi che avevi scritto, per esempio Nane Oca.

 

Perché volevo vedere se l’Euridice di Marmoreto capiva. Le prime letture, prima di pubblicarlo, le ho fatte nel Veneto, in riviera del Brenta, e mi ricordo che una delle prime volte c’erano persone di là e ho sentito che funzionava, ridevano come matti, quando facevo la battaglia delle Acque Sguaratone. Ho sentito che poteva diventare popolare, quel testo, popolare. E poi l’ho fatto cento volte in giro per l’Italia, in Svizzera… Non ho sentito dall’editore uno slancio per sostenerlo, per farlo diventare quello che diventerà un giorno. Sono sicuro che è un testo che resiste. Così per i testi teatrali, perché sono restio a pubblicarli? Perché so che devo fare un’ultima verifica, li devo provare. Commedia di matti e assassini, l’ultima, sono convinto che funziona, l’ho provata tutta, non solo le quattro scene che Luca Ronconi ha realizzato a Santacristina nel 2012. L’importante per me è che un testo resista al tempo, che gli attori vi si sentano sicuri e che i lettori trovino un po’ di carne, non perdano tempo. La vera scrittura è semplice, chiara, limpida, è un fatto di spessore e di accumulazione nel tempo. Nane Oca nasce proprio dalle parole. C’è il frammento di Peggio di Stella. Io mettevo lì parole della mia infanzia, “stella”, “ti se pexo de Stea” è un modo di dire delle mie parti. Studio un po’ e vengo a scoprire che è stato un brigante con più di cento seguaci; era un semipossidente, che si è dato al brigantaggio dopo il ‘48, ed è stato impiccato in piazza a Padova. Il suo nome è rimasto nei modi di dire. I suoi briganti forse non erano cento, ma erano spaventosi. Lì c’è stato l’incontro bellissimo con i microstorici della rivista “Terra d’Este”, Tiziano Merlin e gli altri, che sapevano tutto su Stella, che hanno cominciato a studiare il brigantaggio nelle campagne venete, di cui non si sapeva quasi niente. E questo era anche il gioco del rapporto con la realtà. Perché alla fin fine io sono un fantastico, ma sono anche un realista.

 

Giuliano Scabia racconta

 

 

 

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