Anna Weyant, Gagosian e la logica del mercato

18 Febbraio 2023

In poco meno di quattro anni, l’attenzione verso le opere della pittrice Anna Weyant è cresciuta in maniera esponenziale. Nel 2018, trasferitasi a NYC dopo avere studiato alla Rhode Island School of Design e alla China Academy of Art di Hangzhou, l’artista, di origine canadese, trova lavoro come assistente nello studio di Cynthia Talmadge (i cui quadri, foto e installazioni ritraggono il lato oscuro della società americana, tra cui dormitori vuoti e pompe funebri). Quello stesso anno, Weyant partecipa alla collettiva Of Purism presso la Nina Johnson Gallery di Miami. Espone Reposing V (2018), un rifacimento della Olympia di Manet. L’eroina del quadro ritenuto fondativo dell’arte moderna ritorna mutata nelle rocambolesche guise di una figura che si allunga, alzando la gamba destra in verticale, mentre viene fotografata da una mano che tiene un iPhone riflesso in uno specchio.

Reposing V diventa subito virale sui social, e segna una svolta nel destino algoritmico e nella vita reale di Weyant. Si moltiplicano i commenti sul web, come pure gli articoli e le interviste, le mostre e gli investimenti di denaro. Nel maggio 2022, la galleria Gagosian annuncia di rappresentare l’artista a livello globale. È la più giovane a entrare nella folta lista di autori sostenuti dal gallerista la cui società blue chip vanta più di trecento impiegati e succursali disseminate lungo il pianeta (da New York e Londra a Hong Kong, Parigi e Roma). I prezzi delle opere di Weyant levitano. Falling Woman, un quadro nel 2021 pagato USD 15,000 da Tim Blum, della Blum & Poe di Los Angeles, viene battuto nel maggio 2022 a un’asta di Sotheby’s per USD 1,600,000. A novembre, Loose screw è aggiudicato da Christie’s per USD 1,500,000.

La sua prima mostra personale alla Gagosian di NYC, Baby, It Ain’t Over Till It’s Over (3 novembre – 23 dicembre 2022) includeva opere su carta e dipinti, in particolare dei ritratti di Eileen Kelly, Emma Cline, Venus Williams e Sophie Cohen. Le quattro condividono lo status di èlite millenial: Kelly è passata da blogger ad un ospedale psichiatrico e subito dopo risorta come podcaster divulgando la propria esperienza; Cline ha pubblicato all’età di ventisette anni The Girls (2016) subito diventato un bestseller mondiale, Williams si è distinta per la sua prestigiosa carriera di pluripremiata tennista; Cohen, oltre a lavorare da Gagosian, vanta un lignaggio inequivocabile, essendo il padre Steve un influente collezionista d’arte.

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A Weyant - Reposing V, 2018, 121.9 x 152.4cm, 56 Henry.

Nel rappresentare una sorta di inner circle di donne meritevoli, Weyant le trasfigura in un rarefatto habitat pittorico, in parte celebrandole e in parte autocelebrandosi. Si direbbe che con lei attraversi una ennesima metamorfosi la figura dell’artista di corte. Uno status, quest’ultimo, rivestito da una vasta casistica di maestri della pittura. Tuttavia, laddove la reputazione dei Raffaello, Velázquez o Rubens dipendeva dal riconoscimento di qualità, precise e inimitabili, inerenti al loro saper fare creativo, adesso è diverso. I quadri esposti da Gagosian hanno poco o nulla dell’unicum. Anzi, fanno venire in mente una quantità di altre opere d’arte: di Balthus, Lucian Freud, forse Magritte, la ritrattistica e gli interni tipici della pittura olandese. Tra i suoi contemporanei, la debuttante quasi certamente ha visto, e ammirato, gli americani George Condo, Will Cotton, John Currin e Lisa Yuskavage. Non solo: oltre a questi richiami all’altra arte, oltre all’impiego di consolidati procedimenti pittorici, i dipinti di Weyant corteggiano l’ambiguità: osservandoli, l’impressione di un’immediatezza cinematografica, favorita dalla tecnica drammatica e chiaroscurale, è ben presto turbata dall’insinuarsi di una vaga sensazione di inquietudine. Ci si rende conto che i corpi e le effigi ritratte sono sospese tra lo scenario associato alle riconoscibili sembianze della loro identità (pubblica o privata che sia) e un retroscena tenebroso, se non sinistro, i cui segni sono a volte percepibili – come nel caso di Sophie, dove la donna appare in una posa reminiscente di quella della crocifissione mentre il suo piede poggia su di un’altra, caricaturale, faccia di se stessa; e non è chiaro se la schiacci, la spinga fuori dal quadro liberandosene, oppure resti in equilibrio grazie al suo doppelgänger.

Sul Gagosian Quarterly, Cline scrive che nei quadri di Weyant «C’è la qualità dell’attesa, come nelle scene iniziali di una fiaba: una ragazza, in abiti eleganti, che sta per subire l’azione di forze al di là della sua comprensione, le normali regole dell'universo si tingono di una logica onirica». L’artista è «una grande narratrice di fiabe». In accordo coi racconti fantastici, le donne da lei ritratte «sono spesso soggette a forze al di fuori del loro controllo: la strana danza di passività e potere che sperimentano, gettate nel ruolo di protagonista della storia e allo stesso tempo defangate, trasformate in abitanti di case di bambole, figure disposte nella scena da mani fuori dall’inquadratura».

Tuttavia, se la comparsa di spiriti, demoni, streghe o fate, rafforza la funzione catartica delle favole, nel nostro caso non è chiaro se avverrà la catarsi. L’indeterminatezza ha il sopravvento al livello sia della forma che dei contenuti. Formalmente, le opere si risolvono in una accomodante riadattamento del noto; si evince un misto di emulazione, passività e predazione rispetto a stili e accorgimenti visivi onorati da tempo. Riguardo ai contenuti, la sconnessione delle immagini dalla percezione ordinaria delle cose, essendo parziale, frena una incontrollata deriva onirica; nel contempo, però, smorza lo stesso pensiero simbolico arrestandolo alla blanda mescolanza di realismo e surrealtà. Il mistero, la vulnerabilità e la suggestionabilità dell’adolescenza non costituiscono tanto un motivo di scoperta, esperienza e apprendimento quanto gli elementi, o cliché, di una narrativa accolta tacitamente.

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A Weyant - Loose Screw, 2020, 122.2 x 91.4 cm, Christies.

L’immagine dipinta è l’emblema di una strenua inerzia. E il paradosso è duplice. Da un lato, per quanto ci si senta all’incipit di una favola, non è detto che la percezione di qualcosa di ignoto inneschi delle dinamiche della significazione: semmai le nega procrastinando il torpore e la paralisi. Dall’altro, analogamente, quantunque ci si ritrovi a ricordare altre opere, altri autori, non è necessariamente perché un’infinità di luoghi della memoria siano diventati accessibili alla coscienza: l’inflazione delle reminiscenze potrebbe essere il sintomo di un deficit di intelligibilità concorrente alla perdita di autentici contatti con l’arte del passato. Proprio come la condizione adolescenziale smette di implicare una radicale messa in questione del senso dell’esistenza, così la pratica artistica si adagia in se stessa e conforta il pubblico perseguendo una trasgressione temperata.

Ci si potrebbe non curare dell’exploit di Anna Weyant, se non fosse per il fatto che il suo non è un episodio passeggero, né isolato. Rientra in un processo decennale, tuttora in corso, che è andato trasformando l’identità professionale degli artisti. Specialmente i più giovani non hanno bisogno di leggere i vari Danto, Dickie o Heinrich per capire come a legittimare la cosidetta arte contemporanea a livello mondiale sia un apparato istituzionale di musei, gallerie, media ecc., gestito da individui concreti a loro volta sorretti da ineludibili aspettative, discorsi, ideologie e interessi economici.

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A Weyant - Sophie, 2022, 287 × 194.9 cm, Gagosian.

Si tratta, in breve, di forze perlopiù estranee a quelle considerazioni che, ancora in parte nel Novecento, stimavano l’arte una delle attività umane meno alienanti e le opere delle entità assolutamente singolari. Queste, se giudicate in virtù di qualità interne al saper fare creativo e di agentività antropocentriche, potevano appunto rivelarsi delle attestazioni di autonomia e libertà. Oblioso verso simili priorità, l’apparato oggi dominante accoglie e concede visibilità ai prodotti in grado di transitare facilmente, vuoi in quanto rispecchiano convinzioni, stili di vita e di consumo preesistenti, vuoi perché sfruttano vestigia storico-artistiche e tecniche della comunicazione già socialmente accettate.

Di conseguenza, gli artisti decisi a collocarsi in quell’ambito tendono a sconfessare molti dei valori fondativi della storia dell’arte occidentale, anche quando sono originari della vecchia Europa. Preferiscono agganciarsi a una cultura artistica ibrida, svincolata da tradizioni determinate, o locali, e votata agli ideali di una fluida modernità transnazionale. Mentre un sentimento del globale è rintracciabile in epoche lontane e i casi di contaminazioni stilistiche pullulano nella pratica artistica, di recente il fenomeno ha assunto dimensioni gigantesche. E la magnitudine smisurata opprime e confonde i cervelli. Contribuisce affinché il bisogno di integrazione venga malamente frainteso con l’esigenza di relativizzare i punti di vista, divinare sogni e pensieri altrui, e accordarsi a un supposto stato delle cose pur di ottenere il consenso. Possono incorrere nel fraintendimento vuoi gli artisti deferenti, vuoi quelli “ribelli” e contestatori dei poteri dominanti eppure comodamente inseriti nel sistema dell’arte o smaniosi di esserlo. 

Intitolando la mostra da Gagosian «Baby, non è finita finché non è finita», Weyant allude al carattere transiente della propria impresa, la cui durata e grado di successo sono imprevedibili. Forse le sarà anche venuto in mente il pronostico che «nel futuro, tutti saranno famosi nel mondo per 15 minuti», una frase attribuita a Andy Warhol, il primo a concepire l’arte come business dell’arte e quindi consapevole della mutevolezza del mercato e della fama mediatica. Dopo di lui, la pratica artistica si è spesso conformata a un’organizzazione simbolica dell’umanità basata sul marketing. L’entrata in scena della «Botticelli millenial» – così hanno salutato la Weyant il Wall Street Journal e Harper’s Bazaar – avviene in un momento in cui il messaggio warholiano si è pienamente sedimentato nelle menti di artisti, curatori e mercanti. Alcuni dei temi e soggetti prediletti da Weyant lasciano intendere come, con la sua opera, voglia corroborare e modularsi con quel sincretismo che, patrocinato da internet, spinge gli abitanti del pianeta ad aggiornarsi e aggiornare 24/7 un’inquantificabile massa di dati. Da questo turbinio virtuale dipendono tanto onori e riconoscimenti quanto un improvviso e impietoso oblio.

La spedita carriera di Weyant conferma come il lavoro artistico comporti oggi un’expertise affatto inusuale. A caratterizzarla non è tanto una bravura inerente al fare creativo, e ancora meno il suo assoggettamento alla logica dello scambio e del profitto; di entrambe la modernità offre svariati esempi. Indicativo, piuttosto, è che essa appare esente da regole non perché si esplichi inventivamente, semmai imprimendo un nuovo corso allo stato delle cose, artistiche e non.

Anzi, si direbbe che uno degli imperativi, occulto ma ferreo, è che tutto sia possibile. E questo lassismo produce un surrogato di liberà, conducendo all’ossequiosità e all’imitazione. Un moderato eclettismo spinge così un artista a richiamarsi alle opere del passato ignorando (scientemente?) se rappresentino dei punti di svolta, dei modelli da contestare o da accogliere e radicalizzare. Un ulteriore indizio di conformismo è che un artista sottoscriva un principio di realtà propagatosi sul pianeta grazie all’infosfera, scegliendo dei temi e dei soggetti di dominio pubblico, ossia familiari a chiunque frequenti i social media. Proprio come nel caso delle star ritratte da Warhol, figure tipo quelle di Venus Williams e Eileen Kelly devono parte della loro celebrità alla larghezza di notizie circolanti sul loro conto grazie alle iperveloci tecnologie della comunicazione.

Insomma, almeno nel contesto dell’industria dell’arte governata da tycoons del calibro di Gagosian, un artista “professionista” è un “professore” (i due termini sono interscambiabili già nel Settecento) detentore di un sapere diventato contraddittorio, che non si palesa agli altri. Rinnega l’etimo del “professare” e manca a se stesso, appare estraniato dalle forme dell’arte quanto dalle forme di vita a cui rimanda. Questa mancanza sembra tuttavia propizia al tipo di prestazione offerta e richiesta. Fa sì che un’opera possa circolare in un numero illimitato di ambiti come una valuta che vale unicamente perché, svuotata e convenzionale, si rivela capace di essere scambiata con altro: denaro, commenti, pubblicità o influenza mediale sono alcuni dei beni ad essa equivalenti. Però, stando così le cose, un tale professionalismo non scade in un’attività estremamente fatua? È questo ciò che si vuole? La pratica artistica, smentendo la teologia della rivelazione, servirebbe quale prova indiretta non della morte di Dio bensì del fatto che non è mai nato, che non è avvenuta l’incarnazione?

Sono domande che richiedono tanto tempo e tanto spazio prima di riuscire ad avvicinarsi a delle risposte. Ma chi è impaziente e capace di apprendere velocemente può percorrere anche un’altra via, consigliabile in quest’epoca di grandi accelerazioni, quella di mettere al bando i professionisti e fare posto unicamente a riflessioni dedicate ai dilettanti e ai maestri.

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