Arte e influencer / Chiara Ferragni. Finale di partita
Si avverte una sensazione di déjà-vu osservando come Chiara Ferragni si pone innanzi agli occhi del pubblico. E non perché si serva di arcinote tecniche di marketing e pubblicità; adotti l’onorata professione di blogger; riproponga i manierismi di coloro che raccontano di sé su Instagram; sfrutti la fusione tra le industrie creative e quelle del lusso e della moda; ottimizzi il gossip quale strumento comunicativo; crei assuefazione apparendo vuoi una persona affabile vuoi un’ingegnosa affarista, imitabile nei suoi exploit.
Così descritto, il fenomeno ammonterebbe a un rimescolamento di carte già sulla tavola. Da ottima ape regina, Ferragni avrebbe attinto la larva da più parti, assimilato la filosofia del management e compreso che per produrre plusvalore occorre infiltrarsi in ogni recesso del sociale, assoldare un numero sempre maggiore di api operaie. L’immagine di sé che comunica è consona alla Milano berlusconiana e post-, ma anche a tanti luoghi similmente popolati da borghesi autocompiaciuti e proletari ignari di esserlo, imprenditori rampanti e sedicenti creativi. Pur non essendo il suo target visibile, essi le sono di ispirazione.
Nel guidare i Millennials nella scelta di comportamenti, stili e consumi, l’influencer li induce ad assumere un atteggiamento ambivalente. Per un verso, alimenta la frenetica rincorsa delle novità, dalla shirt “supercool” all’accessorio “più glam”, e di quanto sembra trasgressivo della norma; per un altro verso, infonde e/o condivide dei sentimenti di attaccamento verso le più ataviche strutture interrelazionali. La duplicità deriva dal suo presentarsi tanto nelle sembianze di giovane di talento, elegante donna d’affari, frequentatrice di raffinate località turistiche e di ristoranti alla moda, quanto in quelle di moglie, madre, sorella e figlia. Vero, verosimile o fittizio che sia, il risultante ritratto la colloca in una classe di persone affluenti che curano i propri interessi e privilegi, e sanno che nel lavoro occorre tenere il passo coi tempi.
Ciò detto, si potrebbe liquidare la faccenda asserendo che Ferragni non è la prima nel suo genere né sarà l’ultima. A dispetto di una campagna mediatica che vorrebbe farci credere in un miracolo, in un’ascesa dal nulla, le cose sono molto più prosaiche. Quindi non c’è motivo di occuparsene. Del resto, chi volesse approfondire il tema avrebbe a disposizione una ampia letteratura che da tempo analizza il riproporsi di simili fenomeni nelle società ipermoderne.
Così facendo, però, non si è fatta luce sul perché di quel déjà-vu. Anzi si rischia di fasciarsi la testa. Oltre a primeggiare quale avatar digitale, testimonial pubblicitaria capace di rilanciare la hybris del business e della ricerca e/o conservazione dello status sociale, Ferragni è l’emblema di un amalgama di fare e significare che, dopo avere toccato il suo apice nell’epoca moderna, è andato via via scadendo nella genericità di tante altre pratiche lavorative e/o creative. La influencer, cioè, fa venire in mente una lunga storia di cui lei costituisce uno degli sbocchi. Merita attenzione perché conferma la saturazione di un processo. E, nel nostro caso, si tratta di un vero finale di partita, di uno scontro di cui si ignora, o si finge di ignorare, che sia avvenuto. La rimozione è giustificata perché più ci si allontana storicamente da quell’evento e maggiormente, qualora ritornasse alla coscienza, ci sarebbe da constatare (con lucida amarezza?) che le aspirazioni di coloro che provocarono il conflitto sono andate perse. A distanza di tempo, seppur inconsapevolmente, Ferragni è lì a rievocare la perdita. La sua effigie mediatica riapre una ferita che potrebbe anche non essersi rimarginata. Ma di che si tratta?
L’ipotesi è che il déjà-vu riguardi sì le metamorfosi del lavoro nel cosidetto Occidente, ma sia anche (profondamente) connesso a una serie di istanze affiorate nella storia delle arti visive. Dalla seconda metà del Settecento in poi, l’arte tende a desacralizzarsi, smette di avere una funzione precisa, in passato garantita dal suo porsi al servizio dell’aristocrazia e/o del clero. Gli artisti si ritrovano a produrre in uno scenario pieno di incognite. Le loro opere circolano nello spazio aperto della società, esponendosi al giudizio di un pubblico anonimo le cui aspettative rimangono inscrutabili. Decisivo nella legittimazione dei fenomeni artistici sarà il libero mercato: la notorietà di quadri e sculture dipenderà dalle dinamiche contrattuali che presiedono al loro acquisto e vendita. Questa svolta epocale, per lo più accolta con remissività, fa registrare anche un crescente dissenso. Una fioritura di opere, dichiarazioni e comportamenti che pongono una rimarchevole enfasi sulla vita e sulla soggettività dell’artista. Già nel milieu degli autori romantici, e con diramazioni che arrivano almeno fino ai 1960, tale orientamento riflette la convinzione che la scoperta di un senso della vita dipenda dall’elaborazione di espressioni che le siano adeguate. Se gli artisti si percepiscono e vengono percepiti come delle figure paradigmatiche è perché nella loro pratica l’espressione e la realizzazione di sé possono coincidere.
Questa convergenza diviene un obiettivo etico e politico: raggiungerlo equivale ad affrancarsi dal giogo che opprime sia i praticanti delle arti sia gli operai che in fabbrica forniscono la propria forza lavoro come mera merce. Sul fronte artistico, le rivendicazioni di indipendenza spingono verso un’espressività radicale, irrispettosa di limiti disciplinari o di un gusto prefissato, ma incontrano anche resistenze. E il conflitto si andrà acutizzando. L’aspirazione a rendere la propria vita e la vita in sé il tema dell’arte comporta una rivoluzione dei linguaggi concomitante a una trasformazione della società. Tanto che alcuni artisti proveranno addirittura a far saltare ogni distinzione tra l’arte e l’esistenza, l’arte e la non arte.
Nell’ambito della storia del lavoro in generale, l’indistinzione è d’obbligo specialmente nella recente epoca del capitalismo finanziario. La vita stessa diviene materiale di scambio in un’economia di servizi ed esperienze dove il lavoro deborda nel non lavoro, risultando immateriale, mentale e vagamente creativo. Nel frattempo, la propagazione delle tecnologie digitali ha accelerato queste dinamiche ingarbugliando reale e virtuale. Con il dissolversi dei confini tra comunicazione, consumo, informazione e comportamenti, l’organizzazione del lavoro arriva a reclutare tutte le energie psicofisiche individuali nel mercato globale. Le facoltà generiche della nostra specie – quali quelle di creatività, linguaggio, sensibilità e intelletto – costituiscono i mezzi biologici che i lavoratori contemporanei devono attivare per alimentare la propria duttilità mentale, emotiva e fisica.
Da una parte, i teorici della biopolitica (Michel Foucault in testa) lasciano intendere che non sono tutte rose e fiori. Si sono innescati dei meccanismi di manipolazione, sfruttamento e omologazione sotto la tutela di poteri che sorvegliano e orientano corpi e cervelli verso la condivisione di un medesimo, totalizzante principio di realtà. Quest’ultimo funge da schermo o specchio: è la grande bolla nella quale gli abitanti della Terra possono ritrovarsi, rimuovere le differenze di classe e supporsi gli uni uguali agli altri nel desiderare, sognare e incontrarsi nei meandri di un metaverso illimitato eppure accessibile, di cui internet e le proteiformi attività svolte sui social media sono alcune delle manifestazioni. Dall’altra parte, però, si moltiplicano le voci degli ottimisti, come, per esempio, quella di Richard Florida. Il suo The Rise of the Creative Class (2002) elogia le doti creative degli individui come elemento decisivo nella crescita economica e nella competizione professionale. Non a caso, nel frattempo le offerte di lavoro pubblicate da The Economist elencano la creatività tra le doti auspicabili negli eventuali candidati. Si fomenta un silenzioso biasimo per le anime semplici dei non creativi – sono loro i perdenti, i dannati della Terra –, mentre cresce l’ammirazione per una élite di cittadini industriosi, veri job sculptors. Ed è su tale orizzonte che spunta la stella di Ferragni. La sua attività simboleggia la potenziale illimitatezza delle frontiere del business nonché la presa collettiva di una mentalità sincretica ormai dominante.
Ma c’è di più. L’immagine pubblica dell’imprenditrice presenta una connotazione estrema, che i vari Florida non avevano previsto. Riguarda quel che veramente viene messo in vendita. Non è il prodotto di per sé ad assumere preminenza per qualche sua proprietà intrinseca, o in ragione di una sapiente campagna pubblicitaria che lo esalta, bensì la vita tout court di Chiara Ferragni. Chi entra in contatto virtuale con lei si ritrova vis-à-vis con una miriade di immagini che la mostrano individualmente, in coppia con il marito Fedez e in associazione con i membri della sua famiglia. È una narrativa che rivela forza e fragilità, contrasti e affetto, ordinarietà di vedute ed esclusività di alcune abitudini dei singoli e del gruppo. Non si capisce perché ci si dovrebbe appassionare a questo racconto se non si è ammaliati, o comunque incuriositi, dal successo, commerciale e non, di cui godono i protagonisti. Ma un tale successo è però inesplicabile senza tener conto della simpatia e del fascino esercitati da Chiara & Company.
Questa vita trasformata in una parade di pubblica intimità assomiglia in parte a quella raccontata in The Truman Show (1998), il profetico film di Peter Weir. L’eponimo protagonista (Truman Burbank) non sa di essere l’attore involontario di uno spettacolo televisivo, un racconto della sua vita, ripresa in diretta sin dalla nascita, quando viene adottato da una emittente televisiva che è proprietaria di ogni aspetto della sua esistenza. In contrasto con Truman, Ferragni sa che la sua è una vita scientemente vissuta come spettacolo. Ed è una scelta che molti individui sono ormai disposti a fare. In anni recenti, l’accettazione di una detenzione “alla Truman” diviene volontaria nei reality show dove, allettati dalla retribuzione monetaria, i partecipanti sottoscrivono un contratto in cui si impegnano ad accettare una serie di condizioni, quali quelle di garantire alla produzione i diritti illimitati sulla storia della loro vita, di cui la produzione può fare quel che vuole. Probabilmente non si era visto prima un caso di legalizzazione della messa in vendita di sé o di parti o momenti essenziali del proprio vissuto. (E verrebbe da chiedersi se il deplorato e illegale commercio degli organi non sia poi tanto diverso). Anche qui però Ferragni si distingue lievemente; almeno nella versione mediatica di se stessa è lei ad essere attrice e regista, a detenere i copyright.
Si comincia ad afferrare le ragioni del déjà-vu. Nel porsi 24/7 al centro delle transazioni che la definiscono vuoi sul piano professionale vuoi su quello umano, Ferragni annulla le distanze tra saper fare creativo, esistenza e lavoro. Ricalca alcuni dei medesimi meccanismi della significazione messi a punto dagli artisti otto-novecenteschi per un fine diametralmente opposto: la lotta all’alienazione della creatività che affligge la società capitalista. Essi avevano colto come l’arte dimostrasse che gli esseri umani sono dotati di una risorsa di infinito di cui ci si può avvalere per modellare la propria e l’altrui vita al di là dei diktat dei padroni di turno. Adesso, però, la prospettiva è rovesciata; lo è talmente che non si scorge l’altra faccia se non si ammette che la storia dell’arte moderna andrebbe studiata come una storia di fallimenti. Il Novecento registra un graduale assorbimento di ideali e pratiche elaborate dagli artisti e in seguito appropriati, deformati e normalizzati prima dall’industria culturale e poi da quelle del lusso, della moda e delle tecnologie della comunicazione.
Il caso Ferragni è un capolinea di questa vicenda. Laddove, da Courbet a Joseph Beuys, l’arte procede assieme all’ambizione di istituire delle comunità di uguali – nel 1871, il pittore francese fu uno dei controversi protagonisti della Commune di Parigi; nel 1973, convinto assertore che “la rivoluzione siamo noi”, Beuys promuove a Düsseldorf una libera università internazionale devota allo sviluppo della creatività –, il fare gruppo con Ferragni non prevede equilibrio o autogestione tra i soggetti coinvolti. Essi potrebbero implodere entrambi: la influencer scoprendosi visibile nella misura in cui persuade gli altri a condividere un’aggregazione simulata, e i suoi devoti sentendosi privi di una particolare volizione se non quando assecondano gli impulsi di consumatori-recipienti di merci, immagini e notizie. E ancora. Laddove per molti artisti è stato imperativo non solo arrivare alla rottura dello specchio della rappresentazione – rivendicando così di essere loro gli unici detentori del diritto di rappresentarsi –, ma anche far sì che rimanesse una traccia, un residuo di vita nelle loro opere o nelle impressioni o ricordi degli altri, una specularità senza fondo contraddistingue l’impresa di Ferragni: più è o diviene celebre e più di lei resta quel che i media tecnologici trasmettono, duplicano e preservano, senza necessariamente tramandare un significato vivo o situato.
Si può obiettare che gli artisti moderni erano egocentrici quanto gli imprenditori di oggi. Ma gli autoritratti del narcisista Courbet non implicano un automodellarsi imposto dalla convinzione che gli affari sono affari, bensì un “lavorare per diventare uomo più che pittore”, un condursi che accresce la sua autostima, gli fa rifiutare l’offerta di patrocinio del ministro Nieuwerkerke rispondendo che anche lui, Courbet, è un governo. Le soirées dada a Zurigo, ludiche e anarchiche, piuttosto che una rinuncia all’impegno civile, mirano a organizzare (anche se, alla lunga, senza successo) una nuova prassi di vita improntata sull’arte. Quando Duchamp dichiara che preferisce respirare anziché lavorare non sta deponendo le armi della critica ma suggerendo che la sua visione dell’arte comporta una resistenza alla mercificazione delle opere e la rivalutazione dell’esemplarità della figura stessa dell’artista.
Ferragni agisce in un mondo capovolto rispetto a quello appena evocato.
C’è stato un passaggio di mano. A dimostrare la plasticità dell’umano non è un’arte desiderosa di trasmigrare nella vita ma l’opera di una lungimirante professionista: la sua esistenza svolge una funzione virtuale simile a quella del lavoro astratto. Il mondo capovolto confida nell’ubiquità del creativo affermata dagli artisti moderni unicamente in quanto rafforza l’intuizione pilota del neoliberismo per cui una società può reggersi su un sistema di valori prodotto dal mercato che la ordina, unisce e regola legittimando dalle performance sociali all’imprenditorialità, fino alle stesse scelte di vita. L’infinità della persona umana viene rimossa in un incessante baratto dove le energie vitali vengono monopolizzate dal processo di compravendita. In esso, le menti di chi vende e chi compra non sono onorate bensì indebolite o distrutte nella loro facoltà di incarnare la specificità di pensieri, emozioni e percezioni autonome. Nelle storie dell’arte e del lavoro ci si ritrova con due solitudini: quella di una passata genia di artisti, il cui progetto incompiuto è ormai incomprensibile, e quella simboleggiata da Ferragni.
Quest’ultima rischia di rimanere sola non perché costretta a proteggersi nel “privato”, ma perché più il lavoro si confonde con la vita e meno le riuscirà di vedersi se non immaginandosi e/o costruendosi attraverso la fantasmatica vigilanza dello sguardo degli altri. È a questa libertà vigilata che gli artisti avevano tentato di opporsi. Mentre L’Atelier di Courbet o gli Happenings di Allan Kaprow auspicavano una solidarietà tra persone intente a riconfigurare il mondo su basi nuove, è il mondo così com’è a dettare le leggi della co-appartenenza digitale di cui Ferragni è l’icona catalizzatrice. In entrambi i casi ci si appella alle energie umane, stimandole un valore impareggiabile, nel primo, e una valuta scambiabile, nel secondo.
Ma il problema che qui si è voluto segnalare tocca la sfera dell’arte più che quella del lavoro. Da qualche decennio abbondano gli artisti emuli di Warhol, il geniale inventore dell’arte come arte del business. Ce ne sono di sfacciatamente tali, ma anche di travestiti da ribelli infervorati o da paladini dei diritti delle minoranze, i quali, tuttavia, passivamente accettano i diktat di un sistema dell’arte strutturato in vista del profitto. Questa compiacente adattabilità indica quanto sia diventato labile il confine tra artisti e affaristi. Non solo: se cercano visibilità e consenso, gli artisti non farebbero meglio a prendere esempio da Ferragni piuttosto che inserirsi nel ristretto contesto di gallerie e musei che oggi promuove il commercio mondiale delle opere d’arte?
L’impasse non vuol dire che l’arte e la sua storia si siano esaurite, o che occorra affrettarsi a teorizzare quel che viene dopo. Piuttosto si è compiuto un ciclo. Alcune frange di artisti avevano tentato di far saltare ogni dicotomia tra arte e vita giudicandole portatrici di valori inesprimibili e inappropriabili se non per rendere la nostra e l’altrui esistenza degne di essere vissute. E la parola “degne” suggerisce come la lotta intrapresa mirasse alla realizzazione di idee quali quelle di giustizia, libertà e uguaglianza. La loro sconfitta non solo coincide con il consolidarsi di altri parametri di vita, dove la ricchezza diviene il metro nell’attribuzione dei meriti altrui e l’opportunismo la regola dei rapporti tra persone. È anche la riprova che si va perdendo di vista il carattere esemplare che un’attività millenaria come quella artistica potrebbe assumere nella storia della nostra specie. Sorta di archetipo di ogni attività umana – dalle sette meraviglie celebrate dagli antichi alla trasfigurazione della materia in atto nella pittura astratta novecentesca –, il saper fare creativo degli artisti è diverso dalla comunicazione. Apre squarci verso realtà alternative. Può affrancare dalla caoticità e dall’opprimente determinismo di un fato inscrutabile.
Quindi, il déjà-vu suscitato dall’immagine pubblica di Ferragni è un memento mori? Di certo, lo si comprende solo andando indietro nel tempo ed elaborando il lutto di una sfida persa malamente. I vincitori hanno cancellato le tracce dei vinti appropriandosi del loro grande sogno, stravolgendolo e rilanciandolo per fini opposti. Al momento, è arduo argomentare che i prodotti o creazioni degli artisti non andrebbero consumati come consumiamo qualunque altro prodotto. Che l’arte si collochi – o si sarebbe collocata – agli antipodi della produzione di quei beni ambiti e acquistati non tanto per qualche loro caratteristica intrinseca ma perché favoriscono coidentificazione tra ampi strati della popolazione o perché confermano l’elevata posizione sociale di alcune élite. Tutto ciò fa problema per quegli artisti avversi a questo stato di cose. Avranno difficoltà ad elaborare forme e significati che non siano, anche quando sembrerebbe altrimenti, complici in uno stallo.
Al contrario, nel mondo abitato da Ferragni si direbbe che le cose procedano con facilità e leggerezza. Nel 2020, la direzione degli Uffizi avalla un servizio fotografico di Vogue Hong-Kong, in cui l’influencer appare in posa vicino ad alcune delle opere conservate nel museo fiorentino, in particolare dei dipinti di Botticelli (al quale è dedicata, nell’autunno di quell’anno, una mostra all’Hong Kong Museum of Art). L’episodio è stato oggetto di numerose polemiche, ma qui merita rimarcare che hanno subito un torto l’artista, le opere d’arte e la stessa Ferragni. Nel Bel Paese, mentre vengono trascurate la formazione all’arte e la cura della sua coscienza storica, l’istituzione museale beneficia dal turismo di massa. E non le basta. Afflitta dalla malsana ossessione di attrarre sempre più visitatori, specialmente le nuove generazioni, suppone di avere trovato un numen ex machina nella giovane imprenditrice, la quale, tra l’altro, vagamente assomiglia alla bella Simonetta effigiata da Botticelli.
Nel guardare le foto, ci si rende conto di come Ferragni abbia lavorato in maniera impeccabile, però le immagini la mostrano non in un atteggiamento di dialogo o confronto vis-à-vis con l’arte bensì con i dipinti alle sue spalle. L’impiego di questa composizione tipica di milioni di selfie ci trasporta in un regno di reduplicazioni abissali e di capricciose mescolanze tra le verità di ieri e quelle di oggi. Appena si rompe l’incanto, ci si chiede però se Botticelli possa mai legittimare Ferragni, e se Ferragni possa fare da testimonial a Botticelli. Illudersi che bastasse associare i due, porre l’una dietro l’altra le iconiche immagini di entrambi, ha fatto precipitare in una voragine nullificante la vita e il significato del quadro, l’identità di Botticelli e quelle delle due donne, la Simonetta del ritratto e la Chiara dentro e oltre le foto di Vogue. Questa (involontaria?) confusione ci riporta a un altro reportage fotografico di Vogue, nel 1951, nel quale delle modelle posano innanzi alle opere di Jackson Pollock. Quelle foto sono state descritte, da Timothy J. Clark, come l’incubo del modernismo, di una pratica pittorica che si ritrova suscettibile alla manipolazione nonostante il suo impegno a interagire con la storia attraverso un uso altamente introspettivo dei propri mezzi semiotico-espressivi. Si potrebbe definire lo shooting agli Uffizi un flashback della Waterloo di un altro schieramento influente nella moderna concezione dell’arte.
Nonostante le fosche tinte del quadro qui tratteggiato, una nuova partita è possibile. Forse è già iniziata. E la posta in gioco non potrà più essere la confluenza dell’arte nei flussi della vita, una politica attivata mediante un’esteticità diffusa, tantomeno la riabilitazione della virtuosità professionale degli artisti, che era uno dei cardini del succitato modernismo. Questi due tentativi sono collassati, incapaci di demolire il muro innalzato da coloro che credono nell’equivalenza di arte e denaro, noncuranti degli abusi e fraintendimenti che ne conseguono. Ma è possibile aprire una breccia? Non sono economia e arte incompatibili, essendo rispettivamente una realtà che prolifera a patto di privarsi di significato, e un significato che nasce e si inscrive nella realtà?
Quel che l’avversario teme è il riconoscimento delle opere d’arte quali beni culturali e non economici. Non a caso l’adagio “Quando sento la parola cultura, afferro la pistola” attecchisce nell’ambito del Terzo Reich, mentre la versione neoliberista parla di portafogli invece che di pistola. L’idea di bene culturale inquieta, va soppressa con il potere delle armi e del denaro. Implica la lunga durata di un patrimonio genetico della nostra specie: di un millenario comunismo che sopravvive alle sue stesse rovine perché compiutosi grazie alla creazione di cose la cui origine e destinazione sono integralmente umane, ovvero non assecondano altri fini se non quelli di perfezionare lo stato emotivo, cognitivo ed etico della singolare forma di vita che siamo. Smarrirsi o rinnegare questa semplice verità compromette le capacità di giudizio dei cittadini dell’informazione. Rende non solo ottusi ma ripetutamente distratti dai déjà-vu.