Arena: l'ottima aria del carcere
Cosa distingue il libro di Aniello Arena da altri che raccontano di vite buttate nelle nostre carceri sovraffollate, sotto accusa da parte dell’Unione Europea per trattamenti contrari all’umanità e degradanti, ben lontane da svolgere quel compito di “rieducazione del condannato” che vorrebbe l’articolo 27 della Costituzione? Arena ha un ergastolo sulle spalle; viene da Barra, un quartiere periferico e disperato di Napoli. È diventato attore a Volterra, in quella Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo che da venticinque anni risponde con spettacoli che aprono la mente alla chiusura tra mura spesse e sbarre. È diventato un volto noto al grande pubblico perché Matteo Garrone lo ha chiamato a fare il protagonista di Reality, premiato al Festival di Cannes.
La fama lo ha portato sui giornali e nelle televisioni: ha rilasciato interviste alle testate di mezzo mondo; nella trasmissione di Fabio Fazio ha letto una pagina molto emozionante sulla sua rinascita a una seconda vita grazie al teatro, al cinema, all’arte. Ora è uscito un volume da Rizzoli, L’aria è ottima (quando riesce a passare). Io attore fine-pena-mai, in cui Maria Cristina Olati, con bella e agile scrittura, gli fa raccontare la sua vita, con l’infanzia difficile, gli scippi, gli incidenti di percorso, l’accusa di omicidio che Aniello respinge proclamandosi innocente, la via crucis attraverso carceri senza speranza, come Poggioreale o la Dozza di Bologna, dove si dorme accalcati nelle celle, dove i rapporti sono di pura violenza, fino all’arrivo a Volterra e l’annuncio di un’aria nuova. Lo scrive nel prologo: «Arrivo a Volterra che è novembre, è sera e fa un freddo cane… non vedo niente, mi è venuto mal di stomaco per le curve, ce ne sono tante. Maronna mia, ma dove mi stanno portando…»; e poi, lui che ne ha girate tante di carceri, e le elenca tutte, sono quasi tre righe, sente qualcosa di nuovo: un colloquio umano, e la guardia che lo accompagna in cella, non lo sbatte in cella. Questa coscienza delle sfumature della lingua, confessa, l’ha raggiunta oggi, attraverso il teatro, lo studio, il cinema, un processo lungo: «il 26 novembre del 1999 ero ancora un pezzo di carne che camminava».
Oggi Aniello Arena è asciutto nel fisico, vestito sempre con cura, di scuro, con glamour minimale perfino. Durante gli anni dell’odissea tra gli istituti di pena era arrivato a cento chili, non capiva, non aveva uno spazio, si ingolfava di cibo, come fanno molti tra quelle mura. Indossava tute informi... L’unica cosa che non ha cambiato è la faccia da scugnizzo impunito, molto curioso, alquanto melanconico, con un qualche altrove lontano, misterioso, dipinto nello sguardo. Come quando Luciano, il protagonista di Reality, si sente scrutato dalle telecamere che dovrebbero sceglierlo per lo show televisivo di cui desidera essere protagonista.
fotografia di Guido Mencari - www.gmencari.com
Basta poco per farlo scattare: un palcoscenico, e si trasforma nella più antica delle maschere napoletane, Pulcinella, senza nessuna oleografia, con gli scatti meccanici, surreali, burattineschi di Totò, uomo e oggetto insieme, uomo ridotto a oggetto dalle cose, dai casi, dagli altri, che esplora disperatamente una possibilità di umanità. Così era il suo Tebaldo in Mercuzio non vuole morire: il macellaio, l’assassino, quello che uccide Mercuzio, il poeta paradossale che rivendica il diritto a parlare di nulla, di fate, di fumo e fiabe; Tebaldo l’acchiappasorci. Per poi, all’improvviso, dopo aver infilzato, ammazzato, tolto di mezzo, ritrovarsi sperduto, senza sapere più chi fosse: «Io sono… io ero… Tebaldo…», mentre con scatti irresistibili del corpo diventa Fortunello, Totò, un ridicolo clown che gioca con le vite degli altri avendo smarrito la propria.
Parlavo all’inizio di differenza tra il libro di Aniello e i racconti scritti da altri detenuti. Per esempio quelli raccolti nel volume Mala Vita. Racconti dal carcere, a cura di Antonella Bolelli Ferrara, che raccoglie i venticinque finalisti del concorso Goliarda Sapienza (edizioni RaiEri). Scorre l’umanità costretta, maghrebini, albanesi, italiani, soldati bambini arrivati in Italia dall’Africa; traffici internazionali di cocaina, storie di normale miseria e emarginazione.
Ph. Stefano Vaia
Sembra di non vedere mai la luce di una speranza. Siamo nelle carceri quali sono, quella “pattumiera sociale” di cui parlano gli esperti, luogo di contenzione più che di rieducazione, ancor più grazie a leggi sciagurate come la Bossi-Fini, il pacchetto successivo sulla sicurezza del 2010 che introduce il reato di immigrazione clandestina, la legislazione sull’uso di droghe e la legge ex Cirelli sulla recidiva, che condanna un ladro di polli che torni a ripetere lo stesso reato a non cadere mai “in prescrizione”, come più facilmente avviene a un grande truffatore finanziario che sappia, grazie a avvocati profumatamente pagati, prolungare i tempi del processo. Scorre il carcere come rimedio alla Paura sociale, tutta l’Italia sbagliata di questo Ventennio, del regime in cui abbiamo vissuto e da cui sicuramente non usciremo presto: troppe sono le macerie, culturali prima di tutto. Ogni racconto di quel libro, più o meno disperato, è introdotto da uno scrittore: e spesso non se ne sente il bisogno, maggiore è la forza della scrittura, della testimonianza, rispetto ai compitini che vogliono contestualizzare.
Ph. Stefano Vaia
Con Aniello, con la sua storia passata attraverso un’altra penna, mentre lui dichiara che «sta studiando», è diverso. Si affaccia la speranza, di un’altra vita possibile. Perché non è un singolo, ma una parte di un progetto che ha saputo ascoltare persone, non “detenuti”, e dare loro la potenza di liberarsi dalle sbarre. È il teatro di Armando Punzo che è riuscito non solo a creare una compagnia che fa spettacoli meravigliosi, premiati come i migliori prodotti nel nostro paese per varie volte con Premi Ubu, superando, in certi anni, artisti come Carmelo Bene, Luca Ronconi, Romeo Castellucci (questa meravigliosa avventura la racconta un altro recente libro, scritto dal regista: È ai vinti che va il suo amore, (Edizioni Clichy). Punzo ha cambiato un carcere intero, che era ritenuto uno dei più duri e dove adesso si respira un’aria diversa. Il suo progetto di trasformare un luogo di pena in un istituto di cultura è riuscito pienamente. Anche se è lui stesso il primo a non essere soddisfatto.
Ph. Stefano Vaia
Aniello ci testimonia questi passaggi. Chiudo con un estratto dal suo libro e con un post apparso domenica 29 novembre sulla sua pagina Facebook (sì, ora Arena è in semilibertà e lavora a tempo pieno con la Compagnia della Fortezza).
L’ultima pagina del libro:
«Quando un giornalista mi chiede se un uomo può cambiare, io rispondo che – a parte le eccezioni – il cambiamento può esserci dentro di noi, a patto che anche fuori cambino le condizioni. Penso che l’esistenza di ognuno può trasformarsi con gli incontri giusti e con un forte atto di volontà. Perché ci sono vite che scorrono dritte come linee rette, altre che hanno bisogno di qualcuno che le raddrizzi. Questo a me è successo: ho incontrato Armando che è andato oltre il mio marchio di fabbrica, ha scommesso su una possibilità, e io mi sono potuto pensare diverso. Il suo teatro è stato lo strumento, non previsto, con cui la rabbia, invece di continuare a mangiarmi l’anima, si è trasformata in passione.
Ero un ragazzo che veniva da una periferia feroce, non sapevo articolare un pensiero in italiano, e non immaginavo potesse esistere un altro mondo. Per uno come me, non c’era salvezza. Non è facile, ma certi territori dovrebbero essere assediati di scuole, bravi insegnanti, attività ricreative, corsi di teatro. I guaglioni che tengono ‘o ffuoco, come ce l’avevo io, s’abbruciano, ma solo così qualcuno di loro si può salvare».
E su Facebook scrive, pubblicando la foto di tutta la compagnia con anche qualche agente di sorveglianza intorno all’assessore alla cultura della Regione Toscana, Cristina Scaletti, nel loro spazio prove, il più piccolo teatro del mondo, nove metri per tre:
«Siamo la compagnia più multietnica e importante d'Italia e non siamo ancora riusciti ad ottenere un teatro stabile nel carcere di Volterra!!! Sono 25 anni che esistiamo, andiamo in giro a fare spettacoli nei migliori teatri italiani; abbiamo vinto con gli anni premi prestigiosi tra cui 5 UBU e tanti altri premi importanti, ma ogni volta che dobbiamo portare uno spettacolo in giro, non abbiamo un teatro per fare le prove!!»
Evoca l’idea di Punzo di un teatro stabile in carcere: il progetto per cui si batte contro una burocrazia che non si accontenta di risultati evidenti e rimane sorda, tetragona, a difendere quegli spazi cosparsi di macerie che nessuna utopia sembra possa rimuovere.
Il libro verrà presentato oggi, lunedì 13 dicembre, alle 19.00 presso La Libreria del Cinema di via Fienaroli 31/b a Roma con Goffredo Fofi, Maria Cristina Olati e Armando Punzo.