Gaetano Pesce a Napoli: arte e interpretazione
L’esposizione pubblica di Tu si na cosa grande di Gaetano Pesce al centro di Piazza Municipio di Napoli ha suscitato polemiche e pareri contrastanti. Non ho avuto modo di vedere l’opera di persona, ma non credo sia importante ai fini di quello che mi preme dire. Mi ha colpito una dichiarazione della curatrice Silvana Annicchiarico riportata (fedelmente?) sul Corriere della Sera del 10 ottobre 2024:
«Il bozzetto e il modello rispettano in scala la forma che Gaetano aveva ideato: in piazza la dimensione reale può effettivamente favorire l’interpretazione fallica. Ognuno vede quello che vuole nell’arte, ed è giusto così. Io credo che bisogna porre l’attenzione su quello che rappresenta la figura trasformativa ed enigmatica di Pulcinella nella tradizione popolare partenopea, che è maschio ma anche femmina o nessuno dei due. L’opera è alta, ma esile, maestosa ma fragile: elementi fondamentali sono i tiranti che tengono figurativamente in equilibrio l’instabilità dell’essere Pulcinella. La maschera è tutto e il suo contrario: i tiranti ricoperti di romantici fiori tengono insieme le sue identità». (corsivo aggiunto)
Nello specifico, vorrei soffermarsi su due affermazioni, in qualche maniera complementari nel sottoscrivere un preciso intendimento dei fenomeni artistici. La prima è che «ognuno vede quello che vuole nell’arte» e la seconda è che «la maschera (di Pulcinella) è tutto e il suo contrario». In simili parole risuonano pensieri e detriti di pensieri che hanno segnato la storia dell’arte e della teoria dell’arte nella modernità. Invero, riflettono l’esito di una serie di aspirazioni, azzardi, utopie, cause perse e fallimenti.
Gli artisti otto-novecenteschi, specialmente i più carismatici, si sono impegnati su due fronti in particolare. Per un verso, hanno lottato affinché l’arte abbandonasse preoccupazioni di tipo formale e confluisse nell’esistenza, rinsaldando la propria portata evenemenziale e abolendo la barriera tra arte e vita, artisti e non artisti; ciò accade, per esempio, nel 1916 al Cabaret Voltaire di Zurigo con il tentativo dadaista, il quale critica l’arte come istituzione sociale e persegue, quantunque senza successo, una pratica di vita capace di realizzare quanto precedentemente relegato nell’ambito dell’inventività artistica. Per l’altro verso, invece, gli artisti moderni hanno mantenuto la fiducia post-rinascimentale nell’opera quale entità autonoma, la cui insulare purezza è ora giustificata non tanto in ragione di codici condivisi e norme prestabilite bensì in base a parametri soggettivi e in virtù di un’inclinazione “modernista” volta all’introspezione, all’analisi e alla scoperta di nuove forme esperienziali e conoscitive; di ciò si ha un riscontro, per esempio, nella naturalizzazione del classico auspicata da Cézanne, nel nero di Malevič che attesta un aldilà non visibile, o nell’ordine plastico equilibrato e universale perseguito da Mondrian.
Non appena toccato un tale apice di consapevolezza, però, le cose tendono a vacillare. L’ascesa si arresta e ha inizio la caduta. Nel corso del Novecento, le prospettive dischiuse dai due paradigmatici orientamenti di vita come arte e di arte come vita perdono di attendibilità e si opacizzano, grazie anche al contributo di una latente simmetria tra formalismo e antiformalismo, tra modernismo e antimodernismo. L’uno è il gemello spettrale dell’altro, anelando entrambi al raggiungimento di una meta ultima – che il primo identifica nell’autotrascendenza della forma e il secondo nell’immanenza della vita –, ciascuno a suo modo produce l’effetto opposto di far precipitare l’arte verso una condizione in cui tutto e il suo inverso sono ugualmente ammissibili. Benché in ambo i casi il traguardo agognato sia l’unità degli opposti, una biunivoca corrispondenza tra creazioni e creature, l’esito è invece una totale de-differenziazione in cui le due polarità vengono deprivate dei propri limiti e qualità specifiche.
Dopo la caduta, il relativismo e un malcelato disincanto hanno avuto la meglio nel campo delle cosiddette pratiche artistiche contemporanee. A riguardo, si riceve infatti un’ennesima conferma dalle due succitate frasi di cui la curatrice si serve allo scopo di “giustificare” l’opera di Pesce. Se la maschera di Pulcinella è una cosa ma anche il suo opposto è perché tutto è ammissibile in arte: le forme e i linguaggi adottati dagli artisti sono oggi tanto liberi o deregolati quanto ambivalenti e suscettibili di interpretazioni contrastanti e interminabili. Questo affrancamento verificatosi in seno all’attività artistica sarebbe appunto uno dei motivi trainanti del fatto che abbiamo il diritto di vedere quello che più ci aggrada nelle opere d’arte.
Da ciò derivano una serie di corollari alquanto paradossali. Mi limiterò a segnalarne qualcuno. In primo luogo, se si è d’accordo che si possa vedere quel che si vuole nei fenomeni artistici allora potrebbe anche darsi il caso che non ci sia alcunché da vedere in essi. Altrimenti detto: se ignoriamo (forse non lo abbiamo mai saputo, forse non lo sapremo mai) cosa sia un’opera d’arte, non è perché l’arte sfuggirebbe a definizioni preconcette e il lavoro degli artisti avrebbe la facoltà di generare quel che non rientra nell’ordine dei discorsi vigente nel momento in cui un’opera appare o viene prodotta. Invece di costituire un elemento inconscio ma attivo nella significazione, invece di influire nel determinare quel che l’opera è o fa, stavolta l’ignoto è la cifra di un confortevole stato di permissivismo condiviso da artisti e pubblico. Attiene semplicemente alla tacita accettazione che le opere costituirebbero degli specchi in cui riflettersi a piacimento: una sorta di vacuum disponibile ad accogliere le nostre incontrollate proiezioni di senso. Se così, però, allora è naturale chiedersi se le opere non siano inevitabilmente qualcosa di superfluo. Delle entità curiosamente prive di significato eppure nondimeno efficaci nello stimolare i sensi e la mente che tuttavia si ritrovano a loro volta tanto attive quanto perse in un vacuum.
Una volta accettata l’assenza di un limite o differenza tra un’opera e tutto il resto, tra l’arte e la non arte, il lavoro degli artisti sembra rivelarsi superfluo anche per un ulteriore motivo. A stimolare la possibilità di vedere quel che si vuole vedere non sono esclusivamente i prodotti dell’arte. Si possono fare delle analoghe esperienze al contatto con un numero illimitato di altre cose più o meno percepibili nel mondo, culturale e naturale che sia. Forse nel caso dell’arte un tratto (tuttora?) caratterizzante è che la scoperta dell’incommensurabilità del “tanto” tenda a coincidere con quella del “niente” da vedere. Ad ogni modo, resta una questione aperta se l’ostinazione a produrre ed esibire delle opere d’arte riuscirà a immunizzare artisti e non artisti dall’incombente minaccia di cecità.
Un altro corollario degno di nota è che, nel suddetto scenario, vengono a mancare molti dei motivi validi per recarsi in visita ai musei. Che siano dedicati all’arte del momento o all’arte del passato, in entrambi i casi la fruizione e la gratificante sensazione di un accesso finalmente democratico sono spesso dipendenti dalla remissività e passività delle opere che (per ragioni misteriose) si sarebbero come arrese alla volontà altrui. Compiacenti verso i desiderata di curatori iperattivi e di un pubblico “piacione”, esse avrebbero smesso di distinguersi quali presenze indipendenti, di resistere ai frettolosi scatti dei cellulari, di azzittire le chiacchiere dei turisti o la parlantina delle guide.
Andy Warhol ha affermato di preferire i grandi magazzini ai musei. E non aveva tanto torto. Doveva aver intuito come il nesso tra forma e significato, contenitore e contenuto, stranamente reggesse molto meglio nell’ambito delle merci che in quello delle arti. Le merci si stagliano al di là del bene e del male. Appaiono disinibite rispetto al loro status di seducente simulacro e restano tali (un profumo è un profumo, delle scarpe sono delle scarpe, etc.) esattamente nel mentre corroborano l’iconofilia e l’estasi del consumo. Ma davvero, come profetizzava Warhol, bisogna ormai intendere l’arte quale business dell’arte costruito sulla mutevolezza del mercato? Non sarebbe invece opportuno forzare le gabbie del relativismo alimentato dall’ideologia del marketing e domandarsi se le opere d’arte, del passato come del presente e del futuro, soffrano allorché viene loro impedita o disconosciuta la capacità di creare, custodire e trasmettere una gamma di valori, sentimenti e pensieri non soltanto inequivocabili ma per cui valga la pena di vivere, finanche a dispetto della cultura simbolica prevalente.
In conclusione: non so se, durante la mia prossima visita a Napoli, mi affretterò a raggiungere Piazza Municipio, e ancor meno se sarò impaziente di tornare nelle sale del Museo Archeologico o di Capodimonte. Purtroppo, però, non potrò nemmeno ripiegare andando in pellegrinaggio nei grandi magazzini. Gli anni che ci separano da Warhol hanno reso pure questi ultimi dei luoghi alquanto indistinti, offrendo più o meno gli stessi beni da apprezzare a Napoli come a Parigi, New York, Londra o Milano.