Amore di cane
Perché le uniche storie d’amore oggi credibili – e credibilmente struggenti – sembrano essere quelle che legano la vita di un uomo e di un cane? Sono rare anche loro, certamente. Per un consistente numero di esseri umani il cane è una presenza verso cui riversare un generico affetto o, peggio ancora, è poco più di un oggetto, talvolta fastidioso, talvolta ingombrante, ma indispensabile per obbedire alle regole della vita dei borghesi piccoli piccoli che sono l’umanità di oggi. Ma poi, ogni tanto, accade il miracolo.
Qualcuno col proprio cane costruisce una relazione vera, profonda, totale a tal punto da non ammettere equivalenze con chi è della nostra stessa specie. È quanto è accaduto a Cédric Sapin-Defour, che in Il suo odore dopo la pioggia (tradotto da Francesco Bruno ed edito da Salani), ha descritto i dieci anni di vita trascorsi insieme al pastore bernese Ubac. E che il libro sia la testimonianza di qualcosa di eccezionale, lo rivela la natura della sua scrittura. Non è facile scrivere del proprio cane. Le decine di libri sull’argomento sono perlopiù delle mielose celebrazioni delle strabilianti imprese del proprio eroe, ripetitive e stancanti. Col condimento di considerazioni così prevedibili e comunque talmente poco interessanti da rendere legittima la domanda sui motivi della loro pubblicazione. Nulla di tutto ciò è possibile dire del libro di Sapin-Defour. E il bello è che, a prima vista, sembra contenere le stesse successioni di snodi che caratterizzano il genere. Ma, a dargli una consistenza diversa e a porlo a distanze siderali da gran parte di ciò che è stato scritto sull’argomento, è quella che si potrebbe definire “la sostanza del suo stile”. Il suo odore dopo la pioggia è scritto bene. E, se non è eccessivo supporlo, la qualità dello stile dipende dalla qualità del rapporto.
In queste pagine, senza timore di esagerare, si ricostruisce qualcosa di straordinario. Non c’è il consueto gioco dei ruoli di padrone e cane, seppur nelle sue declinazioni contemporanee, tutte piegate sul versante dell’antropomorfismo, ovvero della trasformazione del cane in uomo. No. L’autore, che nella vita è professore di ginnastica e alpinista, racconta cosa sia un autentico amore tra due esseri viventi di specie diverse. Provare a spiegarlo non è semplice perché tante strade si aprono davanti a noi. Ma la prima parola che siamo obbligati a usare è condivisione. Amare significa essere con chi amiamo quando lo vogliamo, quando possiamo, quando non possiamo, quando ne sentiamo il desiderio, quando sogniamo, quando dormiamo. Estremismo romantico? E con un cane, in aggiunta, non dovrebbe essere impossibile? Come si fa a stabilire un’insondabile convergenza con chi non possiede la nostra parola? Eppure proprio questo è il punto.
Quando per comprendersi, per cucire insieme le proprie vite, non è necessaria la parola, oppure, per rispettare quanto dice Sapin-Defour, quando i linguaggi non coincidono, paradossalmente la comprensione può farsi più assoluta. È come se ci si spogliasse un pezzo alla volta di tutte le sovrastrutture che la cultura umana ha elaborato per riannodare un legame che è contemporaneamente ancestrale e inedito. Vuol dire, soprattutto, imparare a immergersi nel mondo del cane diventando specularmente quello che lui è. Amare un cane significa imparare da lui. Che cosa, innanzitutto? A godere della libertà. Nelle zone selvatiche della Alpi francesi, dove vanno ad abitare, Ubac e Cédric girano insieme per ore, senza costrizione di guinzaglio, adeguando i movimenti dell’uno a quelli dell’altro. Respirano insieme, osservano gli stessi panorami, si stancano contemporaneamente, incontrando altri animali, comprendendo e rispettando i rispettivi limiti e attitudini.
La libertà è anche altro, però. È il rifiuto delle meccaniche idee degli istruttori cinofili che ragionano in termini di controllo dell’uomo sull’animale e che pretenderebbero una rigorosa distinzione di spazi e tempi (il cane non mangia con te, il cane non dorme con te). Libertà significa far decidere al cane se seguirti o meno, portarlo al lavoro se ne ha voglia lui, abituarlo a starti a fianco in un luogo pubblico. Non è sempre possibile, potrebbe ribattere qualcuno. Non tutti viviamo in aperta campagna. Non tutti abbiamo tempo. Ma è contro questi limiti, contro la pervicacia del cosiddetto buonsenso, contro le presuntuose barriere antropocentriche, che “Il suo odore dopo la pioggia” compie lo strappo. Per amore di un cane – incondizionato amore, ripetiamolo perché è necessario – si diventa diversi. Si acquisisce più di quello che si dà. E la prima cosa che si impara è che la vita è fatta di istanti, brevissimi e smisurati, impossibili da assoggettare sempre alla schiavitù dell’impegno. Il cane insegna a mandare tutto all’aria, Cédric spesso si assenta da scuola per stare con lui.
Il cane diventa una guida per assaporare la vita senza l’ansia di avere uno scopo, di raggiungere una meta. A Ubac non interessa dove si va durante la passeggiata, lui vuole soltanto stare fuori insieme a Cédric. Soprattutto il cane insegna che non siamo soli. Nei boschi, lungo i pendii, l’autore impara a rendersi conto che “migliaia di creature (lo) hanno scorto, esaminato, lasciato perdere”, e intorno a lui, “si sono svolte moltissime scene fra residenti con piume, con pelo, con clorofilla: trattative, lotte, seduzioni, incontri, assemblee, lezioni scolastiche, cerimonie, turni di guardia, paure e gioie, nascite e massacri, fini e inizi”. Sentire il mondo come lo sente Ubac significa diventare più attento, imparando a cogliere qualcosa della sua “grammatica delle sfumature”, andando oltre la logica tutta visiva della nostra specie. Imparare a capire che “la vita…è ovunque” e non ha senso distinguere “una natura eccezionale e una natura da strapazzo”, perché la natura “merita intera che ci si attardi in essa e si dialoghi con essa”.
Amare un cane, avvicinarsi il più possibile a lui, ben sapendo che però non si potrà mai capire il mondo come lui lo capisce (ma è già un’acquisizione importante), così come non ha senso rinunciare ad attribuirgli sentimenti che l’etologia ritiene solo umani, vuol dire quindi rifiutare il paradigma dell’eccezionalità, la “tirannia dell’insolito”. I cani non sanno che farsene dello straordinario, a loro basta vivere, aprendosi alla disponibilità, senza cercare di ridurre l’incertezza, ma anche senza la pretesa – “l’illusione” – dell’onniscienza o lo smarrimento nell’“indifferenza devastatrice”. Cédric e Ubac però non sono soli. Ben presto diventano una “muta”, dapprima di tre elementi, con l’inserimento della donna dell’autore, Mathilde; poi di cinque, con l’arrivo di una giovane cagnolina adottata, Cordée, e della figlia di Ubac, Frison. Dimostrazione che l’amore vero si estende a chi ci sta attorno (“Quella felice anomalia di una unità che non dimentica le identità ma le sublima”).
Anche se poi la vita della “muta” è una vita separata da quella degli altri umani. Del resto non è semplice, imboccando l’esistenza in un altro modo, trovare i punti di contatto con chi non ci appartiene. Perfino i “canari” non sono sempre graditi. Cédric non sopporta i gruppi che si formano spontaneamente nei luoghi di passeggio dove furoreggiano i presunti esperti, che discettano sui contenuti di omega-tre delle crocchette, o esercitano il loro tentativo di dominio sugli animali – l’obbligo della fotografia degli “amici quattrozampe” in ordine di stazza e di età. Amore equivale ad assenza di pretese di controllo, è disordine, è confusione che riempie la giornata, è far a meno di pedanterie e di spiegazioni.
Inevitabilmente il puro amore ha un unico limite, la morte, la cui forza dirompente è direttamente proporzionale all’intensità del sentimento. Più si ama, più si soffre. E qui arriviamo al cuore del libro di Sapin-Defour. Le pagine dedicate alla morte di Ubac e a quello che il resto della “muta” ha provato sono oggettivamente insostenibili. L’intensità rende complicato avanzare nella lettura, trasforma ogni parola in piombo fuso che attraversa le viscere. Ubac muore il 13 luglio del 2017, mentre i suoi umani non ci sono. Al dolore per la sua fine si associa il dolore per non essere stati presenti. Frammenti di ricordi, punture atroci di sensi di colpa, deragliamento dei sensi si raggrumano attorno al corpo del cane disteso sul sedile posteriore del furgone con cui viene condotto dal veterinario per la cremazione.
Cédric gli concederà l’estrema libertà, spargerà le sue ceneri lungo uno dei sentieri che più volte avevano percorso insieme. Ma Cédric è un uomo perso, travolto da un pianto irrefrenabile e sconsolato. Vorrebbe conservare traccia del suo odore. Vorrebbe vederlo palpitare un’ultima volta. Immagina la desolazione dell’estate senza di lui. E poi ci sono i silenzi della casa svuotata del passo di Ubac, della sua ombra, dei suoi sguardi. Ma c’è anche quell’altra “cosa”. Quell’odiosa situazione che tutti i “canuomini” conoscono: la “violenza dei grandi divari”, l’impossibilità di vivere fino in fondo il lutto per il proprio animale. L’ostilità o la fredda insensibilità di chi risponde alle lacrime con espressioni disarmanti – in fondo era solo una bestia. Il pianto per il proprio animale viene difficilmente tollerato.
Il risultato è che la morte del proprio cane scava un vuoto destinato a scivolare silenziosamente sempre più in profondità; un “abisso” che se da un lato “impedisce il lutto perché gli mancano i suoi riti collettivi, in compenso ci aiuterà in quanto ci rinsalda, sicuri delle giuste ragioni della nostra diffidenza degli altri”. E infatti seguono mesi di oscura desolazione, di isolamento, di progetti funesti, in cui Cédric cerca “ovunque quegli occhi che mi cercavano ovunque”; in cui si rende conto che “l’invivibile è rivivere”, ritornando nei luoghi dove si era stati felici con chi non c’è più; in cui comprende che l’assenza “rode… non con i pensieri lirici sull’amore e la morte, ma (con) una crosta di formaggio in mano, annientati dal non sapere che farne”. È la disperazione di chi sente con tutte le sue fibre che non aveva finito di amare.
Si tratta di pagine in cui nulla appare fuori luogo ed eccessivo, che pensiamo riescano a lasciare il segno anche su chi è refrattario all’idea che possa nascere un amore esclusivo tra un uomo e un cane. Perché è noto come l’idea che si possa preferire un cane a un essere umano – anche se non c’è nulla di più lontano dal messaggio di Sapin-Defour – dia l’impressione di essere qualcosa di contro-natura. A determinare questo insopportabile (per chi lo subisce) fraintendimento, e il libro aiuta a farcelo comprendere, conta molto l’atteggiamento che spesso porta alcuni uomini a trasformare il cane in un feticcio, in un succedaneo di un figlio, in un peluche-giocattolo, in un ornamento, in una di quelle “bestie-specchio, cui il loro padrone intima di aderire alla sua definizione di un mondo nobile e perfetto e di eleggerne lui come più degno sovrano”.
In tal senso, Il suo odore dopo la pioggia è una potente sferzata contro la logica aberrante del cane in carrozzina tristemente diffusa in questi anni confusi. Amare non significa tenere prigioniero un altro essere vivente, trasformandolo in ciò di cui abbiamo bisogno, facendolo diventare il “sintomo delle nostre nevrosi”, come scrisse Giorgio Manganelli. Significa invece condurre con lui un tratto delle nostre vite inspiegabili e fugaci, senza bisogno di interpretazioni, senza necessità di giustificazioni, senza sensi di colpa, senza rancori, godendo della presenza dell’altro, del suo odore, dei suoi occhi, delle sue scelte. Per Cédric, superata la prima lacerante fase di annientamento, amare significa portare invisibilmente ma per sempre con sé “due oggetti minuscoli ma che possono anche salvare”: una pila e una chiave. Dalla prima riceverà l’energia per amare di “un amore delicato, né cieco, né schiavo”, come era stato quello che Ubac gli aveva donato; con la seconda potrà aprire, in qualsiasi momento, la porta che conduce ad un altro mondo, “più materico e più leggero, di saggezza e di follia, di resistenza e di abbandono, una fortezza senza muri e senza morale”. Forse è per tutto questo che le ultime storie d’amore che gli dei ci concedono ancora possono essere soltanto quelle con i cani?
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