Risparmi e risparmiatori / Analfabetismo economico e pensiero magico
È capitato a tutti di sentirsi smarriti in mezzo alle discussioni di politica economica che imperversano da mesi in televisione e sui giornali italiani. Durante la durissima trattativa sul Def, autorevoli economisti e sedicenti tali hanno discettato per giorni sulla differenza fra un deficit programmato dell’1,8 e del 2,4 per cento, sugli effetti che questo avrà sullo spread e sulle tasche dei cittadini, sull’importanza di fare ‘ripartire il Paese’ o piuttosto di rispettare i vincoli europei. I loro argomenti sono entrati nelle nostre case, e così ci siamo trovati a parlare con famigliari, amici e colleghi di austerità, di moneta, di vincoli europei e di politiche keynesiane.
Ma purtroppo quando si parla di economia quasi tutti i cittadini italiani si trovano ad affrontare fenomeni e ragionamenti che non sanno da che parte prendere. Le indagini dell'Ocse segnalano che gli italiani sono agli ultimi posti nell'educazione finanziaria. Adulti intelligenti, che sanno risolvere problemi complessi nel campo della medicina o della giurisprudenza, non hanno gli strumenti per giudicare la relazione fra crescita del Pil e della spesa pubblica, fra interessi sul debito e tassazione. In Italia come sappiamo si laureano in pochi, e fra coloro che lo fanno, i laureati in economia sono solo una frazione. Ma le competenze necessarie per comprendere i dibattiti politici in realtà non richiedono anni di studio all’università. Al contrario, si tratta di semplici nozioni che si potrebbero imparare nelle scuole secondarie.
Se avete cinque minuti di tempo, vi consiglio un piccolo esperimento (basta un foglio di carta e una matita). Immaginate di vivere in un paese virtuale chiamato Italiandia. Italiandia produce un Pil di cento miliardi, e ha accumulato negli anni un debito pari a cento miliardi. Paga un interesse medio sui titoli di stato del due per cento, cioè a fine anno deve pagare due miliardi ai risparmiatori. Supponiamo che Italiandia spenda cinquanta miliardi per pagare gli impiegati pubblici, i pensionati, il reddito di cittadinanza, e per investire in nuove infrastrutture. Quante tasse deve raccogliere alla fine dell’anno, se non intende aumentare il debito?
Temo che molti lettori siano già attraversati da un moto di fastidio. Non è sorprendente: non hanno mai fatto un calcolo di questo genere, e per quanto si tratti di operazioni molto semplici (si fanno in prima media), pochi adulti sono in grado di impostare il problema in modo corretto. Se l’avessero imparato a scuola, saprebbero come mai l’Italia, come Italiandia, da molti anni produce degli avanzi primari di bilancio. (L’avanzo primario è la differenza fra le tasse raccolte e le spese dello Stato prima di pagare gli interessi sul debito – quella cifra che fa inorgoglire i nostri governanti quando si vantano del proprio comportamento ‘virtuoso’, nonostante il debito continui ad aumentare.)
Adesso vediamo cosa succede se Italiandia spende cinquanta miliardi prima di pagare gli interessi sul debito, e impone in media una tassazione del cinquanta per cento. Quanto deve crescere il Pil di Italiandia affinché non cresca il debito pubblico? (Dritta: se il Pil cresce del due per cento, alla fine dell’anno il governo raccoglierà 51 miliardi.)
E ora alcune cifre: nella maggior parte delle economie avanzate il Pil cresce meno del quattro per cento. Il debito pubblico in Italia è pari a circa 130, non a cento come in Italiandia. Infine, il Pil italiano nel corso dell’ultimo decennio è diminuito, invece di restare fermo o di crescere.
Chi è arrivato fino a questo punto è in grado di capire a grandi linee il dibattito politico nel nostro Paese. Si tratta, ripeto, di conti da prima media. Eppure pochi arrivano a questo punto, perché non hanno voglia di prendere carta e penna e perché non sono abituati a ragionare di conti pubblici. E in fondo hanno ragione: non dovrebbe essere necessario prendere carta e penna. Quando risolviamo semplici operazioni, tipo 12x3, non ci mettiamo a ‘calcolare’ – ricaviamo la risposta intuitivamente, grazie alla pratica accumulata nel corso degli anni. Analogamente, tutti noi dovremmo essere in grado di comprendere intuitivamente quali sono gli effetti di una diminuzione del Pil o dei tassi di interesse.
Gli italiani non sono stupidi. Sono piuttosto — anzi siamo, tutti noi — degli analfabeti economici. Siamo analfabeti perché la nostra educazione secondaria è stata disegnata su un modello antiquato, ostile alle scienze e in particolare alla scienza economica. Secondo questo modello l’élite del nostro Paese — i medici, gli avvocati, gli insegnanti, gli uomini politici — non avrebbero bisogno di saper ragionare di economia. Per quella basta un semplice ragioniere. Anche se nel corso di cento anni alcuni ordini scolastici sono stati riformati (per fortuna), i nostri liceali arrivano ancora all’università senza avere mai sentito parlare di mercati, di finanza, di tassazione o di spesa in deficit. Sono analfabeti economici.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se un ministro afferma che si può abolire la povertà con un decreto; che l’Europa ci impone di ridurre il deficit; o che non importa se aumenta l’interesse sui titoli di stato (lo spread). Sono grida fra altre grida, nella grande confusione che regna nelle teste di chi (noi) dovrebbe valutare le affermazioni degli uomini politici.
L’analfabetismo economico ha conseguenze concrete e anche pericolose. Le nostre teste non possono restare vuote e quindi chi non ha le competenze per ragionare in termini economici cerca di supplire in altri modi. C’è un meccanismo psicologico naturale e intuitivo che si chiama ‘rilevazione degli agenti’ (agency detection module), e funziona pressappoco così. Quando succede qualcosa di brutto o di pericoloso, è istintivo chiederci: chi ci vuole male? L’istinto di rilevazione degli agenti non esiste per caso, ma ha un’ovvia spiegazione evolutiva. Supponiamo di camminare per strada, e di vedere un mattone che per poco non ci cade in testa. Magari il mattone è caduto per caso, o magari no. Se pensiamo che non sia caduto per caso, cercheremo subito di scoprire chi l’ha tirato. Saliremo sul tetto e cercheremo qualche traccia del nostro attentatore. Se davvero il mattone è caduto per caso, avremo nella peggiore delle ipotesi perso un po’ di tempo. Ma se qualcuno invece l’ha tirato, è molto importante cercare di scoprirlo – perché potrebbe riprovarci in un’altra occasione.
Il meccanismo di rilevazione degli agenti ci fa sospettare che ci sia un mandante dietro alle disgrazie. È la base psicologica delle teorie complottiste, della superstizione, e del pensiero animista. È anche la base della teoria economica intuitiva che governa naturalmente le nostre menti: se l’economia va male, c’è qualcuno che vuole che vada male. Ovviamente è possibile neutralizzare questa teoria intuitiva e rimpiazzarla con qualcosa di meglio. Due secoli e mezzo fa, Adam Smith pose le basi per trasformare l’economia in una scienza. Lo fece, in primo luogo, mostrando che molti eventi possono accadere senza che nessuno lo voglia — sono fenomeni non intenzionali. In questi casi non è utile cercare un mandante o un colpevole, perché non esiste. Fenomeni come la crescita e la stagnazione economica sono solitamente il risultato di milioni di azioni da parte di milioni di persone con motivazioni molto diverse fra loro, che interagendo possono generare eventi imprevisti da tutti coloro che li hanno causati. Naturalmente questo non significa che non si possa fare nulla. Significa piuttosto che per risolvere i problemi socio-economici bisogna cambiare i comportamenti di milioni di persone – le quali solitamente non saranno felici di farlo (altrimenti l’avrebbero già fatto).
Chi ha fatto i conti, poco fa, ha intuito per esempio che non si può eliminare la povertà per decreto, che un debito molto alto costringe ad alzare le tasse o a fare risparmi sempre più grandi, risparmi che impedirebbero a Italiandia di investire in scuole, ospedali e strade. Nessuno vuole che questo accada. Dipende dal fatto che i soldi raccolti dallo Stato sono usati in gran parte per pagare noi stessi e i detentori esteri del debito pubblico.
Chi non ha fatto i conti invece si chiederà chi vuole farci del male, e penserà naturalmente a chi ci governa. Ma chi ci governa non vuole prendersi la responsabilità — dopo tutto, il debito pubblico c’è da molto tempo, mica l’hanno creato loro. Meglio dare la colpa a qualcun altro: i mercati, l’Euro, e la Merkel vanno benissimo per questo scopo.
Il pensiero magico e complottista imperversa particolarmente quando si parla di moneta, perché i meccanismi monetari sono complessi e contro intuitivi. Alcuni lettori avranno notato per esempio che nei conti di Italiandia non c’era l’Euro. In realtà c’era (nascosto) perché nei conti non c’era l’inflazione. La Banca centrale europea ha il mandato di contenere l’inflazione fra l’uno e il due per cento. (Negli ultimi anni ha faticato, in realtà, a mantenerla sopra lo zero.) Ora provate a immaginare che cosa succede al debito di Italiandia se tutti i prezzi salgono del dieci per cento. Anche senza crescita economica, alla fine dell’anno il Pil sarà pari a 110 miliardi, il governo raccoglierà tasse per 55 miliardi, e potrà spendere di più per scuole, ospedali e strade. Uscire dall’Euro quindi è il modo più semplice per risolvere il problema: secondo il pensiero magico, chi controlla la moneta controlla l’inflazione. Possibile che nessuno ci abbia ancora pensato?
Se avete ancora carta e matita, fate due conti e controllate che cosa è successo ai risparmiatori (e ai pensionati, e a chi percepisce il reddito di cittadinanza) quando Italiandia è uscita dall’Euro. Visti i tempi che corrono, meglio essere preparati.