Massimiliano Civica rilegge la tragedia greca / Antigone e il corpo del fascismo
Nel 1977, in Germania, un volo della Lufthansa viene dirottato da alcuni militanti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Nei giorni successivi, tre membri detenuti della RAF (gruppo terroristico di estrema sinistra, legato al Fronte) si suicidano nelle loro celle. Nel clima politicamente incandescente, nessun cimitero tedesco accetta di accogliere i tre cadaveri: per giorni i corpi dei terroristi rimangono senza sepoltura.
L’anno successivo a questi avvenimenti, un gruppo di autori tedeschi – tra loro anche Fassbinder – dà vita a un film collettivo (Germania in Autunno, 1978). Nell’episodio Antigone rinviata, scritto da Heinrich Böll e diretto da Volker Schlöndorff, si mette in scena una discussione fittizia in un emittente nazionale; qualcuno propone di trasmettere una riduzione per lo schermo dell’Antigone di Sofocle, ma si decide poi di non correre il rischio di infiammare o influenzare l’opinione pubblica. La tragedia greca non andrà in onda: la parola di una delle più celebri eroine tragiche viene ritenuta troppo pericolosa per il contesto politico nazionale.
Il diritto alla sepoltura appartiene all’essere umano? È un diritto inalienabile, qualsiasi cosa abbia compiuto? Ci sono momenti storici in cui è legittimo mettere in discussione questo diritto?
Per Polinice, quel giovane tebano perso nella nebbia del mito, ogni lettore di Antigone è pronto a rispondere. Ma cosa accade se proviamo a far riverberare la questione posta da Sofocle nelle zone più irrisolte, doloranti e rimosse della nostra storia politica?
Massimiliano Civica, con la sua Antigone (che ha debuttato a novembre al teatro Fabbricone di Prato) manifesta la volontà di riattivare tutto il potenziale critico e destabilizzante del testo sofocleo. Per farlo agisce, come ogni buona regia, su due fronti: lo scavo profondo del testo, ottenuto attraverso una traduzione interpretativa esito di due anni di studio; un segno visivo semplice, di chiara leggibilità e di fortissimo impatto simbolico. Partiamo da quest’ultimo. Sulla sinistra del palco un fantoccio (il disegno è di Paola Tintinelli) si offre agli occhi del pubblico per l’intera durata dello spettacolo: è il cadavere di Polinice, con il volto smangiato dagli avvoltoi e dai cani randagi. Indossa una divisa da fascista, con guanti e stivali neri, l’aquila sul petto. Poco dopo, entra in scena Creonte (Oscar De Summa): ha un fazzoletto rosso al collo e una divisa da partigiano. Non serve altro: Civica, fidandosi dell’intelligenza del pubblico, non offrirà nessuna sottolineatura verbale alla sua silenziosa rivoluzione nella tradizione recettiva di Antigone. Quel Creonte che, da Brecht al Living Theater, siamo abituati a considerare l’incarnazione del totalitarismo ora cambia camicia, e le sue nuove vesti non si lasciano ridurre facilmente in definizioni monolitiche; altrettanto complesso, dall’altra parte, è tenere vivo il sentimento di pietà per un cadavere che in vita potrebbe aver torturato, ucciso, deportato altri esseri umani. Il medesimo scarto si sarebbe forse prodotto evocando l’immagine di un terrorista contemporaneo, proprio come accade in Germania in autunno (su questo tema, si legga di Sotera Fornaro, L’ora di Antigone dal nazismo agli anni di piombo); ma Civica si tiene volutamente lontano dal rumore di fondo della stretta attualità, per restare in una dimensione più universale e simbolica. L’immaginario sul fascismo è in questo senso materia fertile: è stato narrato così tante volte da diventare a sua volta mito; è uno dei più ingombranti rimossi della nostra storia nazionale. Il corpo del fascismo resta là, sotto gli occhi di tutti, impossibile da seppellire, dimenticare, elaborare.
Anche attraverso il copione Civica prende posizione decisa su molte questioni chiave della storia di Antigone. Lo fa, anche qui, senza clamore e sottolineature, prendendosi il rischio di lasciarle nascoste; la sua traduzione raschia via con forza gli strati della ricezione, le abitudini traduttive e i significati che nei secoli si sono sovrapposti al testo, per restituire intatte le linee di tensione del dettato tragico. Il punto di partenza – Civica lo illustra per esteso nel nutrito libretto di sala – è che Creonte non sia un tiranno autoritario, ma un uomo liberale che governa utilizzando gli strumenti allo stesso tempo limpidi e contraddittori della democrazia; e che Antigone, al contrario, lotti per perpetuare quelle “leggi non scritte” di cui l’alta aristocrazia ha sempre beneficiato. E la traduzione agisce di conseguenza: il ghenos di Edipo è “una casa reale” e le sorelle figlie dell’incesto sono “principesse”. L’Antigone di Civica, splendidamente incarnata da Monica Piseddu, è una elegantissima donna upper class, vibrante di sdegno e di distacco. Una delle battute di punta per tutte le Antigoni-pasionarie (“non sono nata per condividere odio, ma amore”) prende qui tutt’altre sembianze: “Io non sono nata per odiare, ma per amare chi ha il mio stesso sangue”. Andare contro lo stato di diritto è un privilegio dei pochi? Antigone sta lottando per un diritto umano o per una vicenda singola e personalissima?
Nell’operazione di politura testuale, il risultato più sorprendente si rileva negli interventi corali. Dei lunghi brani lirici che affaticano sovente lo spettatore contemporaneo, o che tentano di non disperderne l’attenzione attraverso rocambolesche trovate visive, non resta nulla: solo un dettato asciutto e accessibile, portato con la saggezza impotente dei vecchi che assistono ai rivolgimenti della storia, dal corifeo-personaggio Marcello Sambati.
Nel cambio di pesi e di geometrie sulla scacchiera di questa Antigone, anche il ruolo di Ismene ne esce completamente trasformato. La galleria di figure fragili, paurose, scarsamente coscienti che ha popolato la storia delle rappresentazioni viene spazzata via dall’Ismene consapevole di Monica Demuru. Non sono solo la sua postura e il suo dettato a fare la differenza; è anche la funzione nella drammaturgia scenica a riequilibrare i pesi. La vediamo uscire dal quadrato di luce creato da Gianni Staropoli – unica traccia di spartizione in uno spazio vuoto – e riversare il suo pugno di polvere sul cadavere di Polinice. Anche lei ha dato il suo contributo, a bassa voce, senza che nulla nel testo lo sottolinei; l’ha fatto per precedere sua sorella, per ottenere il suo stesso risultato senza enfasi, per evitarle l’inevitabile suicidio. Non servirà: Antigone si farà cogliere sul fatto per innescare il meccanismo tragico. L’ipotesi che la prima sepoltura avvenga per mano di Ismene è, nella storia della critica del testo sofoclea, un’interpretazione minoritaria. Ma poco importa la filologia: qui la scelta drammaturgica ha un riverbero fondamentale sulla figura di Antigone la cui urgenza – sembra emergere – è abbracciare il suo destino eroico prima ancora che rendere onore al fratello morto.
Il demiurgo inconsapevole dell’ingranaggio di morte è la guardia che coglie Antigone sul fatto e la consegna a Creonte. Nel testo sofocleo i due episodi che lo riguardano sono una piccola perla di commedia incastonata in un gioiello tragico (su questo tema ha scritto pagine importanti Dario Del Corno in I narcisi di Colono): la guardia si trova nei guai perché il corpo di Polinice è stato seppellito sotto la sua supervisione, e riesce poi a farla franca consegnando la colpevole al suo capo. Esattamente quando finisce (bene) la commedia della guardia inizia la tragedia di Antigone e Creonte: è con l’accostamento delle due parabole opposte che Sofocle potenzia l’efficacia della macchina drammatica. Qui ad animare con gusto il saliscendi di registri è Francesco Rotelli, che incalza Creonte con un vivace accento romanesco e sfodera dal suo bagaglio attorale tutti i sapienti trucchi del comico. Quando si ritrae, accostandosi a margine del quadro scenico, non c’è più niente da fare per Creonte: gli toccherà restare vivo, guardare impotente la sua vita personale e politica naufragare, assumere su di sé le contraddizioni tra il rigore della legge e la terribile e imprevedibile meraviglia dell’essere umano. La scena finale, con Oscar De Summa che tenta invano di articolare una possibile parola che dica il dolore, custodisce il cuore dello spettacolo: è del fallimento, non del successo, che dobbiamo occuparci. E la tragedia si ripeterà ancora e ancora, se non sapremo ripartire dagli errori politici, mettendo mano al corpo maleodorante dell’errore senza lasciarlo da parte, come un cadavere buttato a marcire.
Dopo Prato, lo spettacolo si può vedere al teatro Astra di Torino fino al 15 dicembre, all’Arena del Sole di Bologna dal 16 al 19 gennaio, al Lac di Lugano il 21 e 22 gennaio. al teatro India di Roma dal 18 al 30 aprile.
Fotografie di Duccio Burberi.